IL CRISTALLO, 1972 XIV 3 [stampa]

LA CRISI DELLA PEDAGOGIA LICEALE

di CARLO LAZZERINI

Se è vero che la crisi della nostra scuola media è anche una crisi di strutture, di ordinamenti degli studi, e se è vero che al centro di tale scuola resta ancora il vecchio liceo classico, un esame della natura di questo può forse aiutare a chiarire le ragioni di quella crisi.

Che il liceo abbia occupato una posizione centrale in tutto l'insieme della scuola media risulta abbastanza evidente quando si consideri la storia delle nostre istituzioni scolastiche, ma può essere accertato facilmente anche ricorrendo ad osservazioni immediate e superficiali. Per lungo tempo la scuola media inferiore è stata intesa come preparazione a quella superiore, e la sua fisionomia, di fatto, non è sostanzialmente cambiata neppure quando ha acquistato una sua struttura autonoma. I diversi tipi di scuola media superiore, d'altra parte, sono stati concepiti o come una copia più o meno brutta del liceo classico, con tagli, restrizioni, aggiunte estrinseche, giustapposizioni, e come istituti di addestramento professionale, che intanto serbavano una traccia di intenzioni più propriamente educativa in quanto accoglievano alcuni insegnamenti di impronta liceale. Oltretutto si deve tenere presente che la grande maggioranza del personale docente in ogni tipo di scuola è di estrazione liceale e che l'unica esperienza pedagogica concreta alla quale può rifarsi un insegnante per assumerla come modello è prima di tutto la propria esperienza di scolaro.

Quale è dunque la ragione di questa centralità del liceo rispetto ad ogni altro tipo di scuola? La risposta più frequente, ma forse anche la più orecchiata e meno meditata, è che il liceo presenta dei contenuti di humanitas che sono esemplari, perenni, e che costituiscono una paideia dalla quale non si può prescindere se si vuole inserirsi nella tradizione della nostra civiltà. Il contesto storico dal quale ha preso le mosse questo tipo di scuola sembrerebbe confortare una simile opinione. Contenuto fondamentale dello studio liceale è stata alle origini la civiltà antica vista nella prospettiva degli umanisti: una civiltà ritenuta esemplare e conclusa in sé, ma non per questo arcaica, esaurita, anzi sempre suscettibile di nuove scoperte che, come accrescono la conoscenza del passato, illuminano di più il nostro presente.

Si devono tuttavia ricordare due fatti che nel corso del tempo hanno profondamente mutato questa ipotetica fisionomia originaria. Da un lato lo sviluppo della civiltà moderna ha imposto l'immissione nella scuola di sempre nuovi contenuti culturali accanto a quelli tradizionali, e dall'altro la pedagogia liceale ha fatto leva, da sempre, più sul valore formale che su quello sostanziale dei propri contenuti.

Il mondo antico in questo tipo di studi non è mai stato recepito passivamente (come l'idea del «modello» superficialmente attribuita agli illuministi potrebbe suggerire), ma è stato accolto, potremmo dire, dall'interno, ricostruendolo attraverso uno studio linguistico che dovrebbe portare gradualmente a farsi suoi «contemporanei». Non basta per individuare il carattere «classico

dello studio liceale la classicità dei suoi contenuti; bisogna che tale classicità venga recepita intimamente e formalmente attraverso l'assimilazione del linguaggio che l'esprime. Da ciò il costante primato dello studio linguistico non solo rispetto allo studio delle scienze, ma anche rispetto ad ogni indagine storica, letteraria, sociologica, filosofica (necessarie, ma sempre accessorie); il primato del «testo», anche parziale, anche ridotto a poche righe, purché nella lingua originale, nella forma autentica. Se uno riuscisse ad impadronirsi delle civiltà antiche senza uno studio delle loro lingue, ma attraverso traduzioni delle opere e interpretazioni di storici, potrebbe arrivare ad una vasta conoscenza del mondo classico, ma non avrebbe per questo fatto gli «studi classici».

Questa preminenza del testo ha probabilmente la sua ascendenza nella filologia degli umanisti. Ma bisogna non dimenticare che la matrice umanistica si è codificata poi in una ratio studiorum per l'opera degli ordini religiosi della Controriforma — i Gesuiti, gli Scolopi, i Barnabiti — che hanno conservato la tradizione monastica del culto del «verbo» — la parola sacra definitiva e codificata —, l'assunzione del testo come punto fermo da interpretare,all'infinito, perché inesauribile nel suo valore, ma da non toccare, perché autorità suprema. Una specie di teologia con contenuti profani dunque; un esercizio di tipo sacerdotale consentito ai laici.

Studio linguistico del testo. Ma anche qui bisogna intendersi. Lo studio delle lingue classiche nel liceo non è concepito tanto come apprendimento per conseguire la padronanza della lingua, ma come acquisizione di un codice di norme grammaticali e sintattiche di un momento particolare della lingua (il latino ciceroniano, ad es.) assunto a modello di perfezione. Anche la lingua è concepita come un «classico», un dato esemplare e definitivo, sicché deve essere extrapolata dalla sua vicenda storica e cristallizzata in una forma astratta che faccia da canone. Al limite, più ancora che la conoscenza della lingua interessa la padronanza delle regole grammaticali, sintattiche, stilistiche, lessicali, concepite non come strumento, ma come fine dello studio.

I contenuti della civiltà antica si, ma rivissuti dall'interno attraverso il testo originario; il testo si, ma non tanto come documento di eventi culturali, quanto piuttosto come occasione di esercizio linguistico e di una analisi grammaticale per una interpretazione del pensiero, che parta dalla parola e solo dalla parola. Questa tendenziale ma costante subordinazione,dei contenuti culturali allo studio formale, questa preferenza per le lingue «morte» e per i « passi» avulsi dal loro contesto, sono state occasione continua di critica da parte di coloro che auspicavano una scuola viva e legata all'attualità, ma probabilmente sono state anche la ragione più profonda della vitalità pedagogica dello studio liceale. Vedremo meglio questo più avanti; per il momento è forse opportuno documentare come nel continuo conflitto che ha caratterizzato la storia del liceo tra volontà di innovazione nei contenuti culturali e fedeltà allo schema pedagogico di esercizio formale interpretativo di un testo, è quest'ultima che ha sempre finito col prevalere.

Quando, ad esempio, si è ceduto alle pressioni pratiche e si è introdotto nel liceo lo studio delle lingue moderne, spontaneamente si è resistito ad un insegnamento basato sulle tecniche dell'intuizione, dell'imitazione spontanea, della ripetizione, e si è ripiegati sul consueto modello grammaticale, filologico e letterario. Tali tecniche, si è protestato più volte, sono valide per insegnare la lingua a dei maîtres d'hotel, ma non sono «educative», non sono « formative». Se poi il risultato è che dopo anni di studio di una lingua gli studenti del liceo non sanno usarla, poco importa: il valore formativo dell'insegnamento si ottiene soltanto cristallizzando anche la lingua viva, presentandola come un documento da analizzare con gli strumenti grammaticali e facendone occasione per una riflessione su una letteratura ed una civiltà.

L'operazione di allargamento dei contenuti culturali fu relativamente più semplice quando si volle aggiungere allo studio del mondo di Atene e di Roma anche quello della civiltà medioevale e moderna, soprattutto se espressa nei testi della lingua nazionale. Qui la condizione di porsi di fronte a Dante o a Machiavelli con lo stesso animo con cui si supponeva che gli umanisti si accostassero a Cicerone o a Platone poteva essere facilmente soddisfatta.

La letteratura italiana del Medioevo, del Rinascimento e di gran parte dell'età moderna non solo può apparire come la naturale continuazione del mondo già assunto come «classico», ma è anche espressa in una lingua che può essere considerata un momento dell'evoluzione del latino e che oggi si percepisce come lingua «morta», cristallizzata in forme che ben si prestano all'operazione dell'analisi grammaticale e lessicale, all'esercizio di traduzione e di interpretazione. Naturalmente le difficoltà nascono quanto più ci si avvicina ai tempi nostri, quando si affrontano cioè quei testi che per essere intesi hanno minor bisogno di una traduzione e di un esercizio lessicale e grammaticale. E infatti gli insegnanti più fedeli allo spirito liceale resistono all'idea di spingersi fino alla letteratura militante, agli avvenimenti contemporanei, ai filosofi, gli artisti, gli scienziati dei nostri giorni. Per quanto si trincerino dietro il pretesto delle difficoltà di distribuzione del vasto programma ministeriale, in realtà il fatto è che più o meno consapevolmente avvertono che coi contemporanei il metro della classicità, del valore definitivo e indiscutibile e il pregio pedagogico dell'analisi linguistica di tipo canonico non sarebbero più proponibili.

Esemplare, per caratterizzare questa vicenda, è la sorte delle letterature straniere che tante volte si è tentato di introdurre nella scuola per ovviare all'assurdo dell'ignoranza dei massimi artefici della cultura moderna e altrettante volte si sono rigettate tacitamente. Sarebbe inevitabile accettarle in traduzioni, ignorare il testo originale, rinunciare all'analisi linguistica, limitarsi ad un'informazione orientativa che senza il rigoroso controllo filologico si risolverebbe, si teme, in un vaniloquio. Non essendo facile inquadrare quest'insegnamento nello schema pedagogico tradizionale, si è preferito lasciarlo cadere.

Altra sorte, ma non del tutto diversa, ha avuto l'insegnamento della filosofia. Fin dai tempi della riforma Gentile, quando si introdusse nelle scuole l'insegnamento della storia della filosofia, si volle avvertire che l'informazione storica avrebbe dovuto essere accessoria e che il vero valore di quest'insegnamento doveva essere ricercato nell'interpretazione del testo, nella lettura del «classico». Ma proprio qui sarebbero nate le difficoltà. L'alunno non dispone degli strumenti linguistici per accostarsi al testo originale (il greco di Aristotele o il latino di Tommaso, l'inglese di Hume o il tedesco di Kant) e ci si deve ridurre ad un'interpretazione di seconda mano, lavorando su classici tradotti. Da ciò il disagio e le discussioni sempre aperte per inventare nuove vie per l'insegnamento di questa disciplina che si stenta ad inserire nel modello pedagogico tradizionale. Intanto si è generalmente finito con l'invertire le proporzioni e dare la prevalenza allo studio della storia della filosofia. Ma chi volesse vedere in questa tendenza il segno di una preminenza dell'informazione probabilmente sbaglierebbe. Anche qui, perfino il manuale di storia della filosofia è adoperato proprio come un «testo»: non tanto cioè come uno strumento di informazione, quanto come occasione per un'interpretazione ed una traduzione dal linguaggio tecnico rigoroso al linguaggio corrente.

Ma forse l'esempio più evidente della vitale resistenza della tradizionale pedagogia liceale di fronte ad ogni tentativo di deviazione si ha nell'insegnamento delle discipline scientifiche. Il pensiero scientifico ha delle caratteristiche per cui sembrerebbe difficilmente inquadrabile entro lo schema linguistico-letterario di stampo tradizionale. La scienza moderna è nata proprio come una continua dissacrazione del testo; per sua natura è intrinsecamente profana, esige sempre il controllo, la verifica, non ha alcun timore reverenziale per gli auctores, anzi ha la sua ragione d'essere proprio nel suo continuo metterli in dubbio, nel superarli. Al limite nella scienza c'è un solo testo classico: quello sempre mutevole della ricerca ultima nel tempo, quello più «aggiornato», che si sostanzia di tutti quelli del passato, ma tutti li cancella. Ebbene: proprio su questo punto ha fatto leva la scuola liceale per assorbire l'insegnamento scientifico entro il proprio schema. Non educazione alla ricerca, alla verifica, al controllo, allo spirito critico, ma proposta di un «manuale» come documento «classico» ultimo, definitivo, da intendere, interpretare e ritenere. Un testo accanto agli altri, dunque; e con l'aggravante di essere ancor più degli altri estraniato dalla prospettiva storica e presentato come verità assoluta, metaempirica.

Su che cosa si basa questa forza della «pedagogia del testo», questa sua vitalità che le 'ha permesso per tanto tempo di resistere alle richieste degli innovatori e di informare di sé ogni mutazione che avrebbe potuto snaturarla?

Il problema si è delineato con evidenza nell'ultimo ventennio quando è esplosa la polemica sull'insegnamento del latino nella scuola media. I difensori della pedagogia tradizionale hanno resistito con una tenacia che non si è affievolita neppure di fronte alle più dure sconfitte. Ed a ragione; questa volta si trattava non di un'innovazione dei contenuti, che poteva sempre essere riassorbita nel vecchio schema, ma di un attacco allo schema stesso. Se non che la difesa del latino da un lato si è arenata nella disputa delle «.due culture», quella linguistico-letteraria e quella scientifica, e dall'altro è stata sostenuta con argomenti tratti dal vecchio repertorio encomiastico, ben poco pertinenti nella nuova situazione. Dal punto di vista formale si è insistito nel dire che lo studio del latino è un esercizio di logica, un allenamento della mente alle forme rigorose del pensiero, una specie di atletica dell'intelletto, che non può essere trascurata da chi ambisce affrontare più concreti e particolari studi o comunque vuole orientarsi nella realtà della vita. Una volta formulata, questa tesi difficilmente poteva sottrarsi all'obiezione che se l'educazione fondamentale si ottiene attraverso uno studio linguistico-grammaticale non si capisce perché tale studio non possa essere egregiamente esercitato anche con una qualsiasi altra lingua, quella nazionale o una straniera. Bisognava ridursi a sostenere che il latino è una lingua particolarmente dotata rispetto a tutte le altre; e così da più parti si è affermato che il latino possiede virtù intrinseche di razionalità e di logicità che altre lingue non hanno. Probabilmente la convinzione aveva un'origine del tutto verbalistica: se è vero che il latino si basa su una «analisi logica» degli elementi del discorso, deve essere una lingua eminentemente logica. Ma alla logicità dell'analisi logica delle grammatiche non c'è oggi più alcun linguista serio che veramente creda.

Comunque sia, era quest'aspetto formale del latino considerato come insuperabile attrezzo per la ginnastica della mente, che faceva da cardine alla difesa del suo insegnamento. Quando si scivolava su argomentazioni contenutistiche ci si rendeva subito conto che il terreno si faceva estremamente insidioso. Dire ad esempio che il latino deve essere studiato perché non è altro che la nostra lingua nazionale nelle sue primitive radici, significava rassegnarsi a vederlo relegare ad un ruolo secondario, del tutto propedeutico allo studio dell'italiano dei secoli successivi. Come anche dire che i contenuti della civiltà classica hanno un valore profondamente educativo per orientarsi nel mondo dei nostri tempi, è già ammettere che la scuola ha per fine la comprensione e l'analisi dell'età nostra, e quindi abdicare ad ogni resistenza contro l'intromissione dell'attualità nella scuola, a tutto discapito dello studio della lingua e delle civiltà antiche.

Il fatto è che la «pedagogia del testo» (e il discorso vale ovviamente prima di tutto per l'insegnamento, di lingue «morte» quale il latino) ha probabilmente la sua validità proprio perché fa scarso affidamento sulle capacità logiche e critiche e perché è pressoché indifferente ai contenuti.

L'insegnamento delle lingue classiche nel liceo ha sempre avuto come suo effetto preminente di educare ad una lettura rigorosa, a saper cioè dare significato ad un discorso sulla base soltanto della conoscenza di un codice linguistico. Tale codice non ha in sé alcuna struttura logica privilegiata, sicché possa essere ricostruito per virtù d'intelligenza; deve anzi essere accettato nella sua arbitrarietà e può essere assimilato solo con un lungo esercizio che è una vera e propria «disciplina» nel senso che i monaci davano al termine. L'interpretazione non ha per scopo l'accertamento di contenuti culturali, né deve avvenire sulla base della traccia dei contenuti stessi: anche quando ciò avviene, deve poi sempre essere giustificata solo alla stregua delle norme linguistiche. Tutti sanno che quando agli esami viene proposto un «brano» per la traduzione, non viene indicato neppure il nome dell'autore, che potrebbe essere già un suggerimento per orientare verso il significato e che inficerebbe la vera prova consistente nell'interpretazione sulla base di ciò che soltanto la parola, la costruzione della frase, il rapporto fra i singoli periodi possono suggerire.

Un esercizio di questo tipo ha una notevole importanza pedagogica non perché richieda particolari doti di creatività intellettuale, né perché metta a contatto con una sapienza arcana. ma perché abitua ad una lettura scrupolosa, fatta alla stregua di canoni prestabiliti, senza lasciarsi fuorviare dalle intuizioni estrose, dai giuochi ingegnosi dell'intelligenza o dalle suggestioni dei contenuti. Chi è abituato a «leggere» in questo modo, è poi in grado di affrontare qualsiasi studio con rigore e con coerenza ai principi volta per volta propostigli e sarà sempre un fedele e scrupoloso interprete delle dottrine dei maestri.

A mano a mano che nelle diverse scuole ci si allontana dal modello liceale si rivela il vuoto di quest'abitudine al rigore dell'interpretazione e la propensione all'approssimazione, al discorso improvvisato e sprovvisto di documentazione e di motivazione, alla cedevolezza alle mode ed alle idee dell'ultimo momento. Costante riferimento al testo, 'ai precedenti culturali già acquisiti, alla documentazione; osservanza scrupolosa del codice delle norme interpretative; rigore nell'interpretazione della dottrina; abitudine ad accettare qualsiasi contenuto e quindi disponibilità per qualsiasi studio: son forse queste — piuttosto che l'atletica dell'intelletto o le verità dell'humanitas antica — le virtù della pedagogia 'liceale che ne hanno garantito la lunga vitalità. Un'esperienza scolastica secolare ha escogitato come strumenti efficaci per l'esercizio di queste virtù lo studio delle lingue morte e il riferimento a contenuti culturali indiscutibili perché universalmente accettati; se la lingua è vivente è ben difficile cristallizzarla in un codice che faccia da norma definitiva; se i contenuti sono «attuali», non «classici», sono anche discutibili, autorizzano un impegno critico, legittimano il giudizio individuale, ostacolano l'unitarietà della dottrina, apron la via ad ogni improvvisazione.

A tutta prima una conclusione di questo genere sembra suffragare le opinioni di coloro che nell'attuale crisi della scuola vedono nient'altro che un momentaneo oscuramento di un'istituzione anca ra ben valida, l'effetto di una rilassatezza dei costumi, di un'intolleranza,dei giovani per lo studio severo e faticoso, di una propensione generale alle vie comode e meno impegnative, di una permissività demagogica del corpo docente. La scuola liceale sarebbe una specie di noviziato monastico: e soltanto pochi dotati di superiori qualità morali ed animati da fede profonda sono disposti a sottoporsi ai flagelli ed alle discipline ascetiche. Il liceo sarebbe dunque una scuola per élites e pertanto sarebbe soffocato dalla massa che lo ha invaso.

Ma opinioni di questo genere sono piuttosto, nella migliore delle ipotesi, la manifestazione di un attaccamento affettivo ad una veneranda istituzione, che non il frutto di un'analisi delle reali condizioni della scuola attuale. Prima di concludere con certe diagnosi moralistiche ci sarebbe, da vedere se, e fino a qual punto, la scuola di stampo liceale è compatibile con le necessità della società dei nostri tempi. Il liceo è stato concepito come scuola non conclusa in sé, ma preparatoria per studi successivi, che sarebbero gli unici garanti della sua validità; è stato la traduzione in strutture scolastiche di quel principio retorico che «la scuola è preparazione alla vita», che la pedagogia moderna ha da tempo rifiutato e che oggi permane solo nei discorsi celebrativi meno responsabili. Ai tempi nostri si è invece sempre più convinti che la scuola sia un momento costitutivo della vita; non una sorta di incubatrice dove si allevano, per poi liberarli nel mondo, esseri non ancora completamente formati, ma vita essa stessa. Nel modello tradizionale ogni grado scolastico dall'asilo d'infanzia al liceo è concepito come «preparatorio» per il grado successivo; e in questo modo si è eluso il problema della finalità educativa intrinseca ad ogni grado stesso. La società dei nostri tempi si propone al contrario il modello dell'«educazione permanente» che è proprio il capovolgimento di questo schema: ogni momento della vita è contemporaneamente partecipazione, al proprio livello, alla vita e crescita culturale. In un modello di questo genere la struttura liceale, tutta finalizzata come è ai successivi studi universitari, entra inevitabilmente in crisi.

Si deve inoltre tener presente che una scuola propedeutica di lunga durata, che presuppone attitudini che possono essere poi veramente comprovate nei gradi successivi, aveva veramente senso soltanto in una società in cui si dava consapevolmente valore al privilegio della nascita e del censo. Per tanti versi risulta un'organizzazione braminica che esalta grandi virtù, ma si basa su una scelta occasionale e fortuita. In una società tendenzialmente egalitaria, la scappatoia della selezione obiettiva sulla base delle capacità e dei meriti individuati mediante gli accertamenti tecnici delle prove successive d'esame, si rivela sempre più una grossolana mistificazione alla quale restan pochi a credere. Non c'è tecnica docimologica, per raffinata che sia, che possa eliminare il sospetto che le qualità accertate con la prova d'esame non siano poi quelle richieste per gli studi successivi o, peggio ancora, che la resistenza a coltivare tali qualità non sia in definitiva addirittura un segno di esuberante capacità critica e di vivaci interessi che l'ordinamento scolastico avrebbe preteso mortificare. Tutti hanno esperienza di pessimi scolari che arrivano al termine del ciclo liceale a forza di rinvii, ripetenze, colpi di fortuna e aiuti indulgenti e poi riescono nei successivi studi e nella loro professione come tutti gli altri, quando non addirittura in modo più brillante. Da ciò la convinzione diffusa, a torto o a ragione, che il ciclo degli studi medi, in quanto ciclo propedeutico, sia una specie di minuetto accademico da eseguire per acquistare «il pezzo di carta» che dà adito agli studi ulteriori. Una volta nato il sospetto che le prove d'esame possono avere un valore obiettivo soltanto quando cercano di controllare concrete capacità operative e sono invece pressoché impotenti nel misurare il grado di formazione intellettuale e morale, le vie d'uscita sembrano essere due: o la scuola media continua ad essere un'accademia palestra di «formazione» e le prove d'esame, come sta accadendo da un pezzo, si svuotano di ogni rigore, oppure si dà alla scuola in ogni suo ordine e grado la completezza che deriva dalla compresenza del momento formativo e dell'acquisto di reali capacità operative. Ma nell'un caso come nell'altro la scuola di stampo liceale cessa in gran parte di esistere.

Tutti questi possono sembrare motivi di crisi estrinseci ed occasionali; ma le deficienze della scuola liceale appaiono anche dall'esame,dei suoi aspetti costitutivi. Tutta la storia della scuola media mostra un costante accentuarsi della frattura tra momento formativo e momento informativo, un perenne aggravarsi della diffidenza per l'attualità e un ancorarsi a contenuti canonici indubbiamente validissimi, ma probabilmente ricercati sol perché «al di sopra di ogni sospetto». Se quest'atteggiamento ha una sua qualche giustificazione all'interno della «pedagogia del testo», quando diviene predominante ed esclusivo finisce col togliere ogni credibilità a quella stessa pedagogia. La senescenza del sistema liceale appare nel modo,più manifesto proprio in questo suo continuo disimpegno dalla realtà attuale, reso ancora più evidente ai nostri tempi dalla necessità di un continuo aggiornamento della cultura e dallo smarrimento e dalle incertezze della nostra età che reclamano più che dottrine paradigmatiche sviluppo di capacità critiche e decisionali autonome.

Ancora una volta, per intendere il progressivo declinare dell'istituzione scolastica, è istruttivo il caso dell'insegnamento del latino. Non si dovrebbe mai dimenticare che alle origini il latino nella scuola era concepito non come lingua per un puro esercizio interpretativo, ma come apprendimento della lingua viva della cultura universale del tempo, la lingua degli scienziati, dei teologi, dei giuristi e dei filosofi di ogni paese. Un apprendimento non solo rivolto al passato, ma dotato anche di un potente grado di attualità. Quando poi il latino ha perduto questa sua funzione di strumento di comunicazione se ne è potuto mantenere in vita l'insegnamento solo facendo leva sul grande patrimonio di cultura tradizionale che permetteva di accostare. Ma oggi sulle virtù educative che tale patrimonio, finalizzato a se stesso, possederebbe, è lecito avanzare più di un dubbio legittimo. Non è più possibile, ad esempio, credere ancora, come in un non lontano passato, di poter fondare l'educazione civica dei giovani sugli esempi illustri dei tempi antichi o sulle vite dei grandi celebrate dalla storia patria. Tra la fine dell'Ottocento ed il primo Novecento in Germania la molto seria educazione liceale di stampo humboldtiano non è valsa minimamente ad orientare la gioventù tedesca contro le ambizioni imperialistiche del Keiser o contro il regime totalitario e la follia razzista del Führer; e per carità di patria è meglio sorvolare sull'appoggio dato dalla borghesia di estrazione liceale, proprio in nome degli ideali della civiltà romana, al fascismo nascente e sugli alibi che tutto l'armamentario della cultura classica del nostro mondo accademico ha fornito al regime mussoliniano.

Certo, nessuno può ignorare l'efficacia del patrimonio della cultura tradizionale quale antidoto contro lo «smog culturale» dei tempi nostri. Chi è capace di rievocare la voce dei grandi poeti e pensatori del passato è in gran parte immunizzato contro il piatto utilitarismo, l'irrazionalismo sempre risorgente e la violenza della civiltà odierna. Il programma di esorcizzare un nuovo medioevo incombente con un preventivo programma umanistico-rinascimentale, può essere allettante. Ma non accorgersi che la nostra scuola è non umanistica, bensì tardo-alessandrina, se non addirittura bizantina, è un grave errore di valutazione.

Proprio chi è convinto che non si può seriamente orientarsi nel mondo d'oggi senza una conoscenza delle sue radici storiche e delle forme culturali della nostra tradizione non può continuare ad accettare una struttura scolastica che ignora il mondo attuale, quel mondo solo in funzione del quale si giustifica l'impegno di una ricerca del passato. Oltretutto ci sono delle situazioni obiettive che non si possono ignorare impunemente. Oggi l'attualità entra prepotentemente nella mente dei giovani, ben più di quello che non accadesse anche solo trent'anni or sono, attraverso canali enormemente suggestivi che si sono moltiplicati in breve volger di tempo e che soddisfano pienamente le esigenze della fantasia e dell'informazione. Presentare a questi giovani il patrimonio della cultura tradizionale non nel momento in cui si usa come valido e indispensabile strumento per l'interpretazione dei nostri tempi, ma come il fine ultimo della cultura, significa squalificare ai loro occhi tale patrimonio stesso e legittimare il sospetto che al fondo di una retorica difesa della cultura ci sia un timore politico per una cultura autentica e la volontà di mascherare un progetto oscurantista col paludamento dei valori della classicità. La storia della cultura moderna ci mostra ad ogni passo che i valori dell'humanitas antica hanno operato fecondamente non quando sono stati confinati in un museo, dove rifugiarsi per sottrarsi dagli impegni quotidiani, ma quando sono stati recuperati come mezzi per tentare di capire il presente, affiancandoli a tutti gli altri strumenti di cui possiamo disporre.

Proprio per il suo tentativo di preservare il patrimonio della tradizione dalla contaminazione del presente, la scuola liceale finisce con lo svilire tale patrimonio e riesce a salvarsi solo in quanto conserva il valore di un'educazione al rigore dell'interpretazione linguistica: ma è troppo poco perché possa continuare ancora a far da modello a tutta la scuola.

Del resto, se è vero che la capacità di lettura rigorosa, ingenerata dalla pedagogia del testo, è di estrema importanza educativa, è anche vero che quando ricopre tutto l'arco dell'educazione comporta dei rischi non indifferenti. L'abitudine all'interpretazione scrupolosa e puntuale si accompagna, come abbiamo visto, a reverente indifferenza per il testo e si risolve spesso in atteggiamenti di passività, di accettazione di ogni contenuto, che possono essere civilmente preziosi in una società bisognosa di sudditi buoni chiosatori del verbo di un'autorità illuminata, ma son meno apprezzabili in una società tendenzialmente democratica, quale dovrebbe essere la nostra. Chi è abituato a «'leggere e spiegare» e a ricevere, senza sua scelta, i contenuti culturali, inevitabilmente è portato al conformismo. Il giudice che ritiene che per far giustizia è suo dovere ignorare l'opinione pubblica, sicché evita persino la lettura dei giornali, o il cattedratico che reagisce alla contestazione studentesca dando il suo appoggio a chi promette di ristabilirgli l'ordine coi manganelli, sono spesso i migliori frutti dell'educazione liceale.

Per di più, se è eccellente per abituare ad affrontare il documento, la pedagogia del testo non offre poi alcun strumento critico per orientarsi nei confronti dei nuovi mezzi tecnici d'informazione e di formazione dell'opinione pubblica. Nuovi mezzi di comunicazione richiedono nuovi strumenti di ricezione e di controllo critico; ed è compito della scuola proporli, collaudarli, applicarli. Ma la scuola di oggi si è rifiutata persino di accettare la modestissima innovazione di chi auspicava l'introduzione della stampa quotidiana nelle classi. Quando si tratta dei testi sacri della tradizione, già ordinati e selezionati dal lungo vaglio dei secoli, il nostro compito principale è accettarli e poi interpretarli, chiarirli, amplificarli nella nostra coscienza; ma quando si tratta del fatto culturale dei nostri giorni o dell'avvenimento che un'informazione prepotente ci costringe a non ignorare nel suo svolgimento, il compito di ordinamento, di selezione e di valutazione è nostro, non possiamo delegarlo a nessuno. Il valore della cultura in questo caso si manifesta non nella capacità di amplificare enfaticamente e rendere più accettabile il dato dell'informazione, ma nello scegliere l'informazione stessa, nel decifrarne le intenzioni meno palesi. La pedagogia del testo non solo non educa questa capacità ma addirittura, abituando all'accettazione del dato culturale, la mortifica. Ognuno conosce uomini di profonda preparazione e cultura scolastiche che sono abilissimi nel mettere in luce i significati profondi di un'opera qualsiasi e sono poi del tutto incapaci di orientarsi negli avvenimenti del giorno, appaiono indifesi e disarmati di fronte alle manovre dell'informazione più grossolana e risultano sempre disposti a ripetere con convinzione il verbo dell'autorità dell'ultimo momento.

Forse più di ogni discorso critico è l'immagine di questi uomini che può illustrare efficacemente il valore e al tempo stesso l'intrinseca debolezza e insufficienza della scuola liceale.