IL CRISTALLO, 1973 XV 2 [stampa]

IN UNA STAGIONE CONTRADDITTORIA SI IMPONE L'AMLETO DELLO STABILE DI BOLZANO

di PIERO AGOSTINI

Una stagione teatrale un po' contraddittoria, quella che si è conclusa alle soglie dell'estate. Una stagione con alcune cose molto belle (l'Amleto di Maurizio Scaparro, il Candido di Roberto Guicciardini e — qualche tono più sotto — la discussa Locandiera della Guarneri, La pazza di Chaillot dello Stabile dell'Aquila, la Passione 1514 di fattura locale) messe accanto a delle proposte, tutto sommato, abbastanza ignobili. Cito fra tutte — perché è il caso di essere subito espliciti — quelle che direttamente o indirettamente sono venute da quello strano e decadente personaggio del teatro italiano che l'attore-autore-regista-tivòmane (leggi: persona affetta da morbo televisivo) che è il leggiadro, contorto, velleitario e sempiterno Giorgio Albertazzi. Fra un estremo e l'altro, cioè fra le cose belle e le brutte, qualche soprammobile. Alcuni di classe. Altri da rigattiere o, al massimo, da «boutique».

Inutile stracciarsi le vesti. Il convento butta quel che può buttare. Il teatro a gestione pubblica propone modelli d'alta scuola che arriveranno in decentramento fra tre anni (se arriveranno!), e propone altresì gli scampoli di sempre. Le «autogestite» hanno imparato il trucco e, dietro l'impegno serio riaffiorano le vecchie ditte commerciali col loro repertorio di consumo e i loro attori a mezzo servizio con Carosello e gli sceneggiati televisivi. La sperimentazione è bella, vivace e vitale (quando, naturalmente,... lo è) ma agisce lungo i suoi circuiti obbligati (come, in parte, è giusto che sia) e non è affatto un'alternativa di teatro popolare rappresentando essa nella maggior parte dei casi l'evoluzione specialistica e intellettualistica, bella e stimolante fin che si vuole, del teatro stesso.

Quindi, inutile piangere. Il convento butta il Don Giovanni involontario e si tiene Re Lear. Maschera da «autogestita» la ditta commerciale che fa Papessa Giovanna con lo «strip tease» della protagonista, e propone un Galileo stroncatissimo nelle grandi piazze perché bottino di rapina nei confronti di un certo Strehler che ha più critici attorno a lui, a fargli da guar dia del corpo, che corazzieri il capo dello Stato. Espone Pilato sempre come novità italiana e poi magari fa lo schizzinoso di fronte a un nobilissimo Amleto senza «grandi» attori, salvo ripensarci immediatamente e assicurarselo per l'anno prossimo non appena la critica, concorde, afferma che si tratta di una delle più grosse sorprese degli ultimi anni e che, se sono almeno mille le interpretazioni diverse che si possono dare del grande dramma, questa, l'interpretazione numero 1.001, è sicuramente fra quelle di maggiore peso.

Francamente io sono convinto che la stagione che si è appena conclusa sia stata, per buonaparte, la stagione di Amleto. E così sono convinto che basta un Amleto come questo per caratterizzare un'annata.

Pensiamoci bene: negli ultimi anni il Teatro Stabile di Bolzano ha caratterizzato con almeno uno spettacolo importante, uno spettacolo determinante, tutte le sue stagioni. Possiamo partire dall'anno di Chicchignola (il Petrolini storicizzato, che sfida con l'intelligenza il vuoto morale e intellettuale del suo tempo) e proseguire poi con l'anno di Bellow (l'Ultima analisi, che è poi l'ultima, definitiva, irrecuperabile analisi d'un fenomeno anch'esso storicizzato come la crisi dell'autore tradizionale che è anche la crisi dell'intellettuale tradizionale). Poi l'anno di Lena (lo smascheramento di un conflitto di classe eseguito a spese dell'antico spettacolo di corte), che poi è anche l'anno di Giorni di lotta con Di Vittorio nel quale si sintetizza un forte e vigoroso impegno civile di tutta la compagnia e dello stesso ente che la esprime.

Anche Amleto, a ben pensarci, è frutto di un impegno collettivo, o quanto meno di un livellamento, voluto e ricercato, dei dislivelli per così dire melodrammatici che sono una delle caratteristiche del capolavoro. In altre parole: Amleto è sempre stato il terreno di esercitazione dei grandi «tenori» del teatro di prosa; oggi, nell'edizione del Teatro Stabile di Bolzano, non lo è più.

Certo: non sono questi, se vogliamo, gli aspetti più significativi di questa edizione, anche se probabilmente sono i più appariscenti. Pino Micol che recita l'«Essere o non essere» conversando con la platea dal proscenio senza una pausa men che conveniente, senza un sospiro men che brevissimo, senza un'emissione men che legittima, senza un sovracuto, un suono di flauto, un falso sopore, una querula disperazione è, evidentemente, la cosa che più balza nell'occhio durante la recita. La determinazione, il rancore, la perentorietà di quell'altro grande sfogo oratorio («ah, se questa dura, troppo dura carne...») producono effetti altrettanto inediti. E così l'assenza dello spettro, il funerale di Ofelia senza il corpo di Ofelia inghirlandato di fiori falsi, il gran macabro dell'uccisione di Polonio e della successiva irrisione sul suo cadavere da parte di Amleto, come un intellettuale-teddy boy meglio non saprebbe fare.

Ma non è tutto, evidentemente. Una grossa invenzione è stata quella di ricacciare nel corpo di Amleto i fermenti di rivolta che la tradizione vuole provenienti dall'esterno, e successivamente riportarli allo scoperto per bocca dello stesso protagonista. A che serve uno spettro che mette a nudo il gran marcio del regno di Danimarca? Perché, questa presa di coscienza, non interiorizzarla in Amleto? Perché non farne la conseguenza della sua stessa evoluzione, della sua stessa emancipazione umana, sociale, politica? Ecco, quindi, deflagrare all'interno del dramma una motivazione diversa del dramma stesso. L'angoscia di Amleto vale l'angoscia dovuta «alla mancanza di uno stato giusto» (Maurizio Scaparro). Vale, ancora, la maturazione di una vendetta «politica», non individuale, ma — al limite — di classe. I significati attribuiti da Scaparro all'apparizione dei guitti, che rappresentano un'irruzione «popolare» nella tragedia aristocratica della corte di Danimarca che essi contribuiscono a far esplodere, sono infatti significati scoperti, trasparenti, conclamati.

Anche la «macchina» teatrale che muove lo spettacolo è congeniale a questa impronta registica. Le grandi lamiere mobili, di metallo rugginoso, entro le quali lo scenografo Roberto Francia ha racchiuso l'azione, sembrano dapprima dare all'ingiustizia di Stato una protezione da fortilizio. Si aprono poi, con grande effetto liberatorio, sullo sterminio riparatore. Costumi, poi, di una evidenza esemplare. E infine, su tutto, il grande pregio d'aver dato ad Amleto un interprete coetaneo: coetaneo per requisito anagrafico, per tensione intellettuale, per febbrile (ma sempre lucida) carica di ribellione. Pino Micol, ricordiamolo per un futuro sicuramente importante.

Il discorso naturalmente potrebbe essere molto più lungo e convincente, mentre a mio avviso si fa un tantino più incerto e perplesso di fronte all'altro spettacolo prodotto quest'anno dal Teatro Stabile di Bolzano: Passione 1514 di Maricla Boggio e Franco Cuomo, regia di Franco Molé.

Passione 1514 lo giudico una bella e suggestiva esercitazione filologica su un canovaccio di rappresentazione sacra, rivisitato — come si suoi dire — da due autori del nostro tempo. Critici sventati e furoreggianti vi hanno intravisto improponibili oltraggi a quel grande e misterioso patrimonio di spiritualità che per la Cristianità è rappresentato dalla Passione di Cristo. Io ci ho visto il contrario. Ci ho visto, cioè, l'esaltazione di una spiritualità autentica alla quale ha giovato la rappresentazione di una passione parallela e contemporanea a quella del Cristo: la passione dei perseguitati, degli incompresi, degli emarginati, sotto la spinta della stessa morale filistea che ha ucciso, per tre giorni almeno, il rivoluzionario messaggio cristiano.

Semmai discuto lo spettacolo su un altro piano, ossia su una impostazione registica (pur nobilissima in fatto di mestiere e di invenzioni) che, probabilmente per non essere acritica, è divenuta ipercritica fino ed oltre il limite della verità letteraria. Non c'è dubbio, infatti, che se ogni modello di sacra rappresentazione (e qui ne abbiamo almeno tre in scena) può essere oggi rivisitato con occhio disincantato e, quindi, può dar luogo perfino ad amabili sottolineature d'ironia, è altrettanto vero che le sacre rappresentazioni (vuoi come fatto teatrale, vuoi come fatto religioso, vuoi addirittura come fatto di superstizione) rappresentarono un grosso momento di espressività popolare che avrebbe meritato una più attenta e scrupolosa e interessata analisi.

Mi sono soffermato, come era giusto, sulla produzione del Teatro Stabile. Del resto parlo in estrema sintesi. Delle cose che più mi sono piaciute ho già detto qualcosa. Se, guardando indietro, è apparso tutt'altro che inutile l'aver riproposto da parte del teatro stabile dell'Aquila il Giraudoux de La pazza di Chaillot (con quella grande, importante, interpretazione di Piera Degli Esposti, apparentemente di vecchia maniera, in realtà vitalissima e geniale), mi sembra giusto indicare altri due spettacoli della stagione: La locandiera di Goldoni con Anna Maria Guarneri e Viaggio controverso di Candido ed altri attraverso gli arcipelaghi della ragione, di Roberto Guicciardini e del Collettivo La Rocca.

La locandiera non a tutti è piaciuta e, in effetti, il dubbio se era davvero proponibile rimane. Tuttavia mi pare di dover difendere un tentativo sia pure imperfetto, sia pure non nuovo, di togliere definitivamente a Goldoni quell'abbastanza inutile impronta di allegra sagra vernacola — senza toni e senza contenuti — alla quale ci ha abituato, con grande iattura, la superficialissima tradizione veneta dei Baseggio e dei suoi imitatori. Di questa Locandiera mi è rimasta impressa la struggente malinconia del finale, racchiusa in un matrimonio che è il crollo di tutto: soprattutto il crollo di Mirandolina come emblema di un femminismo senz'altro futile ma vivace, pieno di fantasia, creativo di nuove e orgogliose istanze. Lo squallore, la sconfinata tristezza di quel matrimonio «fra pari» — anticamera di una lunga e angosciosa prigione intellettuale — è, credo, fra le cose più belle di uno spettacolo per il resto non ineccepibile.

Mentre ineccepibile (ma forse fin troppo!) m'è parso il Candido di Guicciardini, il cui unico pericolo è quello — oggi abbastanza avvertibile — di diventare prigioniero di un gioco stilistico che egli stesso ha inventato anni fa con l'impareggiabile Clizia. Clizia — lo ricordiamo — era (col famoso Arlecchino di Strehler) lo spettacolo che forse meglio sintetizzava una ricerca fuori del comune sull'arte di fare teatro. Candido ne rappresenta la continuità ma anche, ammettiamolo, la ripetizione accademica: una sintesi, questa volta, di genio creativo e di estetismo un tantino proibito e anche, per chi segue Guicciardini, risaputo.

A questo punto sorvolo volentieri sul resto, se non su L'ispettore generale che il Teatro Insieme ha presentato sotto forma di ridda drammatica, animata da un meccanismo registico serrato e da un progressivo crescendo di efficace grottesco. S'è visto il Galileo... televisivo di Tino Buazzelli. (Lo Stabile di Torino che l'ha prodotto non se ne onora di certo, tanta è l'approssimazione stilistica di questo spettacolo e tanto profondo è il divario che lo separa dal precedente di Strehler). S'è vista una Papessa Giovanna tanto velleitaria quanto poco persuasiva. E s'è visto il peggio: Pilato Sempre (qualunquistico polpettone scritto e interpretato da Giorgio Albertazzi) e Don Giovanni involontario (diretto dallo stesso Albertazzi con un intero carosello d'interpreti formato Canzonissima).

Quest'ultimo lavoro può essere dimostrativo di come l'intento commerciale, l'insipienza del regista, il cattivo impegno degli interpreti possano rovinare anche un bel testo. Un disastro.