IL CRISTALLO, 1962 IV 1 [stampa]

ASPETTI DELLA RECENTE NARRATIVA ITALIANA

di LIDIA MENAPACE BRISCA

Assai fertile per la narrativa, e non solo da un punto di vista quantitativo, sembra essere la stagione che si è aperta in Italia nel secondo dopoguerra. In parte l'avvio fu dato da ragioni polemiche nei confronti della poesia lirica, soprattutto nella forma di «poesia pura», che si svilupparono appunto dopo la seconda guerra mondiale: le motivazioni di tale polemica furono politiche più che critiche e perciò condussero sia a ingiuste riserve nei confronti dei poeti, sia a confondere ogni tipo di scrittura narrativa sotto l'equivoca etichetta di neorealismo, usata per scrittori assolutamente imparagonabili tra loro come Moravia, Pavese e Vittorini.

Oggi siamo in grado di giudicare con maggiore approfondimento critico e con un minimo di indispensabile prospettiva le vicende della narrativa, le forme del romanzo, le voci nuove, gli esperimenti di tipo tradizionale e quelli più innovatori, gli autori ai quali interessano soprattutto problemi di linguaggio e gli autori che avvertono di più l'urgenza di nuovi contenuti: oggi insomma possiamo fare un discorso sul romanzo in Italia, abbastanza fuori dagli schemi da poter essere complesso e articolato; nello stesso tempo siamo anche nella condizione di misurare sempre meglio il rapporto tra romanzo e vita, che nell'immediato dopo-guerra risentì troppo di preclusioni e pregiudizi di natura politica. Oggi non basta più che un romanzo sia engagé perché i critici gridino al miracolo; né é sufficiente che riveli una originalità di stile.

Credo possa essere di un certo interesse una rassegna, certo non completa e sicuramente non definitiva, che si proponga quanto segue: vedere il rapporto tra il romanzo del secondo dopo-guerra e la narrativa del primo Novecento; osservare in che modo e con quali aspetti i problemi della società italiana si esprimono nella narrativa; quali forme narrative riescono a superare l'occasione di cronaca che può averle generate e a entrare nella storia civile e letteraria del nostro paese. Sara inevitabile fare riferimento alle caratteristiche della più recente storia italiana, in quanto la narrativa ne porta i segni evidenti, come quella che, in ogni paese, risente di più i condizionamenti della storia e della vita sociale.

Se vogliamo suggellare con alcuni nomi i valori narrativi come si presentano all'inizio del nostro secolo dobbiamo fare soprattutto menzione di Verga, Svevo e Bacchelli, tre temperamenti poetici assai diversi, ma nel complesso tre valori acquisiti e stabiliti. Il primo e il secondo tardi e spesso male compresi, il terzo ancora oggi poco o non sufficientemente studiato (non dico per il valore dei critici che si sono occupati di lui, quanto per la mole, la frequenza, la citabilità, in una parola la fortuna). Ma con questi nomi bisogna ad ogni modo fare i conti: la narrativa di ieri sono loro, e nel romanzo la tradizione conta sempre molto.

Non é certo questa l'occasione per fare un bilancio dei tre nomi, che sono stati indicati in limine appunto per il loro significato storico, ma almeno questo é opportuno soggiungere: Verga e Bacchelli hanno un contenuto storico e politico vivace, combattivo, rapido, non ottimistico, ma non del tutto vinto, né, ad ogni modo, scomparso: in certo senso essi sono un po' retrodatati rispetto al più recente romanzo europeo, che è andato perdendo tale connotazione, per assumere elementi psicologici (in Francia e in Inghilterra) o psicanalitici (nel mondo tedesco specialmente). I fatti storici nella narrativa di Kafka non significano nulla, nella narrativa di Mann servono solo a dar rilievo allo sfacelo di un mondo, in Musil sono pretesto strutturale che lo stesso autore irride, intorno al quale continuamente gioca per dimostrarne la fondamentale irrealtà. Se teniamo presente questo fatto non v'é dubbio che il più europeo dei nostri narratori del secondo Ottocento o del primo Novecento é stato Svevo, parente sì di Joyce, ma anche di Mann e di Musil, e di Zweig e di Broch e di tutti gli scrittori che avvertirono la tragica fine dell'Europa liberale, la crisi storica, senza che però abbiano avuto l'intuizione di qualcosa di nuovo. Essi hanno tuttavia bene espresso lo smarrimento e la sconfitta di fronte all'avanzante irrazionalismo del primo Novecento. Chi legge oggi Svevo avverte nel fascino poetico dello stile sfuggente e approssimativo, incerto e inceppato, nella caratterizzazione ambientale vaga e aderentissima, nell'atmosfera del tutto naturale e anticonformista nello stesso tempo, una sorprendente attualità, che non solo fa apparire addirittura arcaica la narrativa dannunziana, ma incerta e sfocata, incredibile e monotona (poeticamente, non solo dal punto di vista dei contenuti) quella moraviana.

Orbene, che cosa é passato di Svevo negli scrittori del dopo-guerra, e che cosa di Verga, del suo impegno morale disperato e fermo, che cosa di Bacchelli e del suo vasto! respiro storico, di quell'affresco aperto e fittissimo che si snoda ambiziosamente per cent'anni di storia italiana?

Non sono domande oziose, in quanto il romanzo é molto legato alle condizioni della società (che significato di tremenda denuncia ha l'attuale romanzo sperimentale francese, che rinuncia a decifrare la realtà e persino a registrarla secondo un ordine! e i preziosismi linguistici di Gadda non dovrebbero essere sufficienti per farci giudicare subito senza possibilità di errore, sia Il giovane Holden di Salinger, sia Il biglietto stellato di Aksjonov?): una risposta positiva potrebbe essere utile per indicare certe costanti della società italiana.

Da un punto di vista non propriamente letterario infatti le opere dei primi tre scrittori citati possono anche essere considerate contributi all'unità nazionale, in quanto rappresentano esemplarmente: Svevo forse la più raffinata forma di civiltà borghese, e Verga di civiltà contadina, mentre Bacchelli mira sempre alla storia nella sua inesauribile varietà e in particolare alla storia d'Italia con le sue molteplici componenti e la sua varietà di culture. Si può dire che Verga, Svevo, Bacchelli sono tanto più italiani e universali quanto più concretamente nelle loro pagine si respira un'aria poeticamente vera della condizione isolana, della città borghese, del fiume padano: si avverte, leggendo, che quei luoghi sono veri, che fanno parte di un mondo storico, politico, culturale, di una esperienza viva, di una cultura non contraffatta e libera.

Non sempre mi pare che la stessa cosa si possa dire di molti narratori di questo dopoguerra: anch'essi sono tipicamente «localizzati», ci fanno concludere che tutta o quasi la nostra narrativa è «regionale»; ma di rado l'occasione concreta, minuta, è superata in un più vasto sguardo storico e,poetico, di rado si esce dai limiti di un elegante bozzettismo, persino per gli autori ritenuti più iconoclasti e rivoluzionari come, per esempio, Pasolini. Questo non significa ovviamente nulla, per ciò che riguarda il valore poetico: in fin dei conti, qualcuno potrebbe osservare, il teatro di Cechov é molto bozzettistica e provinciale e persino il grandissimo Flaubert usa per la sua narrativa il modesto sottotitolo di «costumi di provincia». Nulla vieta che un chiuso ambiente possa assumere significati grandiosi e universali: ma certo simile risultato non è di ogni giorno; né ci sembra presente con frequenza soddisfacente nel romanzo d'oggi.

Come mai gli anni tra il venti e il quaranta, pressapoco, non hanno sviluppato questo senso di liberazione, non hanno determinato questo più ampio respiro nazionale al quale la narrativa tra l'inizio del secolo e il venti pareva avviata, magari sfruttando a mo' di tema unitario la guerra mondiale come fece Borgese in Rubè? Come mai, a parte le divagazioni decadentistiche di D'Annunzio e il romanzo filosofico di Pirandello, l'unica altra esperienza che si può ricordare é quella grottesco-intellettualistica di Bontempelli (dal quale forse qualche procedimento narrativo ha appreso Calvino)?

Nel ventennio, bisogna ammetterlo, la poesia si volse a forme ricercate ed evasive, antiretoriche e umanissime, fortemente europeizzate e antiprovinciali, né la narrativa poté seguire ed assumere i temi della retorica nazionale, dell'unità, la cancellazione o la degradazione folkloristica delle caratteristiche locali. Venuto meno il tessuto ispiratore delle varie culture, il romanzo inaridì; divenuta sempre meno unitaria la vita italiana, anche la narrativa perse la sua linfa e il suo sostegno, la sua interna ricchezza. Gli scrittori del secondo dopoguerra non potevano che registrare la dissoluzione della società e dello stato italiano, la sopravvivenza di isole umane nelle varie regioni, però tagliate fuori da una più ampia partecipazione: questa era stata bruscamente interrotta dall'uniforme, non già unitaria, retorica nazionalistica, e fratturata dalle vicende della guerra. Mi pare che qui vi siano le giustificazioni più importanti, quelle che valgono per gli scrittori più significativi: essi ritrovano come dimensione poetica reale la loro regione, il resto non é ancora stato recuperato; i luoghi sono Roma o Napoli o Grosseto o Ferrara o il Canavese, e non si esce da quei limiti senza forzature e insincerità.

Forse non vi é segno più eloquente della forza distruttrice del fascismo nei confronti della società italiana che questo confessato dal romanzo: non é possibile scrivere un romanzo italiano, ma solo un romanzo di un particolare ambiente, di un particolare ceto; forse solo da qui è possibile vedere fino a che punto di indifferenza civile e di doloroso individualismo é potuta giungere la vita in Italia. Il risultato é che degli ultimi trenta anni della storia italiana manca un romanzo corale, un vero romanzo storico, non importa se di tono positivo o di tono negativo, ma che ci faccia respirare la storia del nostro paese, come si respira la storia della Rivoluzione Russa nelle dolorose e grandi pagine del Dottor Zivago.

Ma se non si vuoi dare tutta la colpa alla società italiana e trovarne alcune anche negli scrittori, bisognerà osservare che ben pochi tra essi, ancora una volta, sembrano liberarsi dal tono «liceale», da professori di lettere, e,che troppo di frequente la loro narrativa suona falsa e incerta appena essi abbandonano gli ambienti della media borghesia di provincia per affrontare altri ceti, altri ambienti, altri mondi. So che la definizione di «poetica degli umili» con la quale si suol indicare un aspetto fondamentale della narrativa manzoniana oggi piace poco, perché si vede nella stessa parola «umili» un tono di sufficienza (il conte Manzoni!) oppure di paternalismo (il cattolico Manzoni!): sarà: ma ai suoi «umili» Manzoni non nega nessuna delle più sottili e sublimi finezze dello spirito (quella finezza che per lo più nega ai «grandi della terra»), mentre mi risulta intollerabile la elementarità talora animalesca, la rozzezza torbida, la naturalità senza problemi che molti narratori contemporanei affibbiano ai personaggi «popolari» dei loro romanzi. Segno, mi pare, che il popolo non lo conoscono veramente e lo hanno imparato di seconda mano sulle pagine dei prediletti narratori americani; ma un popolo antico é ben diverso da un popolo recente, e nulla é più estraneo alla nostra tradizione storica popolare che la rozzezza. Il fascismo cercò, sfruttando alcuni suggerimenti estemporanei del futurismo, di far fare al popolo italiano la grinta dura, di fargli disprezzare la buona tavola, di fargli dimenticare il 'sorriso, e si assunse il compito di far diventare gli italiani antipatici: ma, a parte lo spiacevole incidente, il popolo italiano era sempre stato noto per la sua gentilezza, per la sua moderazione, per la sua umanità. Sono certa che i boscaioli di Volterra hanno molti più problemi di quelli ai quali li riduce la pur incantevole maestria stilistica di Cassola.

Comunque è interessante rilevare che, in una terra tutta in movimento, con impressionanti mutamenti di popolazione e di condizioni, la nostra narrativa ci presenta invece gente che non si muove, i viaggi nei paesi vicini sono descritti come fossero imprese: ancora unua volta dobbiamo osservare che Renzo é molto più avventuroso che i personaggi di Bassani ai quali un viaggio a Bologna o a Milano sembra far mancare l'aria intorno. In fondo solo Vittorini si é accorto che «tutta l'Italia va in treno» e solo Alvaro (con Brancati) ci ha descritto l'esperienza di chi lascia la propria regione: non é certo un caso che siano tutti scrittori meridionali. Ma ancora nessuno ci ha dato il romanzo della grande migrazione che dal Veneto ha condotto una quantità di contadini nelle zone abbandonate del Piemonte, nessuno ci ha dato il romanzo dei meridionali che assaltano il triangolo industriale, nessuno ci ha dato il romanzo della spersonalizzazione delle grandi città o delle grandi fabbriche: i nostri scrittori non sono ancora entrati in fabbrica, é stato osservato, oppure, come sostiene Ottieri, la fabbrica é indecifrabile e non consente riflessione: se dà lavoro a un intellettuale, lo assimila, lo fa diventare funzionario, con tutte le conseguenze di patriottismo e di conformismo sociale che ciò significa. Arpino ha tentato il tema dell'operaio «opulento», della famiglia operaia torinese che possiede il phon, l'utilitaria, il frigorifero e le complicazioni, squisitamente borghesi, del ménage à trois: bisogna riconoscergli l'originalità del punto di partenza; ma i risultati mi sembrano molto incerti e poco credibili (intendo sempre che mancano di credibilità poetica, non già psicologica o contenutistica): manca un respiro più vasto, per la scarsità,dei personaggi e il limitato lavoro di indagine intorno ad essi Una nuvola d'ira non esce dai confini del racconto, non si può dire romanzo: nell'approfondire luoghi e stati d'animo non raggiunge, per fare paragoni con opere di tenue mole ed estensione, né la tragica indifferenza della Romano, né l'acuta caratterizzazione della Ginzburg.

Ma a questo punto si impone al nostro disordinato tentare nomi e prospettive la necessità di un ordine e di una disposizione, di temi e di titoli. Pare tuttavia di poter tenere fermo come elemento di fondo questo: gran parte della narrativa italiana contemporanea è piuttosto evasiva rispetto alle aperture umane, storiche, politiche e sociali che il romanzo del primo Novecento aveva proposto; sembra registrare con acuta intuizione la dissoluzione della società italiana a causa del fascismo e della guerra; si rifugia, alla ricerca di una verità narrativa, nelle dimensioni regionali o di ceto; non ha ancora saputo interpretare il tema dell'emigrazione dalle zone depresse, dello sradicamento dei contadini, della condizione operaia nella grande fabbrica e nella grande città; raramente raggiunge, anche nella mole e nella complessità dei temi, il respiro del vero romanzo e sembra limitarsi alla misura del racconto (o del racconto lungo, come si diceva), d'altronde con eleganza e acutezza davvero squisite. Aggiungo che pare talora in preda a un ritardato erotismo, il significato reazionario e decadente del quale comincia ad essere riconosciuto anche dai critici di formazione laica: non insisterò per questo, di proposito, sulla polemica intorno ai contenuti torbidi o al linguaggio volgare o a quella poetica del sesso che si riassume prevalentemente in Moravia e che ha ormai sufficientemente dimostrato la sua vecchiaia. Sia l'inchiesta di «Nuovi Argomenti», sia le prese di posizione di Piovene (testi e autore non sospetti di confessionali resistenze, né di timorati tabù) mi paiono indicative, se non altro, di un mutamento del gusto, di un cambiamento di registro della retorica.

Qualunque discorso ordinato deve, per il dopoguerra, partire da Pavese, lo scrittore certo più significativo e complesso, più nativo e difficile, più ricco di eredità e capace di sopportare il peso di una tradizione letteraria senza nello stesso tempo perdere la propria peculiarità di scrittore del nostro secolo. I suoi romanzi, anche se insistono in un particolare ambiente e in un particolare ceto, quasi sempre riescono a liberarsi, nei casi più positivi, di La luna e i falò, di Prima che il gallo canti, e anche in un'opera in fondo sbagliata e minore come Il compagno, dalle angustie di un deteriore bozzettismo, dalla compiacenza della descrizione d'ambiente, dal populismo obbligato dello scrittore politicamente attivo. Il fatto é che, per Pavese, un certo paesaggio più che una cornice o uno sfondo o un confidente, rappresenta un'immagine quasi mitologica di tutto ciò che all'uomo non è consentito, o non é consentito più, l'innocenza, la crudeltà pura e semplice, la naturalezza totale. Cosicché il Canavese, oppure i quartieri della periferia industriale, la vita dei contadini o dei camionisti rivelano una tragica distanza rispetto alle vicende più storiche, ma più dolorose e contraffatte dei piccoli borghesi, dei personaggi emblematici, di quelli che, dichiaratamente o no, sono i portavoce dell'autore. Tutto ciò detto con uno stile personalmente ritorto, oscuramente scontento, polemicamente doloroso, con aperture di incanto nelle figure di infanzia o di natura. Certo, nonostante la rivelazione quasi religiosa del fatto politico (l'adesione alla lotta politica assume, nel Compagno, tratti che uno scrittore religioso avrebbe riservato alla scoperta della Grazia) nulla vi é di meno storico della narrativa pavesiana, forma di intimismo tragico, con alcune venature addirittura crepuscolari. La grande statura dello scrittore ci fa avvertire con maggior pena la solitudine umana e storica dei suoi personaggi chi non sono più abbastanza primitivi da contentarsi della natura, né abbastanza sciocchi e superficiali 'da contentarsi della società così come essa è, o meglio non è: questa carenza di dati sociali, di tessuti umani che rendano consapevole il significato della vita risulta, come è logico, più evidente negli scritti ambientati in città e in ambienti non operai, come, per esempio, nei racconti di La grande estate.

Per capire la differenza tra il limite di un elegante bozzettismo e il senso aperto del paese e l'immagine assoluta della natura basterà ricordare il diverso ruolo che il paesaggio ha in uno scrittore certo dotato come Piovene e un Pavese. In Piovene il tema del paesaggio è una costante così dichiarata che quasi non metterebbe conto di insistervi: l'autore stesso attribuisce al fascino del dolcissimo paesaggio veneto la fondamentale ambiguità di tutti i suoi personaggi, quella mescolanza di ingenuità e di malafede, quella doppiezza insieme tenera e impenetrabile che stende un velo di irrecuperabilità morale su tutti. Ancora l'autore ci suggerisce che il fascino morbido del paesaggio non é «dei natura» solo, ma nasce anche da una serie complicata di legami storici, dal colore estenuato di un cattolicesimo d'ambiente, tutto doppio e celato, tutto pieno di ipocrisie e di abbandoni. Siamo, con molta scaltrezza, a una interpretazione ancora romantica del paesaggio quasi psicologizzato e animato. Eppure proprio qui, dove il segno della storia dovrebbe risultare più evidente, i personaggi sono sfuggenti e incerti: nel Veneto di Piovene non vi é storia, solo un acuto psicologismo nero, nel quale si avverte quel sottile gusto blasfemo,e sacrilego di certe atmosfere troppo blandamente, tradizionalmente e obbligatoriamente religiose. La natura di Piovene non é una liberazione o un mito, é una complice dei suoi personaggi, in quel contraffatto gioco psicologico che è sempre intessuto sul fondo della «malafede», inconsapevole elemento unificante di tutti i nostri atti. Si può dire che, ogni volta che il paesaggio si presenta così psicologizzato, o l'attenzione psicologica é superiore a quella storica, ci troviamo di fronte a una esperienza religiosa camuffata e spesso ambigua (forse anche in Mauriac e in Greene): vedasi, in qualche punto, il paesaggio di Bassani o il psicologismo di Cassola. Dirò che mi pare religiosamente più autentica la totale impressione di «assenza» che si registra nelle pagine di Pavese, o, per esempio, di Lalla Romano. Il psicologismo di Cassola o il paesaggio idillico di Bassani (il cimitero ebraico) risultano quasi sempre una sorta di intenerimento un po' vile, un po' vergognoso, un po' tradizionale: mentre la lucida «teologia negativa» dei romanzi di Pavese denuncia una tragedia alla quale l'autore forse non cercò, ma certo non trovò rimedi, e non volle accettare in cambio dei sostegni esteriori o convenzionali.

Mi pare che una osservazione analoga a quella riservata a Piovene si potrebbe fare per la narrativa di Soldati, intelligente e ambigua, sempre al margine del «perché non possiamo non dirci cristiani» (La messa dei villeggianti), con la sottile nostalgia-ripulsione dell'ex allievo di un collegio religioso. Ora: le conciliazioni impossibili sono un residuo decadentistico, frutto di una cultura raffinata e sottile, di una educazione tra le più civili che il nostro paese offra, ma in preda ancora a problemi che non sono quelli del nostro tempo, problemi di lusso intellettualistico, come appunto la posizione di un lucido laicismo venato di nostalgie sapienziali-religiose. L'ambiguità non é certo incapace di ispirare poesia e di sostenere una narrazione: ma non mi sembra che essa possa essere condotta più avanti di certi risultati di Thomas Mann nella Montagna incantata o nella Morte a Venezia, né, soprattutto, fuori di quell'ambiente di una grandissima borghesia storica, che nel nostro paese non è nemmeno esistita.

La narrativa di Moravia non ha dato i suoi frutti migliori nel dopoguerra, né soprattutto nel recente successo della Noia, un romanzo impuro e reazionario (ma questo non vuoi dire: anche Tornasi di Lampedusa ha scritto un romanzo abbastanza reazionario, ma poeticamente vivo): dico proprio reazionario anche come tecnica narrativa e per il grigiore dell'impasto stilistico e psicologico. Ho detto che spesso nella narrativa di oggi l'erotismo é di una fastidiosa esuberanza, e senza alcuna gioia, un erotismo così tetro e squallido che il lettore si trova a ripensare con nostalgia alla franca sensualità degli scrittori classici. Per Moravia questa osservazione vale in linea assoluta, ma con crescente monotonia e con una insistenza che fa pensare a una fondamentale aridità. Che Moravia dovesse arrivare alla Noia per scoprire che nulla può essere più evasivo e meno possidente del possesso fisico, é quasi incredibile. Ma vorrei da questo punto riprendere il discorso verso uno scrittore ben altrimenti dotato e di assai più ricca tematica, Pratolini: anche lui talora ci presenta la materia del sesso in forma di ossessionante monotonia e crudeltà. Eppure noi avvertiamo che il suo romanzo più vero, quasi l'unico romanzo storico del dopoguerra (sia pure di una storia che resta regionale) è Metello, e non Lo scialo con il peso delle ambizioni politiche e sociali e psicologiche che gravano troppo sulla pagina. E nello Scialo l'elemento diversivo ed evasivo (sia pure da intendersi in senso quasi simbolico come la rappresentazione del male nelle sue varie e monotone apparenze) non é ancora una volta, come più d'un critico ha notato, il gusto enciclopedico per tutte le avventure e disavventure ordinate e disordinate della vita sessuale? Quanto più fresca e se si vuole spavalda, ma sana essa é in Metello! Pratolini del resto sembra quasi l'unico che abbia voluto affrontare l'impegno del romanzo costruito, con una solida impostazione e con dimensioni impegnative. E non gli manca la forza dell'impianto e anche, poiché é in certo senso uno scrittore all'antica, un naturalista, il gusto dell'intreccio, del colpo di scena, addirittura della scena madre e del deus ex machina. Tutte queste cose mancano invece, pur nella mole sempre considerevole, alla narrativa della Morante, sfuggente e doppia, incerta e ricercata, tutta sottolineata da un sorriso che si direbbe polveroso o assente, come di una testa etrusca mezza cancellata dal tempo. Il romanzo della Morante è sempre un romanzo avvolgente, che cresce su di sé senza bisogno,di soccorsi esterni, che si alimenta solo del dialogo, talora civettuolo e dichiarato, più spesso sottinteso, dello scrittore con se stesso, e col lettore, anche, ma con una condiscendenza appena velata. Chi ricordi il faticosissimo procedere di Menzogna e sortilegio, l'impasto stilistico così vittoriosamente menzognero, e l'incanto del pigro avvolgersi delle immagini e delle passioni nell'isola di Arturo deve riconoscere a Elsa Morante una lucida vocazione narrativa, del tutto disinteressata dalla storia. Gli ambienti che la Morante rappresenta, anche se femminilmente ricordati nelle loro caratteristiche decorative, i personaggi fotografati impietosamente con tutti i segni del tempo, non servono per ricostruire una storia: nessun personaggio della Morante ha vita fuori delle pagine del romanzo, nessun personaggio respira fuori del sortilegio che lo chiude davvero come un cerchio magico. La capacità di reggere un lungo raccontare é nella Morante prodigiosa, come riconobbe un critico urbanissimo, ma non corrivo come Pancrazi alla prima edizione di Memoria e sortilegio, ma quasi si direbbe fine a se stessa. Se il narrare é un'opera anche civile, se la narrativa é anche una responsabilità morale, se il romanziere testimonia una storia, la vitalità o la crisi, la ribellione o il conformarsi a una civiltà, la Morante si sottrae con un mezzo ammiccante sorriso e si riavvolge nelle spire del suo raccontare come chi non abbia nulla da dire sul mondo che la circonda.

Di impostazione tradizionale sono anche (non ho visto ancora La dama di piazza) per la forma narrativa e per la robustezza dell'impianto, e per la trasparenza dell'analisi psicologica, i romanzi, di Michele Prisco. Il nucleo poetico di questo autore é sempre, per adoperare un titolo indicativo la provincia addormentata, col suo lento, immutabile moto, per sé fuori della storia e necessitante per tutti. Se Prisco ne abbia coscienza, non so, ma quello che da molti critici fu considerato un difetto di struttura del suo fortunato romanzo Gli eredi del vento, si deve invece giudicare come la forma perfetta dell'antistoria: se una società condiziona tutti in un conformismo sociale che ha la fissità del rito, é impossibile la varietà, l'unica legge é l'eterna ripetizione, l'unica libertà è la violazione, ma dolorosa e piena di timori, delle leggi. Tutti i romanzi di Prisco si presentano infatti o come eterna ripetizione o come forma rigorosamente chiusa: in ciò egli esprime molto bene il fluire fuori della storia, fuori delle responsabilità individuali, di certa società meridionale. Egli si é difeso dall'accusa di «aria ottocentesca» che i suoi romanzi avrebbero citando (oggi é un ottimo argomento polemico) Zivago, e dicendosi d'altronde non contrario agli sperimentalismi del più recente romanzo: ma a parte la validità delle sue argomentazioni in sede critica, é evidente che il suo desiderio di «una ricerca umana e morale che precede la tecnica», non può condurlo se non a forme di romanzo psicologico o naturalistico, come tutti gli scrittori ai quali oggi potremmo, senza distinguere le differenti ideologie alle quali si ispirano, dare il titolo di «scrittori della realtà», che non sono né Vittorini, né Gadda, né Calvino, né la Manzini: ma piuttosto Pro tonni, Prisco, Cassola, in parte Bassani (ma con una intelligenza tanto più acuta e tanto più dispersiva degli altri qui citati).

Che tutto tecnico sia invece l'interesse di Gadda é presto scoperto, sia quando si veda la scarsa tenuta generale della sua narrativa (lo testimonia, meglio di qualunque altra cosa, la riedizione del Castello di Udine), sia quando si ascolti la tenue indicazione storica del suo antifascismo, certo gustosissimo e di una fertilità fantastica inesauribile entro la tematica linguistica cara a questo autore, diciamo così, modernamente boccaccesco, ma tutto esaurito nell'epiteto. Gadda, più che rappresentare qualcosa nella storia della narrativa, ha rinnovato la scrittura del giornalismo colto che, a parte la dinastia Monelli, Emanuelli, Piovene, Pizzinelli, tutti figli del grande Cecchi, era un po' in secca. Oggi il modo di scrivere articoli di costume e di polemica sociale di un Arbasino e di un Bocca si rifà direttamente agli impasti tra dialettali e scaltramente filologici di Gadda. Che per questa strada si possa arrivare a riscoprire le componenti decadentistiche e letterarie, nel senso deteriore della parola, di Pasolini, non lo negherei.

Un cenno a parte merita un altro scrittore nel quale l'interesse stilistico é dominante. Ma vorrei spiegarmi: oggi tutti sanno scrivere molto bene, e tutti possono scrivere belle pagine, anche romanzieri occasionali. Solo che, in alcuni la ricerca stilistica evidente, raffinata e strenua, rimane, tradizionalmente, strumentale (per esempio in Cassola e in Bassani), mentre in altri (Gadda e forse Pasolini) diventa fine a se stessa. In Calvino si ha una sorta di situazione intermedia, nella quale il gusto stilistico, più che sulla parola, pesa sulle immagini o sulle callidae juncturae di effetto insperatamente comico. Penso che, là dove Calvino esagera con questa sua ricerca, egli possa essere paragonato a uno scrittore lucido e di singolare e magica inventiva (anche la formula critica con la quale volle essere giudicato se la inventò da sé): dico Bontempelli col suo «realismo magico». Mi pare che, per quel che valgono le formule, questa possa essere applicata a Calvino, e non tanto al Calvino dei Nostri Antenati, quanto piuttosto a quello dei Racconti. Certo vi é il rischio di imparare troppo bene il mestiere, come capitò anche a Bontempelli, e scrivere delle freddure intelligentemente calcolate invece che delle opere vive.

Lo sfavillare dello stile é anche il limite di Tomasi di Lampedusa, del quale non diremo altro, visto che Il Cristallo ha già ospitato una nota di lettura a proposito di questo autore, nella stessa prospettiva del presente articolo, quella cioè del rapporto tra la narrativa italiana e la storia della società italiana.

Ma, visto che abbiamo preso in considerazione gli autori che hanno in qualche modo contribuito a far conoscere o a testimoniare alcune caratteristiche della società italiana, crediamo che un cenno meriti anche il romanzo di Silvio D'Amico, La finestra di Piazza Navona, un romanzo in certo senso alla buona e occasionale, ma vivo di colore storico e testimone, con una freschezza che sa di esperienza vissuta, dei rapporti intercorrenti tra cattolici romani, nativamente papalini, e Stato italiano. L'argomento é affrontato con buon gusto e con equilibrio, con sorridente comprensione e con intelligenza storica e forse meglio umana. La cosa è tanto più significativa, se si pensa che il libro ora pubblicato, fu scritto nei mesi di Roma occupata, quei mesi che ad alcuni poeti (a Ungaretti, per esempio), ispirarono pagine tragiche e solenni. D'Amico certo commette degli errori di costruzione e di verisimiglianza psicologica, quando fa la protagonista femminile del romanzo portatrice delle sue idee sul teatro: ma le pagine che ci ridanno la Roma umbertina nelle sue varie componenti, ancora armoniose, ci fanno vedere l'unilateralità, oppure l'incapacità sintetica di chi riduce Roma alla «dolce vita» a alle «borgate» o alle adunate in Piazza San Pietro, senza più essere capace di intuire la ricchezza narrativa di una materia umana complessa. Ingenuo é in D'Amico l'espediente del sacrificio della protagonista, anche se, storicamente, esso ben rientra nelle consuetudini e nelle necessità del momento: ma dal punto di vista narrativo il procedimento é troppo scoperto.

Scrive con acutissima intelligenza la Manzini, che illustra ambienti sociali e reazioni,di tipo psicologico, più che temi storici o sociali: così nelle ambizioni simbolistiche della Sparviera, soprattutto. Ma un tema di dolorosa attualità è riuscita ad esprimere in quello che mi pare il suo miglior libro: Un'altra cosa. Qui siamo nella storia, anzi proprio nel rapporto tra lo scrittore e la storia, in quel suo non poter o non saper più partecipare, non poter più vivere. Persino la forma del romanzo, tutto chiuso su se stesso, con un racconto che si suggella come scritto sul letto di morte a se stessi, ci fa capire che la Manzini, evitando il tema convenzionale della incomprensione ambientale (anche perché l'atmosfera non più romantica non concede allo scrittore di ritenersi incompreso nella sua solitaria grandezza, bensì solo di sentirsi inutile nella sua fondamentale incomunicabilità), evitando anche di pronunciare la parola alienazione (con la quale Moravia ha voluto spiegare La Noia) ci ha dato un ragionato excursus attraverso le impossibilità dello scrittore, il suo fondamentale egoismo, la sua fondamentale non partecipazione, il suo fondamentale ritardo e riserbo, la sua morte. Se tali condizioni sussistano solo nella società italiana la Manzini non dice: ma la sua narrativa tutta piena di presagi (La Sparviera, immagine di una malattia mortale) ci fa intendere che questa sensibile romanziera avverte quello che Musil sperimentò: se una società è indecifrabile e contraddittoria, se la cultura diventa pura metodologia e la vita perde qualsiasi finalizzazione, scrivere un romanzo diventa impossibile, condurlo a termine materialmente impresa disperata: infatti si perdono per strada tutte le motivazioni che si sono via via assunte e lo scrittore si ritrova davanti alla imbarazzante domanda «Perché e di che scrivere?». A quella domanda o non risponde lasciando interrotta la sua opera (Pavese, Vittorini, Alvaro, Zweig, Musil, Virginia Woolf sono in proposito nomi di immediata eloquenza) e spesso la sua vita, oppure risponde con il diario, con la scoperta di sé, con la testimonianza, per quel che vale, di un autobiografismo non ottocentesco, ma di scelta e di presenza morale. Se non si può far altro, ci si confessa (il più oggettivamente possibile) o si ricorda. In questa luce, e prima di affrontare in forma generale Cassola e Bassani, mi pare possano e debbano essere ricordate Lalla Romano e Natalia Ginzburg. Della prima l'esperienza esemplare a me pare resti ancora quella murata e fermissima di Tetto Murato, così impietosa e sicura nel tratto, nel gesto, nell'interpretazione. Dell'altra mi pare di grande suggestione l'ultimo lavoro Le voci della sera, scritto con apparente trascuratezza, come se alla incerta vita che rappresenta nemmeno si potesse adattare uno stile individuato e articolato. Non vi é colore, né ricerca di tensione drammatica; la musa di questo libro é la desolazione, ma vissuta come legge normale della vita umana, di queste sciocche approssimazioni, di tutti gli sbagli storici e vitali che costituiscono la vita della società. Che poi la Ginzburg abbia preso come ambiente quello della provincia industrializzata piemontese aggiunge interesse al libretto, in quanto consente all'autrice di presentare un ambiente carico di tutte le possibili contraddizioni e mistificazioni. In questa luce credo si collochi anche il romanzo di Cassola, attraverso una serie di approssimazioni politico-sociali, che via via cedono il passo alla scoperta dell'intimità psicologica, cosicché se la catena dei racconti raccolti sotto il titolo Il Taglio del bosco offre la tessitura nativa di un romanzo d'ambiente e di paese, con una serie di figurine minute e varie, con un richiamarsi di nomi e personaggi da racconto a racconto, il cammino successivo di questo autore diventa un richiudersi in sé, un perdere il rapporto col tempo, un tornare al romanzo come ritratto di una persona: da La ragazza di Bube al Cuore arido l'involuzione, rispetto al tema che ci interessa, é palese. L'impegno storico diventa minore e più sfumato, cresce il senso della responsabilità individuale nella forma della autenticità dei propri atti, che finiscono per perdere significato, se non hanno altra motivazione che quella della loro spontaneità. Anche per questa strada il romanzo sembra non poter procedere, i personaggi svanire, le dimensioni umane e storiche farsi incerte e sfuggenti. La protagonista di Un cuore arido resta sola e libera (una libertà negativa, per dire il vero), ma non a caso la protagonista dell'ultimo romanzo di Bassani, che è più sottilmente analitico e spietato, svanisce nel forno crematorio, senza che questo fatto colpisca: infatti avviene per intima necessità. Che sorte può avere il magico sogno di un hortus conclusus, sottratto alla storia e che traduce in elegante e raffinato snobismo linguistico (il linguaggio finzi-continico) gli echi del mondo che non può ignorare, se non quello di dissolversi in fumo? Dalle storie ferraresi così intrise di fatti, all'incerto sfondo degli Occhiali d'oro, anche Bassani sembrava arrivare alla dimensione del romanzo attraverso il racconto puntato su certi nomi ricorrenti, Clelia Trotti, Sciagura, Elia Corcos: ma Il giardino dei Finzi-Contini taglia qualsiasi rapporto col mondo reale per fermarsi a un vagheggiamento della memoria, elegantissimo, affascinante, di una intelligenza psicologica penetrante, espresso con un linguaggio tutto complice delle cose che dice, un linguaggio funzionalmente perfetto. Se la distruzione del giardino possa significare per Bassani la fine di un incanto e l'inizio di una nuova storia, o non rappresenti la definitiva immersione nel cerchio della memoria che si va leggiadramente e tristemente sfocando, questo non si può ancora dire. Ma il pericolo che dal culto delle memorie esca un romanzo estenuato ed intimistico esiste.

E resta, per finire, il discorso più difficile, quello sulla narrativa interrotta di Vittorini e quello sul romanzo postumo di Alvaro.

Se una fervente e clamorosa fiducia qualcuno dimostrò, nell'immediato dopoguerra, fu proprio Vittorini col piglio anche poeticamente ingiusto dei suoi titoli che dividevano il mondo in due: Uomini e no, con la sua osservazione sul rimescolamento di costumi, ceti, regioni che la guerra aveva portato con sé, così aperta, così avventurosamente epicizzante, così generosamente vaga nelle motivazioni ideologiche e culturali (era il tempo in cui Vittorini, direttore della rivista Il Politecnico si diceva marxista che non ha mai letto Marx, chiedeva il potere di cambiare il mondo con la cultura, invocava il diritto di sbagliare): era Vittorio pronto a condannare i nazisti e pronto a credere che il lavoro riscatta chiunque e salva come un sacramento (si potrebbe dire che rimette i peccati). Ma Vittorini si é fermato e come narratore tace: le speranze nutrite non si sono realizzate, l'idea di un profondo rinnovamento da operare attraverso la cultura gli si è per istrada rivelata inconsistente? Vittorini ha avuto il grande coraggio di non camuffare di ragioni narrative il suo silenzio, né di coprire con il volto di altri personaggi il suo imbarazzo, pubblicando il Diario in pubblico, la cronaca più viva di tutte le occasioni perdute della cultura italiana degli ultimi anni. Occasioni perdute per il venir meno della curiosità reciproca, del desiderio di capire (sostituito dall'orgoglio di avere ragione), del rapporto di fiducia umana. Vittorini ci riporta, con altra violenza e con motivazioni più complesse, non solo psicologiche, ma anche politiche e storiche, alle stesse ragioni della Manzini, all'impossibilità di decifrare la situazione attuale. Anche le vicende politiche di Vittorini, passato dal PCI a un vago marxismo indipendente, per approdare ai partito radicale, ci dicono il progressivo intellettualizzarsi delle sue motivazioni e la perdita di quella furia di odio e di pietà che era l'impasto poeticamente più affascinante dei suoi primi libri.

Ma a una impresa più rischiosa si era messo, con quel suo lucido rigore morale che non indietreggia di fronte a nulla Alvaro: l'abbozzo di romanzo Tutto è accaduto é quasi un altro diario in pubblico, con anche una serie di abbastanza sgradevoli intrusioni spiccatamente autobiografiche e di personaggi a malapena travestiti. L'opera non é stata terminata e perciò sarebbe ingiusto giudicarla col metro della completezza che non può avere. Ma interessa il fatto che Alvaro, a distanza di anni, avverta l'esigenza di ripensare, di fare un'analisi spietata di tutto quello che é accaduto, la viltà e la compiacenza, il morbido conformismo ministeriale e la paura, la corruzione e l'indifferenza. Tutto questo è accaduto, sembra dire amaramente l'autore, e la speranza che non si ripeta é insidiata dal riconoscere quanto sono umane le possibilità di errore, le incertezze, le viltà. La salvezza può essere solo individuale, quella di chi testimonia della propria integrità con la propria vita. Siamo ricondotti alla tematica della persona, però in Alvaro non sottratta al cerchio dei rapporti con gli altri e non destinata a morire inutilmente.

Mi pare di poter concludere questa assai incompleta recensione di opere ricordando che la narrativa ci suggerisce l'idea di una crisi profonda della società, insidiata da elementi di dissoluzione che inducono il narratore a tacere o a placarsi in forme eleganti ma evasive.