IL CRISTALLO, 1960 II 1 [stampa]

RITORNO DEL CARDUCCI

di FRANCESCO FLORA

Conversazione tenuta il 16.12.1959

 

Il titolo di questa conversazione «Ritorno del Carducci» potrebbe essere interpretato come l'affermazione di un ritorno avvenuto pienamente e magari clamorosamente. Nel cinquantenario della morte del Carducci si è anche tenuto un congresso sulla'opera carducciana promosso dall'Università di Bologna. Ma sebbene una nuova attenzione al Carducci non sia mancata, non v'è ancora verso di lui e verso il significato della sua poesia e della sua prosa quella nuova e convinta adesione che a me sembra improrogabile e necessaria. È vero tuttavia che oggi non potrebbe più avvenire quello che è capitato alcuni anni fa, quando due giovani critici italiani, facendo un'antologia della poesia fino ai tempi nostri — antologia notevole, che ha parti certamente bene elaborate — sentivano di poter saltare da Giacomo Leopardi ai poeti del tempo nostro. Carducci per essi non esisteva, come non esisteva il Pascoli e non esisteva il D'Annunzio. Mancanza evidente di senso storico. Ma forse noi dovremmo chiederci le ragioni per le quali ad un certo momento la continuità di una grande tradizione si è come spezzata, cosicché è parso che il Carducci non dicesse più nulla alle nuove generazioni. Dico «è parso», perché poi basta leggere i poeti con animo capace di collocarli nella sfera storica della loro realtà per riconoscere quello che in essi è vitale. Il Carducci già agli uomini della mia generazione sembrava come lontano, e per una parte questa lontananza è vera anche oggi. E se vogliamo intendere il Carducci in tutta la sua grandezza (e non esito un istante a fermarmi su questa parola «grandezza»), bisogna collegarlo alla grande tradizione dei maggiori poeti dell'Ottocento italiano.

Nella mia adolescenza correva la triade Carducci-D'Annunzio-Pascoli. Ora è chiaro che per certi aspetti la formula di questa triade non era arbitraria: la poesia di un Pascoli e soprattutto direi la poesia di un D'Annunzio risentono fortemente dell'opera di Giosuè Carducci. Ma con essi incomincia qualcosa che è del tutto diverso nell'arte italiana, e che risponde, del resto, a quel che è mutato nell'Italia e nel mondo. Il Carducci credette nella classicità come in un fatto che non era una formula; era una certezza morale ed era una certezza letteraria. Col Pascoli, il mondo della classicità entra in fermento: Pascoli lo sente come un paradiso perduto; il D'Annunzio sensualizza fino agli estremi il cosiddetto paganesimo del Carducci facendone una realtà ferina, istintiva, lussuriosa, la cui umanità è appunto in quel tradursi del senso elementare nella parola: l'umanità di D'Annunzio infatti nasce sui sentimenti elementari, non direi sui sentimenti assoluti dell'uomo.

Come porremo noi la figura del Carducci nella continuazione della tradizione? Appunto ricollegandolo, come dicevo prima, ai grandi poeti dell'Ottocento, anche se da essi egli si distacca per una netta ragione di originalità che cercheremo di mostrare quale sia. Forse converrà, sia pure molto sommariamente, delineare il cammino della poesia carducciana. Carducci comincia giovanissimo con poesie che si direbbero di acceso romanticismo. Era inevitabile: viveva in una atmosfera di romanticismo che aveva i suoi forti campioni, quelli che sono stati chiamati i secondi romantici. Ma nello stesso tempo egli cominciava ad avvertire una violenta avversione a ciò che in Italia era diventato il romanticismo: tra l'altro un'avversione, ora giusta, ora passionale, verso il Manzoni, soprattutto per la questione della lingua. Il Carducci che nella prima adolescenza aveva scritto versi romantici con un patetico che forse meglio si sarebbe chiamato sentimentale, comincia a guardare al mondo antico, al mondo della Grecia, al mondo dei Latini, non già in una maniera esterna, ma come per riprendere un motivo profondo e intenso: l'adesione alla vita piena, accettandone tutti gli elementi, così di gioia come di dolore, accogliendo senza rancore anche la fatalità della morte. La vita in questa totalità può sembrare facilmente accettabile; eppure la maggior parte dei poeti dell'Ottocento la ricusava. Pensate la realtà quale si presenta a Giacomo Leopardi; il mondo non è che male, noia, vanità, il mondo dunque è ripudiato; e come il Leopardi fa la sua poesia quando la parola produttiva supera questo mondo che egli crede di aver potuto abolire e che invece agisce nel suo sentimento umano, ecco che tra la sua mente e la sua vitalità di uomo, l'una che nega e l'altra che sente la realtà, si viene a creare un dissidio che si compone soltanto nella parola produttiva: il Leopardi canta magari tutto il dolore del mondo, ma lo fa diventare una presenza così artisticamente positiva c così alta che il dolore e il suo parziale concetto sono superati nella catarsi che ristabilisce così la sintesi. Leopardi così sul più bello di un inno come il Passero solitario (io lo chiamo inno, e non intendo fare un genere letterario), finisce per cantare la vita nonostante che la neghi, e muta l'elegia in inno, se esce a dire:

Primavera d'intorno
Brilla nell'aria e per li campi esulta.

E chi ha sentito ed espresso con più energia quel mondo che la parola sentenziosa e secca e perfino dispettosa della mente riusciva a negare? Il sentimento del poeta aderiva a quella realtà. E vorremmo prendere questo primo esempio per ripetere come l'arte di questo grandissimo tra i nostri poeti sia sorta vitalmente produttiva su una concezione negativa che invece la sua parola creatrice finisce col negare e superare; ma fra la concezione speculativa e l'innocenza della pura voce poetica non esiste alcuna coincidenza.

E ponete ora la poesia, l'opera tutta del Foscolo. Il mondo per il Foscolo è anch'esso un terribile luogo di umane sciagure che per mutare di soli non cessa di esser tale. Ricordate le ultime parole dei Sepolcri:

... e finché il Sole
Risplenderà su le sciagure umane.

Ma l'animo del Foscolo a questa concezione pessimistica repugnava e si ribellava; e il poeta finì col dichiarare che bisogna vivere e agire come se la premessa pessimistica non esistesse: l'azione avrebbe negato quella premessa. Ma comunque anche nel Foscolo ed in tutta la sua poesia produttiva, anche ridando alla forza della sua vitalità umana tutto il valore che la mente speculativa gli negherebbe, si constata una mancanza di sincronismo tra le due cose. E tra le due non è già un ritmo, una mediazione dialettica: c'è proprio, per fortuna, questa virtù sovrana della parola che essendo produttiva per se stessa finisce col contraddire e annullare la premessa negatrice.

È un po'più difficile parlare della concezione che un poeta come il Manzoni professò dell'esistenza, specie se dobbiamo parlarne a proposito del Carducci. Il Manzoni è un uomo che anch'esso non crede, col suo pensiero, alla realtà della vita, se non come a una realtà transeunte; per lui il mondo vero comincerà ad essere soltanto nell'al di là; e ciò si riverbera nei suoi scritti, e perfino nella sua morale di vita. Il Manzoni aveva una immensa sfiducia nelle forze dell'uomo e soprattutto un'immensa sfiducia nella ragione umana. Forse molti ricorderanno l'episodio da lui narrato del giudice a cui si presentano coloro che sostengono ciascuno la sua particolare tesi, e il giudice dice al primo: «Avete ragione», e dopo aver ascoltato il secondo non esita a dirgli: «Avete ragione anche voi»: ed è presente un ragazzo il quale chiede: «Ma come possono avere ragione tutti e due?» E il giudice risponde: «Hai ragione anche tu». Questa è veramente la suprema sfiducia nella ragione umana come tale. Il mondo del Manzoni è tutto ordinato verso una realtà superiore che si attua nell'oltremondo.

Ecco come quella che io chiamavo l'adesione alla vita, dalla quale parte Giosuè Carducci, è posizione molto diversa da quella dei suoi grandi predecessori dell'Ottocento, i quali arrivano alla poesia vincendo la resistenza di una premessa negatrice con la forza estremamente vitale del loro sentimento; vincono anche le resistenze della ragione che avrebbero potuto portarli a non più scrivere. Se Leopardi avesse potuto continuare a ragionare sulla vanità delle cose, avrebbe sentito anche ahimè la vanità della sua poesia, e per fortuna non l'ha sentita: questa vanità per sublime contraddizione non l'ha sentita: la produttività della parola creatrice è restata contro la vanità del tutto. E lo stesso si avverta per il Manzoni; se egli si fosse fermato a tutte le obiezioni mentali e moralistiche che anche non so quale pigrizia gli suggeriva, non avrebbe mai scritto I promessi sposi. Si pensi la cosiddetta questione dell'amore. Chi abbia presente il Fermo e Lucia, che è la prima stesura del romanzo, avrà notato che a un certo momento egli si domanda se nei romanzi si possa e si debba parlare dell'amore, e risponde che non se ne deve parlare, perché di amore nella vita ce n'è per lo meno seicento volte più di quello che è necessario alla conservazione della specie. Aggiunge che non bisogna far consentire neppure agli amori onesti, giusti. E qui reca una ragione che è leggermente ironica, dicendo su per giù che il racconto di fatti amorosi potrebbe turbare il giovane sacerdote o la zitella che non ha interamente passata l'età sinodale. Comunque è chiaro che per il Manzoni lo scrittore non deve far consentire nemmeno agli amori buoni. Ma la vitalità dell'artista rinnega subito questo pensiero: infatti a questo punto nel Fermo e Lucia sapete che cosa fa il Manzoni? Racconta gli amori della monaca di Monza, che non sono nemmeno onesti. Così tra il pensiero come tale (la concezione della realtà che si professa) e il sentimento vitale che invece è potente e cerca tutte le vie per dare alle cose una forma, esiste una condizione di dissidio.

Per Carducci tutto questo non avviene. Quando il Carducci fin dalla giovinezza adotta per la sua concezione della realtà la parola «paganesimo», contrapponendola polemicamente all'ascetismo (e sia pure qua e là schematico e un po'di maniera), afferma che la vita terrestre è una realtà alla quale l'uomo non si deve sottrarre: una realtà che impone la necessità di aderire alle cose, alla natura e alla storia terrestre dell'umanità e nello stesso tempo rinnovare, mediante il lavoro il mondo. Il giovanile affermarsi di questo paganesimo, più morale che fisico, diventerà assai più vivo nelle opere della maturità; ma già non è astratta la sua professione della mitologia. Quando si parla di mitologia sembra si evochino soltanto anticaglie insane: oggi soprattutto che della mitologia nelle scuole si conosce assai poco. Ma la mitologia per il Carducci non era una disciplina in cui certe favole antiche ricorrevano per questo o quel richiamo più o meno accademico: la mitologia era nient'altro che l'unità, se così potesse dirsi, tra la vita dell'uomo e la vita delle cose. I miti che si trovano negli elementi naturali, o, se volete, indigeni, le varie deità, erano qualcosa di reale: non più deità da adorare in significato di religione pagana, ma in quanto rappresentavano un legame d'intelligenza tra l'uomo e le cose: una corrispondenza dell'uomo con l'universo. Quando il Leopardi cantò: «Vissero i fiori e l'erbe — vissero i boschi un dì» volle significare questa partecipazione del modo naturale alla vita dell'uomo, altrimenti la parola «vissero» non avrebbe avuto valore, in quanto tutte le cose della natura vivono: egli voleva dire che vissero umanamente, partecipano cioè alla vita degli uomini. E questo è ancora il significato che alla mitologia dà il Carducci, esprimendo la piena adesione alla terra, al sole, all'amore, al lavoro, al mondo che è «bello» e all'avvenire che è «santo». Scrisse in gioventù che per lui la mitologia non è affatto una cosa esterna ma una cosa profonda, perché «vera poesia non è che là», e vuol credere nelle Muse e in Apollo sempre, e che quando sarà per morire si farà leggere Omero.

Tanto è vero che questo culto della mitologia è un culto della vitalità delle cose e del rapporto tra l'uomo e le cose, che più tardi il Carducci cercando di definirlo, dirà che è culto della forma. Ora la parola «forma» è tra le parole più abusate che esistano, ma in realtà egli significava niente altro che il culto della totale realtà alla quale l'uomo pienamente dava tutto se stesso: era «l'amore della nobile natura». Potrei leggere molte pagine a questo proposito, e illuminerebbero dal vivo il suo pensiero. Ma, costretto come sono dal tempo, vorrò consigliare la lettura di una almeno delle lettere che egli su questo tema scriveva alla sua amica Lidia. L'epistolario del Carducci — diciamolo pure tra parentesi — ha destato grandi entusiasmi in questi ultimi anni e con ragione. È uno degli epistolari più belli, non soltanto della nostra letteratura, ma di ogni letteratura; e da esso vien fuori un grande prosatore, di alto temperamento, il quale tratta non solo le questioni letterarie più diverse, ma anche manifesta una straordinaria capacità di esprimere i più vari sentimenti umani, compreso l'amore con una impetuosa schiettezza, che tuttavia è sempre sorvegliata con estrema rattenutezza e direi pudore verbale. In queste lettere, una sopra tutte mi sembra interessante, ov'egli dichiara alla donna amata la sua posizione di fronte alla letteratura del tempo, e dice che ormai non soltanto non si può più essere manzoniani, ma non si può neppure essere leopardiani. Il leopardismo è stato un pericolo per il Carducci, e a un certo momento un pericolo di vera perdizione; ma ecco come in questa lettera del '74, egli si presenta in tutta la propria originalità: «Oggi è il naturalismo che pervade tutto» — e questa parola «naturalismo» è interpretata nel significato che ho già detto prima, altrimenti sarebbe un mero sostantivo letterario, — «oggi è l'umanesimo che deve trionfare, oggi è l'ellenismo che ha da risorgere. Del resto il Leopardi è un gran poeta, ma i leopardiani sono di gran buffi e sconclusionati animali. Bada, che, in conclusione, dai leopardiani ai manzoniani, salvo la superiorità poetica del Leopardi sul Manzoni, ci corre poco; oh poco, poco. Sono gli uni e gli altri addietro di cinquant'anni e mi paiono i pietisti della letteratura. Oggi vogliamo tornare al greco puro, sereno, tranquillo, oggi vogliamo l'ellenismo umano, il paganesimo vitale».

Credo che questa lettera confermi l'interpretazione che io ho cercato di dare, non soltanto del concetto della mitologia presso il Carducci, ma di tutto quel suo paganesimo che ho detto fisico e morale, e potrei, con apparente paradosso, dire paganesimo cristianizzato: intendendo che il Carducci, negando l'ascetismo del cruciato martire che crucia gli uomini, accoglie le conquiste morali umanitarie del cristianesimo. Ma qual è la poetica che frattanto egli si viene formando? V'è un periodo nella vita del Carducci in cui egli cedendo ai dolori che la vita gli ha offerto, soprattutto dopo la morte del fratello, sembra decisamente abbandonarsi al pessimismo totale di chi veramente non ha più fede nelle cose. Ma in fondo nemmeno allora il Carducci poteva tradire il vero se stesso. E quale fu la via stranamente provvidenziale per la quale si riattaccò alla vita, alla realtà? Fu la sua partecipazione di uomo di lettere alla vita politica, alle polemiche che in quel tempo sorsero. Osservò già il Panzacchi, non soltanto suo contemporaneo ma assai vicino ed amico al Carducci, che questa poesia, ispirata dall'azione, la poesia, poniamo, di «Leva Gravia» e dei «Giambi», finì col togliere il Carducci da quella specie di pendio nel quale stava scivolando verso forme negative, verso le forme del nulla. Ecco che attraverso questo superiore inganno, se volete, della poesia politica (e a mio avviso il Carducci della poesia politica è stato un grande artefice, come era un grande cittadino, ma non sempre un poeta), egli poi è riuscito a trovare i temi suoi più vari, i temi suoi più profondi, nati soprattutto dal suo sentimento della vita, come adesione al presente, e anche più a ciò che nel presente è più carico di anni (se così potesse dirsi), a quello che nel presente è la presenza del passato. Su questo argomento il Carducci ha scritto una pagina grande. Un tempo correva la formula: «Carducci, poeta commosso della storia», e pareva indicare soltanto alcuni temi storici della sua poesia: deve invece indicare lo spirito di questa sua poesia secondo le grandi parole che egli scrisse: «La poesia, per quanto sino a un certo segno legittime e ogni giorno più invadenti appaiano le esigenze del presente, la grande poesia aspira pur sempre al passato e dal passato procede: i morti sono senza possibilità di novero maggior moltitudine che i vivi; e gli spazi del tempo occupati dal trionfo della morte, senza possibil paragone, più immensi e tranquilli che non il breve momento agitato dal fenomeno della vita. Ond'è che le fantasie de'poeti possono in quelli liberare al volo tutta la loro energia, e le mille sembianze immobili, comparando, ricomporre e scaldare, con l'eterna simpatia umana nell'epopea, nel dramma, nella maggior lirica; mentre le sembianze del presente sempre fuggevoli e in continua alternazione, non lasciano alla facoltà artistica fermarle fino alla trasformazione ideale».

Ed il Carducci sentiva come molti tra i motivi e le occasioni che aveva tratti dal presente polemico, non erano arrivati, all'arte. Voi ricordate anche il giudizio negativo che finì col dare del suo «Inno a Satana» quando affermò che egli lo accettava pur sempre per il suo contenuto di umana ribellione contro il Geova dei sacerdoti, ma negava che quei versi fossero arrivati all'arte: e disse che mai gli era riuscito di scrivere una simile «calascionata». Disse anche però che il paese avrebbe dovuto fargli un monumento per aver egli scritto quell'inno. «Sia ben brutto — aggiunse — perché in quell'occasione io fui un vigliacco dell'arte e finii coll'aderire piuttosto a certe idee che sono lieto di aver detto come tali, ma che seppi portare alla perfezione artistica». E queste parole confermano anch'esse le idee del Carducci sul rapporto tra poesia e passato. Infatti la pagina che abbiamo citata intorno al passato così continua: Non si dice che anche del presente non possa darsi poesia, si dice che i cuori dei popoli sono per quell'altra. Forse anche, perché i popoli, non potendo credere in solido alla morte totale, amano vedersi rinnovare nell'arte del canto e del verso, rispondente ad altro stato e condizione di spirito che non è l'attuale, le vite degli antichissimi tempi in atteggiamenti grandiosi ma per una ereditaria coscienza pur sempre umani. Finché Omero Sofocle e Virgilio nell'età pagana, Dante e Shakespeare nella cristiana rimangono i grandi poeti delle genti; quando nella travagliosa civiltà nostra, a rappresentare di essa le idee più speciali e proprie, il Goethe e lo Shelley chiedono al medioevo e all'antichità, più assai che i simboli, le forme; non può, credo, esser recata in dubbio la superiorità in poesia della rappresentazione del passato ». Ma questa rappresentazione del passato non è soltanto per il Carducci un'affermazione generica che possa riguardare questo o quel determinato fatto storico: è la coscienza dell'alta malinconia che è all'origine di ogni poesia. La poesia nasce — come egli dice — quando malinconia batte del cuor la porta, ed è la malinconia stessa del vivere, quando avverte che l'azione trapassa d'attimo in attimo nel senso del passato, e soltanto continuerà a vivere nella poesia. E questa ha il compito di dar forma e durata a quello che la realtà della vita non riesce a fermare. La poesia lo fissa nella forma: «Muor Giove e l'inno del poeta resta». Grandi parole che erano state precedute da una famosa frase di Francesco De Sanctis: «Gli dèi d'Omero son morti: l'Iliade è rimasta. Può morire l'Italia, e ogni memoria di guelfi e ghibellini: rimarrà la Divina Commedia. Il contenuto è sottoposto a tutte le vicende della storia; nasce e muore: la forma è immortale». Cioè la poesia consacra la realtà del passato. È una idea profonda che appunto il Carducci ha potuto contrarre in quelle semplici parole: «Muor Giove e l'inno del poeta resta».

Io vorrei a questo punto, poiché ho cercato di vedere il rapporto tra il Carducci e i poeti ottocenteschi che lo hanno preceduto, far sentire la diversità grande tra questo concetto carducciano della poesia che consacra la realtà della vita, e la concezione che apparentemente simile ebbe D'Annunzio. D'Annunzio, voi sapete, fu tra gli uomini che più si versarono nella vita, che più la vollero vivere in tutti i suoi elementi e grandi: e che più la esaltarono. Fu anche un uomo d'azione, prode combattente, aviatore, e compì (comunque la si giudichi) l'impresa di Fiume. Fu colui che in Maia affermò: «Più ragione v'è nel mio corpo — valido che in ogni dottrina». Eppure, giunto al momento più alto della sua capacità di meditare, D'Annunzio uscì in questa affermazione: «Il mondo non è del vano conquistatore ma dell'artefice solitario. Il mondo, perituro e perenne, non fu creato se non per essere converso dall'arte in forme sovrane e immortali». Dove se ne va a finire il corpo valido, di fronte all'arte che in fondo è un fatto della mente, o, per dirla con Leonardo, è un discorso mentale? Infine qui esiste sovrana soltanto la parola, in cui la realtà del mondo si attua; e questo era un andar di là dal segno, confondendo il fatto con la sua memoria: perché la parola. svuotata dalla realtà che evoca, è astratta. La parola, la poesia di cui parla il Carducci, è la parola che consacra il reale, il reale esterno, il reale dell'animo: non li abolisce: la parola di cui qui parla il D'Annunzio, è quella che nega il reale, in quanto su per giù dice che il reale esiste non già per la sua necessità, ma per essere tramutato nel linguaggio artistico e soprattutto verbale. E questa è una forma di panismo e panteismo verbale, o di panestetismo.

Ho detto che l'ellenismo vitale del Carducci era a un tempo accettazione della morte, quanto più aderiva alla realtà: e ciò può sembrare contraddizione: qualcuno infatti può opporre: «Allora il Carducci desiderava di morire?». Ma questo è un equivoco palese. Accettare un evento fatale che fa parte della vita universale, non significa desiderarlo. E a questo proposito io vorrei ricordare una delle poesie giovanili del Carducci che è assai bella e che quasi nessuno legge: quella in cui egli descrive la prima immagine che della morte si venne a formare in lui, il primo senso di sgomento che gli destò. Ma sentire lo sgomento anche della morte, non significa non accettarla con vana ribellione.

Allo stesso modo Don Chisciotte, impavido cavaliere, è pur preso da sgomendo innanzi al rumore delle gualchiere che per lui è misterioso, ma afferma che il coraggio estremo nasce nella virtù di chi sa vincere se stesso e in se stesso vincere lo sgomento. Il Carducci non poteva amare la morte come tale, ciò sarebbe una cosa innaturale: non è mai capitato neppure ai suicidi di amarla. Avverrà sempre — io credo — che chi invoca la morte, si trovi nelle condizioni del vecchio che vedendola di fatto apparire, protesti: «Non ti ho chiamata...». In quella poesia il Carducci adopera modi che consapevolmente vogliano fare ricordare i modi del Leopardi. Eppure c'è un'aura che non può non essere detta carducciana: «quando, come non so, quasi dal fonte — d'essa la vita rampollommi in cuore — il pensier de la morte e con la morte — l'informe niente; e d'un sol tratto, quello — infinito sentir di tutto al nulla-sentire io comparando, e me veggendo — corporalmente ne la negra terra — freddo, immobile, muto e fuor gli augelli — cantare allegri e gli alberi stormire — e trascorrere i fiumi ed i viventi — ricrearsi nel sol caldo irrigati — de la divina luce, io tutto e pieno — l'intendimento de la morte accolsi; — e sbigottii veracemente. Anch'oggi — quel fanciullesco imaginar risale — da la memoria mia: quindi, sì come — fiotto di gelid'acqua, al cor mi piomba».

Io ho voluto leggere questi versi per mostrare (e spero che ciò io riesca a far intendere, e se non riesco sarà tutta colpa mia) che tra l'accettare «l'amaro calice» della morte e l'adesione alla sua regola suprema, nella quale l'uomo s'inserisce consapevolmente, non esiste contraddizione. Ricordate una delle più belle liriche del Carducci, «Su monte Mario», con quel finale altissimo in cui nella terra ormai assiderata l'ultima coppia umana vede l'ultimo sole calare: in questa poesia c'è l'invito: «Mescete in vetta al luminoso colle — mescete, amici, il biondo vino, e il sole — vi si rifranga: sorridete, o belle: — diman morremo». È un canto ed è un invito pagano, ma non del paganesimo esterno e vile di chi voglia accettare la realtà soltanto nei suoi modi di basso piacere più o meno epicureo, come una volta si diceva offendendo Epicuro: è appunto quell'ellenismo vitale, di cui egli parlava; perciò senso e spirito, armonia raggiunta. Perciò egli canta pensoso: quelli che noi amammo morirono anche i non ancor nati morranno. E alla terra madre con una nota di calma serenità può così rivolgersi: «Addio tu madre del pensier mio breve — terra e dell'alma fuggitiva! quanta — d'intorno al sole aggirerai perenne — gloria e dolore! — fin che ristretta sotto l'equatore — dietro i richiami del calor fuggente — l'estenuata prole abbia una sola — femmina, un uomo, — che ritti in mezzo a'ruderi de'monti, — tra i morti boschi, lividi, con gli occhi — vitrei te veggan su l'immane ghiaccia, — sole, calare. —»

Questa grandiosa immagine dell'ultimo sole che all'ultima coppia umana sia data vedere è cosa altissima. E non contrasta affatto con quello che il Carducci ha potuto scrivere altre volte, a proposito sempre della morte, quando, ricorda nel «Comune rustico»: «Non paura di morti ed in congreghe — Diavoli goffi con bizzarre streghe, — Ma del comun la rustica virtù —». La concezione che ho detta pagana del Carducci, non deve essere intesa, ed anche questo ho detto, come una concezione di ateismo. La morale di vita del Carducci era fondamentalmente quella di una tradizione laica che aveva già fatto e farà dire a più di un pensatore laico che dopo Cristo non si può essere se non che cristiani. Il Carducci non negava, neppure quando scrisse l'«Inno a Satana» il significato ed il valore del cristianesimo. Negava, con ragione o con torto, quella parte del cristianesimo che gli si offriva come ascetismo, negava l'abbandono della terra, l'ignavia di chi non sapeva portare con tutta la dignità umana il peso e la gioia del lavoro, negava l'ipocrisia interessata di quel conformismo religioso che tradisce e offende il vero spirito di fede nei valori sacri dell'universo.

Se ora volessi parlare di alcune ragioni per le quali il Carducci, alla nostra lettura d'oggi, può sembrare alquanto distaccato, constaterei quel che nel suo linguaggio è già alquanto arcaico: certe forme che i moderni non adoperano più, e per esempio quelle tronche che oggi usano sempre meno, e le enclitiche finali che tendono sempre più ad essere abolite. Ma detto questo voglio subito aggiungere che leggere il Carducci con simili limitazioni (che già non facciamo più per un Leopardi sul «non ti cal d'allegria» o sul «pentirommi e (...) volgerommi indietro») significa leggere con arbitrio privo di senso storico. Un poeta bisogna saperlo leggere nella sua particolare misura: e come la grande musica di Leopardi travolge tutte le inezie di voci e costrutti antiquati, così quella del Carducci. Sempre, s'intende, quando essi raggiungono l'alta poesia, giacche nessuno metterebbe sullo stesso piano dei grandi canti leopardiani Telesilla dello stesso Leopardi, e nessuno metterebbe sullo stessa piano dell'ode «Alle Fonti del Clitummo» tanti altri versi che il Carducci, con gusto troppo filologico, ha raccolto nel volume definitivo delle sue poesie.

Nella ripresa che la celebrazione della nascita del Carducci ha suscitata e per la quale s'è potuto variamente parlare di un «Ritorno del Carducci» non sono mancati sul poeta giudizii perfettamente contradditori ed opposti. Qualcuno ha ripreso un motivo che fu già svolto dall'indimenticabile Domenico Petrini, affermando che il Carducci fu o divenne un poeta decadente, che anch'esso cioè entrò nella corrente del decandentismo europeo e soprattutto francese. Quando il mio amico Petrini pubblicò il suo primo scritto su questo tema, io pur ammirando il critico sottile, osservai che lo spirito del Carducci non ha nulla né della perplessità né dello sbigottimento né dell'angoscia né del dubbio, né della compiaciuta morbosità, né di quel particolare gusto di ciurmeria che si riscontrano in molte fonti del decadentismo e naturalmente escludevo il decadentismo quando fa una vera poesia e nega perciò le premesse decadentistiche. Ma il Carducci era uomo di sanità assoluta. Del resto c'è una sua pagina sul decadentismo, ed io mi dispiaccio di non poterla leggere,

ma ricorderò, suppergiù a memoria, il punto saliente in cui egli narra che un giovane gli aveva domandato se per caso Dante non fosse a suo modo un decadente: Carducci risponde: «A me voi parete tutti degenerati». Questa è l'opinione che egli si faceva del decandentismo. Avesse ragione o torto, nel fatto egli non poteva sentire il decadentismo, proprio perché aveva dentro di sé la sanità, la fede, la certezza morale, la certezza letteraria del suo classicismo e, direi del suo civismo e della sua missione umana: perché è chiaro che anche quando egli cercò nuove forme, nuovi metri, voleva rispondere sempre più al suo concetto della realtà. Le «Odi Barbare» non sono nate per ozio letterario o per caso, i metri barbari, che rifanno i modi latini, erano talmente connaturati alla sua aspirazione che potete trovarne i primi moti e i primi cenni già nelle poesie giovanili. Quando più tardi, nella pienezza della sua maturità, svolge il suo intenso classicismo, ellenismo, naturalismo (io ripeto le parole che egli adoperò) allora egli trova o ritrova i modi più adatti nella metrica barbara. E poiché essi hanno fecondato la sua stessa arte, egli può anche tornare ai vecchi metri in molte delle meravigliose Rime nuove. La esperienza di questa classicità che egli ricercò perfino formalmente, è il punto di partenza per intendere l'estrema coerenza che esiste tra la sua forma espressiva e il suo pensiero, la sua adesione alla vita e quindi il suo ellenismo vitale, il greco puro, il naturalismo. Io sono di quelli che accettano la poesia dovunque la si trovi e da qualunque esperienza si generi; ma non ho mai capito come si possa credere che la poesia nasca in un determinato tempo come per miracolo e che tutto il passato non debba più riguardarla. E tutti siamo un poco sotto l'influsso del decadentismo nelle sue scuole più varie. Mi capitò una volta di leggere che Carducci non conosceva Mallarmè. Ma perché non opporre per contrapposto che Mallarmè non conosceva Carducci? Perché la poetica carducciana è di tale altezza da poter riuscire utile anche a colui che pensava di aver invano letti tutti i libri. In ogni modo non si possono fare questioni critiche su queste ipotetiche assenze.

Io ho cominciato col parlare di un ritorno del Carducci più come indizio e augurio che come condizione raggiunta; ma ho visto con piacere che un giovane critico ha avuto il coraggio di intitolare un suo libro: «Il grande Carducci»: ho constatato che molti, specie tra i giovani, non appena si son decisi a leggere poesie e prose del Carducci, che prima si rifiutavano addirittura di conoscere, hanno cominciato a sentirne la forza, la potenza, la ricchezza di umanità che è profonda e sdegna il puro gioco letterario. Il Carducci detestava il letterato puro ed aveva ragione, perché il letterato puro, colui cioè che si dice viva nella torre di avorio, donde esce soltanto per prendere gli applausi o per mediocri bisogni, di solito è un ben piccolo egoista e non s'intende di arte perché non intende la realtà. Per me «Ritorno del Carducci» dovrebbe significare l'esempio morale di una grande coscienza letteraria. Esempio morale, perché ogni letteratura veramente umana non può vivere che di una suprema sincerità che è la verità. Essa non è mai né gioco né falsa confessione e cioè esibizione: non è mai puro distacco della paroletta o ciancia o spiegata menzogna: è parola, quella che distingue veramente l'uomo da tutte le creature terrestri, quella che non si scava nella terra, quella che l'uomo deve trovare dentro di sé e che gli permette come uomo di dare forma alle cose. Ripiglio il motivo che prima ho ricordato nelle parole del Carducci, ove egli afferma che l'adesione alla vita è appunto l'adesione alla forma. Proprio così: l'adesione alla forma come suprema verità del linguaggio dell'uomo.