IL CRISTALLO, 1961 III 1 [stampa]

INDIVIDUI, LINGUE, NAZIONI

di GUIDO CALOGERO

(Conferenza tenuta il 14 novembre 1960)


Voi sapete che il mio mestiere è quello del filosofo, o, più modestamente, del professore di filosofia. È quindi naturale che, pure parlandovi di un argomento il quale è certamente connesso con situazioni attuali, e particolarmente sentite in questo ambiente, io tuttavia mi proponga di trattarlo non dal punto di vista da cui lo tratterebbe un politico, ma appunto dall'angolo visuale di una considerazione più teorica, più interessata a questioni di principio.

Io vorrei analizzare i criteri di fondo, in base ai quali ci si debba orientare di fronte a situazioni quali quelle che qui si sono presentate e si presentano. Vorrei, in questo senso, che sui criteri generali, con cui queste situazioni si possano giudicare, si aprisse tra noi una larga e franca discussione, alla quale terrei molto, proprio per poter apprendere anch'io qualcosa da voi. E vorrei, se possibile, che a questa discussione partecipassero anche coloro che eventualmente si trovassero ad essere più lontani dalle opinioni che io esprimerò.

Il problema enunciato nel titolo di questa mia conversazione concerne il rapporto fra individui, lingue, nazionalità. Possiamo anzitutto prospettarlo dal punto di vista del rapporto tra l'idea dell'individuo e quello della nazione. Alcune tra le situazioni più delicate, che si presentano sia nella politica interna, sia nella politica estera, sono appunto determinate dal fatto che interessi di individui sembrano contrapporsi a interessi di nazioni. Sembra allora porsi la domanda: — Debbono prevalere gli interessi individuali, oppure quelli del gruppo, e specificamente gli interessi del gruppo nazionale, della nazione? Viene prima la nazione, o prima l'individuo? È l'individuo che deve servire alla nazione o la nazione che deve servire all'individuo? — Po sto il problema in questa prima forma, molto schematica e sommaria, esso non sembra facilmente risolubile.

In un certo senso, infatti, sembrano legittime tutte e due le risposte. Per un verso, si può ben dire che è l'individuo che deve servire alla nazione. Sembra ovvio che il dovere dell'individuo sia quello di andare oltre sè stesso, di fare qualcosa che non serva soltanto al suo interesse personale. L'individuo (sarà facile dire) si completa, si attua, moralmente parlando, anzitutto nella famiglia. In questo senso, dovrà posporre i suoi interessi personali agli interessi familiari, ma dovrà allora anche posporre i suoi interessi familiari agli interessi nazionali. Tuttavia, ponendosi da un altro punto di vista, si può arrivare anche alla conclusione opposta. Ci si può domandare se, veramente, una nazione esista senza individui. Ci si può domandare se, davvero, la nazione in sé sia soggetto di diritti, e quindi oggetto di doveri. Ed è facile, allora, giungere alla conclusione che, in fondo, ogni nazione è in qualche modo un mito. Essa esiste personificata nella poesia, nella statuaria: ma, in conclusione, si risolve sempre in una certa molteplicità di individui, nell'interesse dei quali si parlerà di nazione, si difenderà una nazione. Sembrerebbe quindi che vi fossero buone ragioni sia per l'una tesi che per l'altra: per la tesi la quale impone, agli individui, doveri e ideali nazionali dotati di una loro giustificazione indipendente; e per la tesi che, viceversa, riduce sempre ogni entità nazionale, ogni entità collettiva, ogni idealità di questo tipo, a concreti interessi di individui viventi, di uomini, di anime, di persone.

Da questo dilemma, così sommariamente enunciato, si può forse cominciare ad uscire se si riprende, con maggiore attenzione, l'esame della prima risposta, la quale diceva che nessun individuo può occuparsi soltanto di sé stesso, perché, se vuoi essere individuo civile, per lo meno si deve occupare di qualche altra persona a cui vada il suo affetto, quali, p.es., i membri della sua famiglia. Ma, oltre a questi, egli dovrà considerare gli altri individui, con cui convive, i suoi concittadini, e quindi, ulteriormente, i suoi connazionali. Il punto, però, è allora il seguente. Perché ci si deve fermare qui? Per quale motivo, ad un certo punto, si deve dire che la nazionalità è un valore per sé sussistente? Se c'è un'esigenza morale, che porta l'individuo ad andare oltre la propria famiglia quando ciò è necessario nell'interesse delle famiglie altrui, — e che lo conduce quindi, quando è necessario, a sacrificarsi per la sua nazione, — questa stessa esigenza morale dovrà fargli riconoscere che, dovunque è possibile, bisogna andare, anche, oltre la nazione. Non ci sono, infatti, in questo senso, limiti ai quali l'imperativo fondamentale dell'uomo, l'imperativo fondamentale della civiltà, che è quello di estendere il più possibile l'interessamento alle sorti altrui, debba arrestarsi.

Ma forse voi avete il diritto di dirmi che queste cose sono da un pezzo nella vostra coscienza; e infatti quanto vi sto dicendo dev'essere largamente noto in un ambiente, come il vostro, di vecchia tradizione cristiana, dato che non è, in fondo (se vogliamo riferirci a questa tradizione) altro che una parafrasi di quanto è mirabilmente espresso nella parabola del Samaritano. Nella quale, per così dire, il nazionalismo è stato liquidato una volta per sempre: perché in quella parabola è detto molto chiaramente che il prossimo non è colui che è figlio dello stesso padre, non è colui che appartiene alla stessa gente, alla stessa stirpe o alla stessa nazione. Il prossimo è colui che vien fatto prossimo, con la comprensione e con la carità: ossia col riconoscimento effettivo del suo diritto ad essere capito e aiutato come ogni altro. In altri termini, in quella parabola del Samaritano è mirabilmente simboleggiato ciò che già avevano espresso i migliori tra i Greci quando avevano detto che le leggi più eterne erano uguali per i Greci e per i barbari, per gli uomini di qualunque colore e di qualunque stirpe: insomma ciò che è stato sempre detto tutte le volte che si è sottolineato come quel che importa nell'uomo, la sua persona, la sua anima, il suo spirito, comunque si voglia dire, non è mai imprigionato di necessità nei suoi confini di razza e di nazione. E si capisce che un individuo ha maggiori doveri verso i suoi figli o verso i suoi fratelli o verso i suoi concittadini o connazionali: ma ciò non è, per così dire, che una distribuzione strumentale del lavoro. È naturale che più ci si occupi di coloro che più stanno vicini: ma non nel senso che possa mai porsi una frontiera fra coloro che sono vicini e coloro che non lo sono, fra coloro che sono «prossimo» e coloro che non sono «prossimo».

A questo punto, se ci fosse qui un amico «politico», cioè dotato primariamente di interesse politico, forse direbbe: — Ma tu stai facendo un bellissimo discorso sul piano morale e religioso: hai perfino citato il Vangelo! Questo va tutto bene sul piano dell'etica, sul piano dei rapporti tra individuo e individuo, sul piano delle anime. Ma la politica è altra casa; e in particolare è altra cosa la politica estera. Da che mondo è mondo, essa è un regno governato non dal semplice spirito della carità, della giustizia, dell'affetto, del diritto, bensì, viceversa, dalla forza. È un mondo in cui ci sono i vittoriosi e i perdenti. I vittoriosi estendono i loro confini, i perdenti li ritraggono. Così è sempre stato, e così sempre sarà.

Beh, mi dispiacerebbe per l'uomo politico che così intervenisse. Gli direi, che, ormai, il suo discorso non regge più. Reggeva, se volete, fino a quindici anni fa. Ma ormai è successo qualcosa che ha segnato una cesura, un'epoca nella storia del mondo (non amo queste formule solenni, da filosofia hegeliana della storia: ma in questo caso possono anche andare). E la storia del mondo è arrivata, così, a un punto, in cui quella tesi non è più vera neanche per la politica estera. Ogni giorno che passa, infatti, diventa sempre più chiaro che il vecchio sogno di una politica estera fondata sul principio della potenza è ormai un sogno assurdo, perchè, oltre tutto, irrealizzabile. Sarebbe dovuto apparire assurdo anche prima, in quanto era intrinsecamente immorale ed incivile: ma, purtroppo, era attuabile. Purtroppo nella storia del mondo, fino a poco tempo fa, le cose sono sempre andate in modo non troppo disforme da come le rappresentava il pirata imprigionato da Alessandro il grande: il pirata grosso poteva diventare Alessandro Magno, mentre il pirata piccolo veniva messo in prigione. Il piccolo pirata veniva liquidato, ma poteva però dire ad Alessandro Magno: — La sola differenza fra me e te è che tu sei un pirata grande, e quindi ti chiamano imperatore; mentre io sono un pirata piccolo, e sono messo a morte. — Questa era la regola della guerra, come strumento della potenza degli stati. Tutto ciò era allora possibile, per quanto avesse intrinsecamente lo stesso valore che ogni altro atto di aggressione, e insomma di lesione violenta dei diritti altrui.

Oggi, invece, non c'è più un solo paese al mondo il quale possa veramente sognare di diventare il padrone del mondo vincendo gli altri. Ogni giorno più ci si rende conto della stretta necessità di adoperare ogni residua forza, prima diretta alle conquiste e alla vittoria, per il consolidamento dell'ordine giuridico del mondo e della convivenza secondo diritti; ogni giorno più ci si rende conto che, se non si vuole perire in un disastro generale, è necessario, poniamo, sostenere le Nazioni Unite il più possibile, dare il più possibile alle Nazioni Unite poteri di governo, ridurre nell'ambito delle controversie che si risolvono in senso giuridico ogni controversia che altrimenti si sarebbe risolta in senso militare. Ma, più si fa questo, e più ci si accorge che le politiche nazionali perdono significato. E lo perdono, appunto, in misura proporzionale all'accrescimento dei diritti degli individui.

Del resto, come molti di voi ricorderanno, tutte le volte che si è ironizzato sui diritti degli individui (e spiace dire che in certi casi si sono divertiti a far ciò anche grandi pensatori), tutte le volte che è ironizzato sugli eterni e costanti diritti degli individui lo si è fatto sottolineando che la storia aveva sempre proceduto soverchiandoli, o per lo meno spostando la prevalenza delle forze dagli uni agli altri. Man mano, invece, che ci si accorge come questo tipo di storia e di politica non abbia ormai più senso, ci si accorge, altresì, come sia in compenso fondamentale il riconoscimento dei diritti individuali, dei diritti di libertà. Ma questo riconoscimento non si concreta nell'affermazione della potenza di una nazione, bensì nell'assicurazione della parità dei diritti individuali, quale che sia la nazione a cui si appartiene.

In questo senso, quindi, c'è molta differenza fra la nostra situazione odierna e quella che si prospettava agli Italiani durante il Risorgimento. Un secolo fa, durante il Risorgimento italiana, occorreva battersi non solo per la libertà, ma anche per l'indipendenza; e per l'indipendenza era necessaria l'unità,. Certo, anche allora si scorgeva la gerarchia di questi valori, cioè si capiva che il valore supremo era quello della libertà, mentre l'unità, e l'indipendenza erano solo valori strumentali rispetto ad esso. Ciò è espresso, tipicamente, perfino nel famoso verso «liberi non sarem se non siam uni»: dove l'essere «uni», l'essere uniti in una nazione, era già, sentito come strumentale rispetto all'essere liberi. Per esser liberi, diceva insomma quel verso, abbiamo bisogno di essere uni: il che significava che lo scopo finale era quello dell'essere liberi, era che a ciascun cittadino fosse garantito il suo diritto, la sua parità di diritti. Ma a tal fine, in quei tempi era necessario essere indipendenti da ogni potere straniero: erano infatti tempi di ancora prevalente esercizio della politica estera di potenza, nel senso che prima dicevamo. Per ciò era necessario raggiungere l'unità, nazionale.

Ma pensate, giacche abbiamo fatto questo richiamo al Risorgimento italiano, pensate quale era lo stato d'animo di tanti triestini (cito i triestini perché avevo amici che si trovavano in quella situazione) i quali erano stati irredentisti, e si erano battuti nella prima guerra mondiale, perché, come allora si diceva, fosse concluso il Risorgimento col ritorno di Trieste alla nazione italiana. Pensate allo stato d'animo di questi irredentisti triestini, di questi liberali che si erano battuti per la patria della loro coscienza. Alcuni di loro avevano rischiato di essere impiccati come Cesare Battisti, avendo militato con nome falso nelle file dell'esercito italiano. E poi si trovavano di fronte a una Trieste dominata dal fascismo. E ricordavano la vecchia Austria, che non era un capolavoro di liberalismo, ma che era certamente più civile e più liberale dell'Italia fascista, senza alcun paragone. Io ricordo l'angoscia di questa gente, la quale domandava: — Dunque per questo ci siamo battuti per l'unità, italiana, perché Trieste diventasse schiava, così come sono schiavi gli altri italiani sotto il fascismo? —

Oggi il fascismo è caduto, questo problema non sussiste più; ma l'angoscia del conflitto fra questi criteri si potrebbe presentare ancora. È perciò che il problema della gerarchia dei criteri, della loro esatta valutazione reciproca, resta ancora oggi un problema presente. Io quindi vorrei domandare a qualche rappresentante dell'odierno irredentismo sudtirolese (non so se ce n'è qualcuno presente in questa sala; spero di sì: e se ciò non fosse mi spiacerebbe, perché significherebbe che allora non c'è interesse al dialogo, non c'è interesse alla discussione, cosa che è sempre un cattivo indizio). Vorrei domandar loro: — Che cosa pensate di quanto ha ultimamente detto il maggior filosofo vivente di lingua tedesca, Jaspers (ben superiore, infatti, all'oscuro e astruso Heidegger, allorchè, sfidando, secondo il classico dovere di ogni filosofo, tranquillamente l'impopolarità, ha dichiarato che il problema vero non è quello della unità della Germania occidentale con la Germania orientale: il vero problema è quello che tutti i tedeschi siano egualmente liberi, sia che stiano ad Ovest sia che stiano ad Est? — Per quel che sembra a me, questa è la parola di un uomo di buon senso, prima ancora che di un grande filosofo. Non esiste un problema di unità nazionale, il quale sia più importante di quello della libertà degli individiu. Solo quando, in determinate situazioni, possa occorrere un'unità nazionale per avere la libertà, come accadde un secolo fa durante il Risorgimento italiano e come in altri tempi è stato per tante altre nazioni, allora diventa ragionevole l'aspirazione all'unità nazionale, all'unità di stirpe, all'unità di lingua. Queste unità valgono allora come strumenti per assicurare il pari diritto di ognuno: per garantire, cioè, le sole cose che veramente importano, ossia che tutti gli individui abbiano gli stessi diritti, la stessa libertà di parola, di stampa, di associazione, di religione, che anche nel campo economico non siano oppressi da disparità e da privilegi: insomma che fruiscano di tutto ciò che è difeso e promosso da chiunque difende e promuove la tradizione dei diritti dell'uomo. Queste sono le cose serie, i valori: le altre «unità» non sono che strumentali. A me sembra che Jaspers abbia rappresentato, in questo caso, la migliore tradizione germanica, la tradizione del grande pensiero tedesco, di cui tutti siamo stati scolari e continuiamo ad essere ammiratori; la tradizione di Goethe, di Kant, di Lessing, di Humboldt, insomma la tradizione della grande Germania liberale e umanistica, purtroppo spesso cancellata, nella memoria di molti, da una diversa Germania, la quale non fu precisamente orientata in questo senso. Ma oggi le parole di Jaspers sottolineano come quella miglior tradizione della Germania coincida con la migliore tradizione del pensiero francese, del pensiero anglosassone, dello stesso pensiero liberale italiano, nel senso più vasto della parola.

D'altronde, che cosa vuol dire, per Jaspers, diritto di tutti i Tedeschi ad essere ugualmente liberi sia che vivano ad Est, sia che vivano ad Ovest, sia che stiano al di qua sia che stiano al di là della cortina di ferro? Evidentemente, non solo fruire di tutte quelle libertà che sono garantite dalle costituzioni liberali, e per esempio consacrate nella Carta dei diritti dell'uomo proclamata dalle Nazioni Unite: ma anche, poniamo, avere la libertà di essere tedeschi, in quanto ciascuno di essi specificamente ci tenga e lo desideri. Questo però non implica che essi debbano essere liberi di imporlo a quelli dei loro stessi connazionali, parlanti tedesco, che non si trovino ad avere, per ciò, lo stesso interesse. Solo tenendo presente questa distinzione noi possiamo affrontare l'esame del criterio atto a dirigerci quando ci troviamo di fronte a quel problema che, con termine forse poco opportuno, si suol denominare delle garanzie atte a salvaguardare la continuità dei gruppi etnici, inclusi come minoranze in altre formazioni nazionali. È evidente, infatti, che queste debbono essere sempre garanzie di libertà, mentre non possono mai essere imposizioni di doveri. Uno stato, insomma, il quale si trovi ad avere entro i suoi confini minoranze, rispetto alle quali si ponga un problema di garanzie etniche, cioè di garanzie della conservazione di certe tradizioni, dovrà certamente dare, a tali minoranze, corrispondenti garanzie di libertà, ma non potrà mai ammettere che per ciò esse impongano doveri di conformità etnica ai partecipanti del proprio gruppo: perché in tal caso ammetterebbe che la garanzia della salvaguardia del gruppo etnico stia sullo stesso piano di quei diritti fondamentali dell'uomo, che debbono essere difesi ad ogni costo come strutture essenziali di ogni civiltà.

Mi spiego meglio, perché questo punto potrebbe apparire oscuro. Se io mi batto affinché le persone con cui convivo abbiano lo stesso diritto di parola che ho io, mi batto veramente per qualcosa che posso chiamare incondizionato, in quanto non è subordinato al fatto che essi me lo chiedano. Perfino, infatti, se essi non me lo chiedessero, o addirittura se mi chiedessero il contrario, io dovrei comportarmi ugualmente. Nessun dirigente, nessun uomo di stato, nessun potere politico potrebbe mai essere esonerato dal suo dovere di rispetto di quei principi costituzionali, quand'anche fossero proprio i suoi dipendenti a chiedergli di violarli. Il giorno che un popolo domanda la servitù, chi ha il potere di dare servitù e libertà deve rifiutare la servitù e continuare a dare la libertà. Deve mantenere ferme le regole della libertà. Per assicurare la possibilità dell'altrui consenso, non è necessario l'altrui consenso. Qui è l'assolutezza di questo principio. Accade qui quello stesso che avrebbe luogo se qualcuno mi domandasse di non essere capito. Sarebbe la sola volta in cui gli direi: — Questo non lo capirò e non l'accetterò mai. Tutto posso capire, o cercar di capire, di ciò che tu di dici: ma non che tu mi chieda di non essere capito. Tu non mi chiedi infatti, con questo, se non di esser capito in un certo altro modo. — Il dovere di capire l'altro è, con ciò, il dovere assoluto e primario: è il dovere di rendersi conto dell'altrui punto di vista, e quindi di riconoscere l'altrui diritto.

Ma se un individuo mi dice che desidera essere tedesco piuttosto che italiano, se un altro mi dice che ci tiene al suo essere siciliano e che non vuole che tale sicilianità della sua tradizione sia trasformata troppo, allora non ci muoviamo più su quel piano di assolutezza. Si tratta, ora, solo di una certa preferenza, che come tutte le preferenze individuali va considerata e soddisfatta, purché sia compatibile con le altre preferenze individuali. E allora, senza dubbio, una maggioranza che abbia una certa tradizione linguistica e culturale deve tener conto dei desideri dei gruppi che abbiano, invece, una tradizione diversa. Resta però aperta la discussione circa la plausibilità di quei desideri.

Se per esempio la difesa del gruppo etnico si riduce alla difesa della propria chiusura, del proprio isolamento, allora bisogna pur dire che una simile aspirazione è un desiderio angusto, rispetto a quello di una sempre più vasta comunicazione umana. Perché non c'è mai, a rigore, un dovere di «essere germanici», così come non c'è quello di «essere italiani». L'unico dovere reale è quello di essere uomini, cioè capaci di comprendere i diritti degli altrui uomini; e di esserlo, si capisce, con tutta la pienezza del propri affetti di gruppo, ma senza alcuna barriera rispetto all'altrui umanità.

Di fronte alle infatuazioni, nazionalistiche o razzistiche, in cui altri possano incorrere, guardiamoci dunque dal ricadere, per reazione, in una sorta di nazionalismo dell'italianità. Non proponiamoci dunque, per esempio, la «difesa della cultura italiana». Far meglio conoscere questa cultura è, ovviamente, utile, e quindi anche benemerito dovunque abbia luogo: ma far meglio conoscere non è lo stesso che «difendere» (quest'ultima metafora bellica tradisce lo spostamento, che così si verifica nell'impostazione del problema). E neppure è il caso, quindi, di parlare di «difesa della lingua». Anche per l'uso delle lingue vale la fondamentale regola del dialogo: ciascuno ha il diritto di usare quelle che preferisce, e il dovere di imparare quelle che preferisce usare l'interlocutore. In termini di vera educazione civile, il dovere degli italiani di questa zona è con ciò quello di parlare il più possibile il tedesco, e il dovere degli altoatesini di lingua tedesca è quello di parlare il più possibile l'italiano.

Per quanto ci concerne, lo facciamo abbastanza? Assicuriamo veramente quel bilinguismo dei pubblici uffici, che, se non erro, ci siamo impegnati a garantire? Questo è ciò che dobbiamo seriamente considerare: non mancando, all'occorrenza, di riconoscere fondate le altrui critiche, e di provvedere a correggere le deficienze, col convincimento che dovremmo piuttosto chiedere alle Nazioni Unite di venire ad amministrare in nostra vece tutto l'Alto Adige, il giorno che ci constatassimo incapaci di risolvere adeguatamente questo problema. In compenso, credo che dobbiamo rifiutare ogni idea di salvaguardia di gruppi etnici, parlanti tedesco o parlanti italiano che siano, la quale implichi per ciò ostacolo a qualsiasi circolazione o migrazione di individui. S'intende che ogni movimento di questo tipo coinvolge complicati problemi umani; e capisco, in questo senso, che gli amici ticinesi possano preoccuparsi della sorte della italianità di quella regione minacciata dalla sempre maggiore immigrazione di Svizzeri tedeschi, o che i milanesi non restino indifferenti di fronte ai «terroni», ai meridionali, i quali si insediano nella loro città. Ma tutti questi problemi sono seri in quanto problemi di individui e di gruppi, da studiare coi metodi dell'analisi psicosociale; mentre diventano mitologici e pericolosi tutte le volte che si caricano di politicità, e si trasformano in temi di rivendicazione nazionalistica. Occorre insomma tradurli sempre in termini di problemi di libertà, ossia di organizzazione democratica delle libertà individuali, e depurarli di ogni aspetto per cui invece tendano a presentarsi come problemi di potenza, di gruppi nazionali in lotta contro altri gruppi nazionali.

Donde la particolare necessità di difendere tali diritti dei singoli là dove essi rischiano di venire più dolorosamente compromessi dalla mitica antitesi degli interessi di nazione e di razza: e quindi, per esempio, di opporsi von vigore ad ogni propaganda contro i cosiddetti «matrimoni misti», venga essa dall'una o dall'altra schiera dei contendenti. Purtroppo pare che, in questo caso, il torto sia soprattutto dalla parte su cui noi abbiamo meno autorità: e se è vero, come sento dire, che è proprio il clero cattolico di lingua tedesca che certe volte scende in campo affinché la purezza della gente germanica non sia macchiata da connubi col sangue mediterraneo, allora bisogna dire che talvolta lo spirito della parabola del Samaritano è dimenticato proprio da coloro che si presentano come i suoi più autorizzati interpreti. La condanna dei cosiddetti «matrimoni misti» è sempre e soltanto una forma di barbarie, indegna di chiunque appartenga a un ambiente di civiltà, e tanto più di chiunque si richiami a una civiltà cristiana.

Per mio conto, di fronte a simili ritorni di vago razzismo, io sento un particolare piacere a immaginarmi il brivido nella schiena che qualche neo-nazista sentirà, questi giorni, alla notizia che la bella, alta, sottile, bionda, dolicocefala e ariana May Britt non solo ha sposato il brutto, piccolo, brachicefalo e negro Sammy Davis, ma ha addirittura abbracciato anche la sua religione, la quale, nemmeno a farlo apposta, è appunto la religione ebraica. Questo mio piacere per i suoi brividi di orrore è probabilmente di natura maligna, ma in questo caso la malignità credo possa essere largamente perdonata.

D'altronde, se il vero e proprio razzismo resta qualcosa di isolato e di barbarico, il nazionalismo, magari nella forma più modesta dell'orgoglio di campanile, è ancora spesso dentro tutti noi senza che ce ne accorgiamo. Qualche tempo fa, p. es., io menzionai Bertrand Russel come il maggior filosofo vivente, e dissi che preferisco il suo Perché non sono cristiano al Perché non possiamo non dirci cristiani di Benedetto Croce. Non l'avessi mai fatto! Fui guardato di traverso anche da molti amici, convinti, a quanto pare, che il più grande filosofo vivente continui ad essere Benedetto Croce, anche dopo la sua morte. L'orgoglio nazionalistico, insomma, pervade anche il campo della filosofia. E mi venne in mente lo scandalo che suscitai, una volta quando dissi che l'unica maniera saggia di persuadere l'Inghilterra a entrare in una federazione europea sarebbe stata quella di stabilire che, per almeno cinquant'anni, i governanti di tale federazione venissero eletti da tutti gli Europei, ma eleggibili fossero soltanto gli Inglesi.

La realtà è che, meno si sa vivere, e più si desidera di vincere. E siccome non è facile vincere avversari in persona propria, così si aspira, almeno, a vincere per procura. E si fa il «tifo» per la propria squadra di calcio, o (che è più o meno lo stesso) per la propria città o per la propria nazione. Le passioni della superiorità soverchiano i gusti della convivenza: e così nel mondo dilagano le nevrastenie degli sconfitti, le ossessioni dei successi e i complessi di inferiorità. E se poi qualcuno osserva che anche questo dovrà a poco a poco finire, e la gente dovrà pure imparare a fruire sempre più di gusti condivisi, e sempre meno di vittorie che per ciò stesso implichino altrui sconfitte, allora il coro dei critici è generale: — Utopie! —

Cari amici, molte delle utopie di ieri sono le realtà di oggi, e non è quindi detto che alcune delle utopie di oggi non possano diventare le realtà di domani. Comunque, il compito della cultura non è soltanto quello di preparare gli uomini per i problemi di oggi: è anche quello di prepararli per i problemi di domani. Solo in questo senso gli uomini di cultura sono gli uomini di avanguardia: coloro che si preoccupano di studiare bene quello che dev'essere, anche nei casi in cui immediatamente non può essere. Tale responsabilità culturale noi dobbiamo sempre assumercela, anche, e specialmente, nei casi in cui possa riuscire più scomoda.