IL CRISTALLO, 1966 VIII 2 [stampa]

OMAGGIO A CROCE

di GIOVANNI SPADOLINI

Risaliamo con la memoria al giugno 1920. Giolitti, settantottenne, è incaricato di formare il governo, quello che sarà il quinto ed ultimo governo del grande statista volto a salvare il salvabile dello Stato liberale, volto a riparare le devastazioni della guerra e del dopoguerra, le une più gravi delle altre. Corre, nei giornali, il nome di Benedetto Croce per il ministero della Pubblica Istruzione. Qualcuno ne parla, a Napoli, con don Benedetto; il filosofo, che è sempre stato estraneo alla lotta politica, che al massimo ha accettato di partecipare quale candidato alle elezioni amministrative della sua città d'elezione nel luglio del 1914, esclude l'ipotesi, sorride, con una smorfia che è insieme di ironia e di timore, alla sola prospettiva di dover lasciare i suoi studi, la sua biblioteca, il suo angolo di Trinità Maggiore da dove contempla le ombre e i fantasmi di un mondo che nessuno ama e possiede come lui.

Croce e Giolitti non si conoscono, non hanno avuto mai occasione di incontrarsi nei vent'anni che pur saranno consegnati alla storia coi loro nomi. Per di più il fondatore della «Critica» non ha condiviso del tutto, almeno nel primo decennio del secolo nuovo, le inclinazioni e gli orientamenti del «trasformismo» giolittiano, del suo empirismo duttile e pragmatico cosi lontano dalle grandi impostazioni ideali di un De Sanctis o di uno Spaventa, così alieno dai filoni classici del liberalismo meridionale nel cui grembo è cresciuto. Nei «ricordi» del secondo dopoguerra, il grande maestro aggiungerà anzi che l'unico statista «verso cui a me, che stavo fuori dalla lotta politica, era accaduto di pronunciare un accenno di biasimo» era stato precisamente Giolitti, a proposito delle agitazioni popolari di Torino nel 1917: agitazioni in cui Croce, su un'errata informazione di un collega senatore napoletano, aveva visto la mano dell'esule di Dronero, ancora legato alle pregiudiziali del neutralismo e ai risentimenti del maggio cosiddetto «radioso».

Eppure la voce dell'incarico di governo era vera. Olindo Malagodi fu il tramite dell'invito di Giolitti che turbò la quiete di casa Croce, che mise subito in luce il ruolo decisivo della cara signora Adele («se questo è il dovere cui sei chiamato, devi accettarlo»: fu la voce della compagna fedele). Croce parti da Napoli in tale fretta che poté portare con sé un solo abito da pomeriggio, lo stesso che gli servirà nella tarda serata per il giuramento dei nuovi ministri al Quirinale (presso il Re che, gli aveva confidato il presidente del Consiglio, non teneva affatto ai rigori dell'etichetta).

Di fronte alle riluttanze e alle perplessità del filosofo, che non 'si sentiva e non si senti mai tagliato per la politica, Giolitti ricorse ad un argomento che per un patriota di devota fede risorgimentale qual era Croce doveva esercitare un peso determinante: «...Le chiedo un sacrificio distogliendola dai suoi studi... Ma l'Italia è in tale travaglio che tutti dovremo sforzarci (e non so se ci riusciremo) a salvarla».

In realtà né Croce né Giolitti riusciranno a salvare l'Italia liberale, corrosa e disintegrata da una crisi interiore di uomini e di istituti che l'uno e l'altro avevano lucidamente previsto nel momento stesso in cui si erano invano opposti allo scatenamento dei miti dell'interventismo e alla violenza della piazza tumultuante dietro le grida dell'irrazionalismo dannunziano. Ma il rapporto che si instaurò fra i due, in quel primo e purtroppo incompiuto esperimento di governo, fu di tale cordialità e simpatia da creare un cemento ideale capace di sopravvivere a tutte le drammatiche prove degli anni di poi, capace di prolungarsi dall'azione politica nell'intimità dei cuori e nel fervore di un'amicizia mai tradita. Quel rapporto si riflesse nelle pagine commosse e poeticamente evocatrici della Storia d'Italia dal 1871 al 1915 — il più alto elogio del giolittismo che lo stesso Giolitti potesse attendersi (al punto che, quasi alle soglie della morte, il vegliardo statista confiderà alla figlia di aver capito molto meglio l'opera sua nell'interpretazione di Croce che non nel momento stesso in cui l'aveva realizzata).

Fu un sodalizio impareggiabile. Giolitti cominciò presto ad ammirare in Croce il senso dei problemi concreti, la capacità di adattarsi alle esigenze più minute, l'odio della retorica. E quando il vecchio ed espertissimo presidente del Consiglio vide questo nuovo ministro, del tutto ignaro della pratica di governo, chinarsi con diligenza e!serietà sui temi impopolari dell'esame di stato o dell'insegnamento religioso, e quando lo vide affrontare con calma e serenità le incompetenti od ostili commissioni parlamentari, e quando lo vide opporsi con misurata energia alle sconsiderate agitazioni del personale impiegatizio, o promuovere economie nell'ambito del suo dicastero, o tagliare i fondi per inutili feste celebrative, o quando lo senti addirittura correggere disegni di legge proposti da altri colleghi che non li avevano neppure letti, lo statista fini per esclamare, con una nota di sollievo e di consolante smentita agli scetticismi della vigilia: «ma questo filosofo ha molto buon senso». Uno dei pochi elogi, confesserà Croce molti anni più tardi, di cui egli si sia compiaciuto, che abbia conservato quasi come un blasone di nobiltà nel segreto del cuore.

Fedeltà mai smentita: abbiamo detto. Fedeltà che si opporrà alle profferte e alle lusinghe del fascismo, nella fase corruttrice del «collaborazionismo» col mondo liberale. Allorché Mussolini tenterà di risalire la china del delitto Matteotti e farà giungere a Croce, già guarito da quasi tutte le iniziali illusioni sull'esperienza fascista, l'invito a ritornare al dicastero della Pubblica Istruzione, il futuro promotore del manifesto degli intellettuali antifascisti non gli risponderà soltanto con un «no» categorico ed assoluto ma gli farà sapere che «solo con Giolitti» sarebbe tornato al governo, che «Solo a Giolitti» non avrebbe detto di no.

Solo con Giolitti. Il liberalismo di Croce trovò nel giolittismo la sua concreta misura di azione politica, un criterio di riferimento infallibile: nel c no» a tutte le deformazioni e a tutte le amplificazioni retoriche, nel comune culto dei valori di probità e di operosità individuale, nella medesima inflessibile severità con se stessi e col proprio lavoro, concepito con una punta di religiosa dedizione.

Di quell'unica esperienza di governo nell'epoca prefascista Croce ci ha parlato in pagine toccanti e venate da una nota di patetico rimpianto: compendio dei molti omaggi che egli doveva rendere al suo presidente del Consiglio nell'arco di tempo che dal '20 porta alla scomparsa di Giolitti nel '28, già in pieno regime autoritario (allorché l'amico si recherà sul colle di Cavour a rendere quel saluto di fronte al quale arretrerà, impaurito e già prigioniero di se stesso, Vittorio Emanuele III). Il liberale moderato dei primi del secolo diventerà cossi, nella ricostruzione quasi autobiografica della storia d'Italia nel cinquantennio liberale, l'interprete più profondo e penetrante della grande e rivoluzionaria svolta del giolittismo anche nella politica sociale, anche nella nuova concezione dei rapporti fra lo Stato e il mondo del lavoro.

Destra? Sinistra? Le stesse categorie ideali del Risorgimento si dissolvevano di fronte a quella lezione di concretezza e di serietà che si esprimeva nel giolittismo, che si traduceva in tutta un'azione di governo, che si rifletteva in tutta una visione, non casuale e non opportunistica, del futuro dello Stato liberal-democratico aperto alle nuove esigenze e ai tempi nuovi.

Ecco perché Croce, pur accomunato allo spirito della Destra storica dalle consuetudini familiari, dagli orientamenti intellettuali, dall'impronta di un Silvio Spaventa, integrò sempre l'insegnamento dello zio con quello di Francesco De Sanctis, il moderato che aveva finito per aderire alla Sinistra storica e aveva parlato anche di una «sinistra giovane».

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Conservatore o moderato? È un interrogativo che si continua a porre ancora oggi a proposito del Croce politico e prefascista: con non poca sufficienza e alterigia da parte dei critici disdegnosi ed «eversivi» che magari muovono in battaglia in nome di filosofie pietrificate (e che egli bollò con termini cosi incisivi ed icastici). Ma è un interrogativo che non ha ragione di esistere. Conservatore per origine, per educazione, per spirito familiare, Croce non condivise mai le chiusure, le asprezze, le inibizioni di quel conservatorismo italiano, che degenerò nella reazione. Fu anzi negli anni della grande crisi di fine secolo che il filosofo inviò una sottoscrizione all'«Avanti» per i camerati del '98 e approfondì la sua amicizia con Antonio Labriola, il maestro che dalle aule dell'Ateneo romano offriva la prima interpretazione organica e storicista di un marxismo lontano da tutte le falsificazioni romantiche e da tutti i travisamenti libertari: esperienza consegnata in un libro che Croce continuò a ristampare tranquillamente anche nei momenti della più accentuata polemica anticomunista. «Livre de chevet» della nuova generazione marxista: come lo definirà George Bourgin all'indomani della prima traduzione francese del 1901, una traduzione dovuta alla amicizia di Sorel.

Il filosofo, che negherà sempre e con piena coerenza la legittimità del concetto di «lotta di classe» come logicamente assurdo, non mancò di avvertire quanto l'inserimento di nuove forze contribuisse a spezzare gli schemi 'giuridici e formalistici in cui si era chiusa la nostra vita parlamentare, a riportare le differenziazioni e le antitesi programmatiche a «ragioni storiche», a riconsacrare quel senso drammatico e tragico della vita, che era stato ottenebrato dall'ottimismo radicale e dalla «mentalità massonica». Fu solo quando gli sembrò che il socialismo si volgesse verso una forma di radicalismo bloccando, di filosofia umanitaria, cementata dalla Massoneria e dai miti dell'89, che egli scrisse il famoso articolo sulla «Morte del socialismo», cioè sul fallimento della sua interpretazione «borghese».

Critico fino in fondo, e talvolta non senza asprezze, della sociologia di Mosca e di Pareto, scettico sull'autonomia e sulla esistenza stessa di una «scienza politica», Croce non indulse mai alle evasioni del misticismo politico o dell'utopismo ideologico, che contrabbandano tanto spesso la più spietata difesa di posizioni di privilegio e di reazione. Si può parlare di lui come di un «moderato», almeno fino all'avvento del fascismo? È la definizione preferita dai più; ed è vera in quanto si ricolleghi il moderatismo ad un complesso di valori della vita, ad una specie di concezione quiritaria, di galateo mentale, al quale si mantenne sempre e intransigentemente fedele, al di fuori di ogni esclusivismo e di ogni indulgenza retriva.

Contro tutte le tentazioni dell'irrazionalismo di destra, sul piano nazionale o sociale non importa. Per quanto incline a difendere l'etica del patriottismo contro il troppo facile internazionalismo dei socialisti (mito di origine borghese), non condivise mai le accensioni e gli entusiasmi di quel nazionalismo aggressivo e intollerante che affiorò in Italia fin dal primo colpo di. stato del maggio 1915; e passò allora per germanofilo e per neutralista, quando magari germanofilia e neutralismo significavano soltanto la difesa della dignità della cultura e di un certo equilibrio morale.

La sua influenza sui movimenti innovatori o evasori o semplicemente polemici dei primi del Novecento fu profonda; ma egli separò nettamente le proprie dalle altrui responsabilità non appena intuì il rischio, che poi denuncerà aspramente nella Storia d'Europa, di uno scivolamento verso l'attivismo e il decadentismo vitalistico.

Allievo ideale di Hegel, non abbracciò mai la filosofia dello «Stato etico» e intravide quei pericoli e quelle deviazioni, che appariranno in piena luce con le esasperazioni dell'attualismo. Portato a sentire la politica come potenza, come lotta, come emulazione, portato a preferire i trattati del Treitschke ai proclami della lega per la pace perpetua, portato a esaltare i valori di energia, di coraggio, di «virtù», non mancò di segnare con rinnovato vigore i limiti fra politica ed etica, non appena parve che un'interpretazione disinvolta e temeraria dell'idealismo giustificasse un nuovo massimalismo dell'azione, un nuovo e più inquietante pragmatismo.

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Occorreva l'esperienza «piena» del fascismo, la negazione radicale e completa dei valori di libertà, perché Croce traesse tutte le conseguenze da quella che era stata fin allora una rivoluzione del metodo critico, un riordinamento delle discipline storiografiche, un rivolgimento filosofico. Nel movimento delle Camicie Nere, che tanta parte della destra liberale aveva visto come uno strumento, sia pure provvisorio e rozzo, di restaurazione dello Stato e dell'autorità nazionale (errore cui egli stesso all'inizio non era stato estraneo), Croce finirà per scorgere la radice di una filosofia politica che, pur muovendo da talune premesse del vecchio liberalismo autoritario, arrivava a negare in nuce gli stessi valori del Risorgimento, a incarnare l'Antirisorgimento oggi, l'Antieuropa domani.

Forse senza il 3 gennaio, senza l'estrema involuzione dittatoriale del regime, non avremmo avuto il dispiegamento pieno della sua filosofia politica. E non avremmo avuto neppure le grandi opere storiche che nascono tutte da un'esigenza attuale, che traggono tutte forza e stimolo da un'esigenza schiettamente «contemporanea»: quella che poi Croce teorizzerà nelle superbe pagine della Storia come pensiero e come azione, in quelle pagine che, rivendicando la filosofia dello storicismo assoluto, rivendicavano in realtà, la filosofia della libertà, della storia come storia della libertà.

Si tratta di tre libri, di tre grandi libri, che muovono egualmente da una volontà di ripensamento del passato e di contrapposizione al presente. Pensate alle date, pio illuminanti e pio rivelatrici di mille commenti.

1924. La Storia del Regno di Napoli: non solo frutto di una commossa e coerente pietas loci ma anche «reinterpretazione» di una parabola politica interrotta proprio dalla acuta e paralizzante mancanza di libertà. Vittoria del Risorgimento contro il borbonismo e sanfedismo; dell'unità contro il separatismo, adesso ritornante con accenti regionalisti (a proposito: ricordate l'invettiva di Croce contro le Regioni all'Assemblea costituente?).

1927. La Storia d'Italia dal 1871 al 1915, omaggio al mondo di ieri ma anche e soprattutto monito e richiamo per il mondo di domani: nella evocazione di un passato che diventava rimprovero e modello del presente, che si opponeva a tutte le falsificazioni e deformazioni dell'oggi in nome di «una patria del cuore» difesa contro ogni negazione e contro ogni interdetto.

1931. La Storia d'Europa nel secolo decimonono, atto di fede non pio soltanto nella libertà ma nell'Europa come incarnazione storica della libertà: atto di fede dedicato non a caso a Thomas Mann proprio alle soglie dell'avvento devastatore del nazismo. E con l'appello finale all'unità politica del vecchio continente, al nuovo Risorgimento europeo opposto alle «competizioni dei nazionalismi» e destinato a fondere tedeschi e italiani e francesi come il primo aveva fuso piemontesi e napoletani e toscani; un appello che risuona, oggi più vivo, più ammonitore che mai, nei nostri cuori.

II magistero storico si uni senza soluzione di continuità col magistero morale e politico. La polemica di Croce contro i nuovi dispotismi, dentro e fuori le frontiere della patria, lo portò ad attenuare certi motivi della sua antica opposizione allo «spirito democratico» concepito come spirito astratto, utopistico, livellatore, come negazione dello storicismo liberale che è varietà, molteplicità, dissoluzione continua del mito. Ma Croce tenne sempre ferma la distinzione fra liberalismo e liberismo: quasi ad evitare, anche in polemica col suo grande e nobile amico Luigi Einaudi, che nelle critiche ad un certo sistema economico fossero coinvolti i principi eterni di quella concezione della vita, che si riannoda alla stessa intuizione cristiana.

Liberale conseguente ed intrepido, non arrivò mai ad identificare tout court il liberalismo col partito liberale: neppure negli anni successivi alla Liberazione in cui assunse direttamente responsabilità nella lotta politica, particolarmente nella contrastata vicenda del governo di Bari e della Luogotenenza di Umberto di Savoia, necessario trapasso fra Monarchia e Repubblica.

La sua teoria dei partiti politici come pure classificazioni di comodo, come convenzioni strumentali, come «generi letterari» è nota: né egli l'ammainò totalmente neppure a proposito del «suo» partito, del partito liberale, che identificò con una specie di «pre-partito», condizione o giustificazione alla vita e alla lotta delle altre formazioni politiche. Si potrebbe solo dire che l'ombra del totalitarismo devastatore smorzò sempre più quei confini che egli aveva:tracciato, in sede teoretica, fra liberalismo e democrazia. A vantaggio di una nuova e più appagante concezione, religiosa e politica insieme.

Sì: a vantaggio della religione della libertà. C'è nel pensiero di Croce una «costante» che va oltre le scuole filosofiche o le correnti politiche, un elemento di suggestione profonda e stimolatrice che si lega ad un coerente impegno morale, che rispecchia un'autentica ed esemplare visione della vita: la stessa visione della vita che è brillata nelle pid alte esperienze e nei più felici momenti della nostra storia unitaria. Ancora pochi mesi prima di morire, in quella malinconica e patetica stagione della sua infaticabile giornata terrena che ricordava il glorioso tramonto di Carducci, il maestro confessava in una lettera ad un amico che il «suo liberalismo» lo portava nel sangue, che nessuna forza umana o sovrumana sarebbe riuscita a scuotere nel suo cuore quelle convinzioni e quelle speranze alimentate dalla fede dei padri, nutrite dagli uomini del Risorgimento, che egli salutava maestri.

Quasi per rispondere a tutte le obiezioni degli scettici, che vedono nello storicismo soltanto una forma di giustificazione della forza, di omaggio al successo, di adesione al vincitore, Croce metteva in luce il fondo originario e primigenio della sua concezione lberale, quelle radici interiori e quelle derivazioni «storiche» che trascendevano le stesse tesi filosofiche, che elevavano la sua scelta in una sfera di sentimenti e di affetti inaccessibile a tutte le insidie della critica. Questo lievito di «spontaneità» e vorremmo dire di «religiosità» immanente al suo liberalismo rappresenta un elemento decisivo per capire il complesso della sua opera, per penetrare nel segreto della sua anima: che è per tanta parte l'anima dell'Italia moderna, dell'Italia che è parte, e parte essenziale, dell'Europa e della nostra civiltà.

Conservatorismo dell'anima, che diventava «disposizione del sentimento», «conformazione mentale e morale». Lo confessò egli stesso in una «postilla» scritta negli anni fascisti: «io sono di coloro che provano riluttanza alla sfacciataggine del nuovo... che sono presi da una sorta di smarrimento e poi di angoscia e di tristezza se avvertono un reciso distacco del passato, che si riaprono alla gioia quando ritrovano anche nel nuovo la compagnia dei padri e degli avoli».

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In cosa l'esperienza della seconda guerra mondiale e del successivo dopoguerra ha arricchito la sua meditazione storico-politica? Non solo nel suo contatto con la vita reale dal quale rifuggi presto; non solo nell'esperienza del dolore e della sofferenza. Piuttosto in quel nuovo slancio, in quel senso creativo ed «aperto» che egli ha dato al suo liberalismo come misura del mondo, come religione dell'anima: superando certe chiusure, trascendendo certi schemi, approfondendo il vincolo fra filosofia e storia, fra pensiero ed azione, fra la meditazione sul mondo e l'impegno nel mondo.

Qualcuno, come il compianto De Ruggiero, avrebbe voluto uno spostamento della sua problematica, un ripiegamento dalle certezze olimpiche ed «erasmiane» dell'umanesimo laico sul terreno del «dubbio». La sua misura di suprema saggezza non lo consentiva. Ma chi legga con attenzione i suoi ultimi scritti, il suo soliloquio sul dialogo fra l'uomo e Dio, il suo diario immaginario con Hegel, talune delle estreme «schede» solcate dal presentimento della fine («la vita intera è preparazione alla morte»: ricordate?) sentirà un nuovo fremito insinuarsi nelle sue pagine, quasi un bisogno di commisurare egli strumenti della sua filosofia alla realtà angosciosa del mondo post-bellico: «l'estrema angoscia del maestro» come la chiamerà un amico fedele, Mario Vinciguerra.

La grandezza del Croce politico, del Croce maestro di libertà, sta tutta nell'armonia fra la penetrazione, sempre attenta ed acuta, di una società in evoluzione e la fedeltà a certe posizioni immutabili, ad un certo immutabile costume. Era un quid misterioso e irripetibile che l'uomo ha trascinato con sé nella tomba e che rivive solo nella devozione alla sua memoria. Finché il maestro fu in vita, anche piegato dal male, ci consolava nel lavoro di ogni giorno la certezza di sentire in lui palpitare le speranze del Risorgimento, rivivere gli ideali di un mondo lontano, incarnarsi la morale di una civiltà scomparsa, ma sempre riferita ad una misura presente, ad un'esigenza attuale.

La sua lezione è stata tale che nessuno, a cent'anni dalla nascita, a quattordici dalla morte, può pensare di prescinderne (a dispetto degli allegri «superatori», di «tutti i giovanotti — l'aveva detto una volta egli stesso — che vorrebbero ficcarmi a forza in una bellissima e decorosissima tomba»).

Il laico parlava ai credenti; il credente parlava ai laici. Secondo una misura di tolleranza e di equilibrio che si identificava con la tradizione della vecchia Italia, che corrispondeva ad una vera e propria religione, custodita in scrinio pectoris e senza ostentazioni. La «religione» di quel Dio che «a tutti è Giove»: com'egli stesso confidava, alla fine del 1949, in una lettera ad Alcide De Gasperi, lo statista che aveva raccolto, nello sfacelo della guerra e della disfatta, la lezione di Giolitti, al servizio della causa democratica e cattolica.

Vogliamo rileggere insieme quelle parole che De Gasperi rivelò al Senato poche ore dopo la morte del grande filosofo, nel novembre del 1952?

Mio caro De Gasperi, io penso spesso a te, non politicamente ma umanamente, e mi fo presente la vita che sei costretto a condurre e ti ammiro, e ti compiango, e ti difendo contro la gente di poca fantasia, che non pensa alle difficoltà e alle amarezze che è necessario sopportare ad un uomo responsabile di un alto ufficio per fare un po' di bene ed evitare un po' di male. Che Dio ti aiuti (perché anche io credo, a modo mio, a Dio, a «quel Dio che a tutti è Giove» come diceva Torquato Tasso), che Dio ti aiuti nella buona volontà di servire l'Italia e di proteggere le sorti pericolanti della civiltà, laica o non laica che sia.

Si: di quella civiltà «per la quale non possiamo non dirci cristiani». E che è la nostra civiltà: la civiltà fondata sulla tolleranza e sulla ragione. La civiltà in nome della quale possiamo e vogliamo onorare Croce: sapendo di onorare in lui il meglio del nostro tempo, la religione dei nostri padri e la dignità dei nostri figli.