IL CRISTALLO, 1974 XVI 1 [stampa]

INTERESSAMENTO DI GOETHE PER MANZONI

di HORST RÜDIGER

I primi due volumi del Viaggio in Italia di Goethe uscirono nel 1816 e 1817, trent'anni dopo il suo primo soggiorno in questo paese. Il terzo volume segui soltanto nel 1829, quasi alla vigilia della sua morte, avvenuta tre anni più tardi. Lo scrittore aveva avuto bisogno per la redazione dell'opera di sentirsi lontano dal soggetto, sia nel tempo che nei sentimenti, per non lasciarsi ancora una volta vincere dalla nostalgia per il sud che lo aveva colpito, come una grave infermità, prima che posasse il piede sul suolo di Roma. Siffatta distanza si nota già negli Epigrammi, da lui composti nel 1790 durante la seconda permanenza a Venezia, e si fa in seguito più profonda, anche se il ricordo della vita lieta e piacevole ivi trascorsa, gli suggerì la malinconica confessione di non aver più vissuto un giorno veramente felice dal momento della partenza da Roma.

Tuttavia l'Italia gli è rimasta spiritualmente sempre presente. Se è vero che nell'età senile non lo interessarono più, come un tempo, né la gente né la natura né l'arte di questa terra, è altrettanto esatto che essa entrò a far parte per lui, accanto alla Francia, all'Inghilterra ed alla Germania, come provincia importante di quel regno ideale, al quale diede la denominazione di 'Letteratura universale' nel 1827, ma di cui l'idea gli era germogliata nel cuore per lo meno da quando si era occupato della poesia persiana. A partire dal 1816 pubblicò, ad intervalli irregolari, la rassegna culturale «Über Kunst und Altertum», curata in gran parte da lui solo, che gli servi, tra l'altro, a diffondere il concetto della 'letteratura universale' o, meglio, di quella che si stava profilando come letteratura europea. Nei sei volumi comparsi, gli autori italiani, e tra essi soprattutto Manzoni, occupano una posizione di rilievo. In certo senso questa idea di Goethe costituisce il suo contributo teorico al Romanticismo europeo come lo avevano inteso i fratelli Schlegel e Madame de Staël. D'altra parte però, essa trae alimento dalle tendenze cosmopolitiche dell'Illuminismo e sviluppa pensieri del Vico, del Voltaire e dello Herder. Mentre prima il suo interesse si dedicava prevalentemente ai grandi nomi del passato letterario, sono adesso gli scrittori contemporanei stranieri quelli che più lo attirano. Oltre a ciò la sua attenzione viene richiamata da alcune riviste critiche: fra le altre «Le Globe» di Parigi, l'«Edinburgh Review», «L'Eco» e «Il Conciliatore», ambedue di Milano. Il 31 maggio del 1828, così scrisse al direttore de «L'Eco»1:

I primi quarantasette fascicoli della Sua rivista... mi hanno assai gradevolmente sorpreso, e sono certo che la pubblicazione — sia mediante gli articoli che contiene, che anche grazie alla piacevole forma con cui Lei la presenta — non rimarrà senza influsso positivo su quella letteratura universale, che si va sempre più vivamente affermando. Da parte mia Le assicuro il più sincero interesse.

Occorre anzitutto precisare che, quando parla di 'letteratura universale', Goethe non si riferisce ad una sorta di canone dei classici di ogni popolo e di tutti i tempi, ma pensa piuttosto ad un futuro stato sociale che si stava delineando nella sua epoca, favorito, non per ultimo, dalla «sempre crescente rapidità del traffico»2. La meta che si prefigge è che «i letterati effettivamente vivi ed operosi si conoscano a vicenda e tramite inclinazione ed affinità di interessi intellettuali, si sentano spinti ad esercitare una funzione sociale»3. Questo scopo, inoltre, ne comprende un altro più elevato4: le diverse nazioni «devono rendersi conto le une delle altre, comprendersi e imparare, se non proprio ad amarsi, a rispettarsi reciprocamente». Ad una siffatta fratellanza dell'intelligenza europea e delle nazioni del nostro continente, Goethe voleva contribuire con la sua rivista, cosí come lo desideravano i direttori dei periodici stranieri con le loro. In questa attività si valse di intermediari ed informatori stranieri, nella medesima maniera in cui egli stesso rese note al suo pubblico novità artistico-letterarie di rilievo e ne riferì criticamente.

Da questo punto di vista della «letteratura universale in marcia» — così Goethe si esprime una volta valendosi di una locuzione militare5 — è da interpretare, innanzi tutto, il suo Interessamento per Manzoni: come benevolenza paterno-fraterna nei confronti di un autore che egli poneva insieme a Byron tra le stelle più luminose del firmamento letterario del nuovo secolo, come promozione di un ingegno che non solo dava a sperare bene, similmente a molti altri giovani, in un tempo in cui «le doti poetiche non sembravano più troppo rare»6, ma che gli si presentò subito, piuttosto, come personalità artistica matura e gli strappò espressioni come «un poeta nato»7 dotato di «vero talento lirico»8, «il nostro amico»9, ed anche — con una sfumatura quasi affettuosa — «il nostro beniamino»10. Il Conte di Carmagnola, scrive11, desta «un'impressione effettivamente di storia universale». Per quanto concerne I promessi sposi, egli afferma che hanno «fatto in realtà epoca» in lui12, che superano «tutto ciò che noi conosciamo in quel genere», che non è possibile spingere l'arte a vette più alte»13, che nessuno sarebbe in grado di «imitare» il romanzo14 e che, in una parola, l'autore può essere definito «classico»15. Da vecchio Goethe non ha parlato con tanto calore e tanta cordialità di nessun altro contemporaneo; neppure del Byron, al quale nelle regioni mefistofelico-satiriche si sentiva certo più affine che non al credente Manzoni, il cui cristianesimo, a lui che aveva voce di essere 'pagano', non dava affatto ombra. Parlandone al filosofo francese Victor Cousin, egli definì Manzoni «un catholique naïf et vertueux»16, un cattolico, insomma, per il quale aveva la massima comprensione da quando si occupava della storia di Filippo Neri, il «santo umorista». Per questo perfino l'autore degli Inni sacri gli appariva «cristiano senza fanatismo, cattolico senza essere bigotto, zelante senza asprezze»17. Movendo dalla medesima convinzione sosteneva, in altra occasione18, che l'autore dei Promessi sposi «ha sentimento, ma è senza sentimentalità».

In questo modo antiteticamente formulato di esprimere i suoi giudizi, sono soprattutto le parole precedute da 'senza' che ci fanno comprendere meglio l'intimo interessamento di Goethe per Manzoni. Fanatismo, bacchettoneria, durezza d'animo e sentimentalità fanno parte dei concetti che tratteggiano il disagio di Goethe rispetto ai fenomeni di esaltazione del suo tempo. Ad esse si contrappongono i valori positivi, che egli vede realizzati nella personalità e nell'opera di Manzoni. Loda la spontanea semplicità negli Inni sacri e li considera «originali, nuovi e sorprendenti». In essi tutto gli sembra «avvenente, robusto e leggiadro»19. Nell'Adelchi — a suo parere — «nessun verso è... vuoto, nessun tratto indeterminato, nessun passo casuale o motivato da una qualche necessità secondaria»20. Sia nei cori drammatici che nei Promessi sposi, elogia una «lucidità», una comprensibilità ed una «chiarezza», che gli richiamano alla memoria il «cielo italiano stesso»21. Sono, questi, tutti giudizi prevalentemente estetici, che possono venir portati al comune denominatore dell'esigenza artistica, dell'armonioso e del plasticamente ben definito. Sono caratteristiche che Goethe, sulle orme di Winckelmann, ammira nell'arte antica ed in Raffaello e che egli stesso aveva tradotto in realtà nel frammento della sua Nausicaa o nelle Elegie romane. Ora le vedeva, con sua sorpresa, fiorire magnificamente in uno dei giovani scrittori dell'Italia dei suoi giorni. Si tratta dell'elemento classico non inteso come qualità ottimale, ma come espressione di determinati contrassegni stilistici storicamente condizionati, che si contrapponevano alle esaltazioni dello stile pseudoprimitivo o barocco o romantico. In Manzoni Goethe senti effettivamente un'espressione artistica che lo attirava profondamente, tanto più che essa si differenziava nella maniera più chiara possibile dalla «caparbietà» classicistica e dalla «pedanteria» dei tradizionalisti tardo-arcadici22. Egli si era subito reso conto che con Manzoni nasceva nella letteratura italiana un qualcosa di nuovo, che meritava l'attenzione dell'Europa.

I giudizi estetici non erano però, a parere di Goethe vecchio, sufficienti a dare un quadro esauriente. Già nel Carmagnola lo aveva colpito il fatto23 che la tragedia era stata scritta da un «poeta sincero, capace di pensieri chiari, di intensa profondità, di umanità e di gentilezza d'animo», e constatava in Manzoni «un bel talento... e una concezione naturalmente libera e senza angolosità del mondo morale»24. La lettura dell'Adelchi, più tardi, conferma questa sua opinione. E parla di nuovo di «un ingegno bello e veramente poetico», che si basa su «sensibilità puramente umana»25. La parola 'bello' caratterizza qui senza dubbio non solo le qualità estetiche, ma anche quelle etiche, e corrisponde in certo modo alla 'kalokagathia' greca. Ci si riferisce in questo caso a quell'amore per la verità che aveva spinto Manzoni a configurare la sua tragedia in modo tale «che l'elemento storico, in cui egli si muove ed agisce poeticamente, ... rappresenti una realtà ineccepibile, storicamente documentata, che non presti il fianco a contraddizioni. Deve, dunque, studiarsi di conciliare il momento estetico-morale con la realtà dei fatti»26. Con altre parole, al Manzoni riesce ciò che prima di lui era riuscito solo allo Schiller: l'armonizzazione degli avvenimenti storici con i postulati della morale e delle leggi estetiche. Goethe aveva, quindi, ogni motivo per vedere nella tragedia di Manzoni il «caso raro», in cui «principi estetici e morali, congiunti, vengono promossi in uguale misura»27. Per quanto riguarda I promessi sposi, parla di un «mondo interiore»28 in cui ugualmente si fondono i postulati etici ed estetici. Anche qui ci si riferisce all'esatta impostazione dei rapporti, sia dal punto di vista umano che da quello artistico.

Senza dubbio Goethe leggendo l'Adelchi dové ripensare alla sua Ifigenia29. Quando considerava come un gran merito di Manzoni30 l'aver «dotato persone di un'epoca semibarbarica di sentimenti così delicati, che solo la superiore educazione religiosa e morale del nostro tempo è in grado di suggerire», poteva trovare conferma di quelle che erano state le sue proprie intenzioni. La presentazione dell'idea dell'umanità sia in Ifigenia che in Adelchi spiega pure le obiezioni critiche che Goethe aveva da opporre alle tragedie del suo coetaneo Alfieri31. Tali critiche non erano dovute soltanto ai «perfetti deserti» in cui il Piemontese — a suo parere32 — in seguito alla limitazione delle dramatis personae a quelle realmente impegnate nella vicenda, rinunciando ad azioni secondarie

e complicazioni dei sentimenti, alle figure dei confidenti e così via, aveva trasformato i suoi drammi per avvicinarli alla tragedia greca: era di nuovo non soltanto un momento estetico quello che determinava tale giudizio. Lo stesso Goethe, sia nell'Ifigenia che nel Tasso, si era pure limitato a cinque persone e aveva fatto uso degli «orribili monologhi» che adesso rimproverava all'Alfieri. Tuttavia nei suoi lavori classicamente stilizzati, non si aveva nessuna «desertizzazione» della scena e nessuna perdita di intensità interiore. Quello che manca al classicismo dell'Alfieri è soprattutto quell'animazione del pensiero e del discorso che Goethe deve alla 'Empfindsamkeit' ed al Pietismo e Manzoni al suo cattolicesimo «naïf» ed al Romanticismo. È bensì vero che i santi di Manzoni ne I promessi sposi non sono «fanatici» e che «il loro cristianesimo dell'azione non conosce 'spiritualità' pietistica»33; tuttavia la «superiore educazione religiosa e morale» sia in Manzoni che in Goethe, si basa su primigenie esperienze religiose in diversa rifrazione confessionale, nazionale e sociale. Ma appunto perché sia l'uno che l'altro erano «poeti nati», riuscì ad ambedue fondere l'elemento dogmatico, insito nelle forme religiose, con quello poetico e sottoporlo ad una metamorfosi tale che non destasse ombra nel mondo confessionale, nazionale e sociale dell'altro. Se, dunque, Goethe giudica il cattolicesimo di Manzoni addirittura «utile» alla sua opera34, perché ne «derivano molte situazioni di natura poetica», ci possiamo rendere conto che cosa intenda dire quando parla di «superiore educazione religiosa e morale». Una tale educazione comprende non solo l'elemento estetico-sensuale del cattolicesimo, che affascinava i romantici tedeschi più di quanto non affascinasse Goethe, il quale nutriva una sana diffidenza nei confronti della contaminazione, allora di moda, di arte e religione; essa abbraccia pure i tratti non dogmatici, sopraconfessionali e sopranazionali, integrati nel substrato umano ed aventi a loro volta una funzione umanizzante. Essi costituiscono per Goethe, per Manzoni, e così, mi pare, pure per noi, la premessa di una futura letteratura universale. Nell'Alfieri essi erano tutt'al più ancora in germe; nel Manzoni si manifestano in tutto lo splendore della loro fioritura.

Come ogni critico letterario di rango, Goethe non si accontenta della discussione sulle unità di luogo e di tempo, che da lungo non rappresentavano più un problema per il dramma tedesco35; ma sviluppa, piuttosto, criticamente le idee del poeta italiano, in una estetica che affronta le questioni fondamentali del significato e delle possibilità della creazione poetica. «Manzoni ci suggerisce buoni pensieri,» disse allo Eckermann36 dopo avergli spiegato l'affinità e le divergenze tra Manzoni e Schiller. Ambedue sono «poeti nati», «ma i nostri tempi sono così cattivi che, nella vita umana che lo circonda, al poeta non si fa incontro nulla che possa giovargli. Per edificarsi, Schiller si appigliò a due grandi cose: alla filosofia e alla storia; Manzoni alla storia soltanto». Questi «poderosi aiuti» hanno — a suo parere — intralciato il «puro e pieno successo poetico» a Schiller, così come Manzoni «pecca per un eccesso di storia». Il giudizio si riferisce in un primo momento soltanto all'opera drammatica dei due autori, ma vale ancora di più per Manzoni romanziere37. Certo che gli torna utile essere «un eccellente storico, cosa che egli ha consentito dare così grande dignità e vigoria al suo romanzo, da fargli superare di gran lunga quello che di solito ci si immagina in un tal caso»; ma nel terzo volume de I promessi sposi Goethe trova che «lo storico ha giocato un brutto tiro al poeta», in quanto Manzoni «dimette ora l'abito del poeta, facendosi, per un lungo tratto, puro storico» e che la dettagliata «descrizione della guerra, della carestia e della peste — cose già di per sé odiose — diviene con i suoi minuti particolari un'arida descrizione da cronista», riuscendo addirittura «insopportabile». In breve: Manzoni «come storico ha avuto troppo rispetto della realtà».

Queste frasi le leggiamo nei colloqui con Eckermann. Sono giudizi confidenziali che forse Eckermann ha reso con troppa accentuazione. Ma negli scritti, usciti dapprima separatamente in «Arte e antichità» e che poi, riuniti con il titolo Interessamento di Goethe per Manzoni, costituirono la prefazione all'edizione italiana delle Opere poetiche di Manzoni, pubblicata, per iniziativa di Goethe, a Jena nel 1827, si legge già, a proposito dei drammi del Milanese, la critica, se pure formulata più discretamente, relativa alla sopraffazione del poeta da parte dello storico. Goethe ritiene38 che Manzoni «non abbia distinto sulla base dei propri sentimenti e della propria convinzione... i suoi personaggi in istorici e ideali», come avviene nel Carmagnola, e scusa l'autore facendo richiamo al suo riguardo nei confronti di un «pubblico assai tendente alla sofisticheria»: ma si tratta, probabilmente, più di una infiorettatura cortese che non del suo effettivo convincimento. Tuttavia l'amore per la verità di Manzoni si riafferma anche nella sua presa di posizione rispetto alla manifesta e gentile intenzione di Goethe di cercare la colpa di certe debolezze delle sue pagine non nel Manzoni stesso. Nell'unica lettera di questi, scritta il 23 gennaio 1821, al «Maestro», e che Goethe si affrettò a pubblicare, sia in italiano che in traduzione tedesca, in «Arte e antichità»39, non solo accetta senza riserve la critica, ma si assume anche la responsabilità dell'«errore»:

Deggio... confessarle, — scrive Manzoni — che la distinzione dei personaggi in istorici e ideali è un fallo tutto mio, e che ne fu cagione un attaccamento troppo scrupoloso all'esattezza storica, che mi portò a separare gli uomini della realtà da quelli che io aveva immaginati per rappresentare una classe, una opinione, un interesse. In un altro lavoro recentemente incominciato io aveva già ommessa questa distinzione, e mi compiaccio di aver così anticipatamente obbedito al suo avviso.

La tragedia alla quale Manzoni stava lavorando era l'Adelchi. Ne inviò nel 1822 un esemplare a Goethe con una dedica in tedesco; erano parole scritte dallo stesso Goethe nell'Egmont40: «Tu non mi sei straniero. È stato bene il tuo nome ad attirarmi nella mia prima giovinezza con il fulgore di una stella del cielo. Quante e quante volte ho ascoltato parlare di te, ho chiesto di te!» Cinque anni più tardi Goethe contraccambiò, inviando a Manzoni l'edizione di Jena delle Opere poetiche con la dedica41: «Al signor Manzoni come testimonianza della mia immutabile stima e della mia collaborazione».

Ritengo sia giunto il momento di dare una rapida occhiata ai singolari rapporti personali tra i due poeti, la cui storia esteriore è già stata narrata parecchie volte con ricchezza di particolari42. È quasi escluso, come è stato supposto43, che Goethe sentisse ricordare il nome di Manzoni da Madame de Staël, in occasione della visita di lei nel 1803/04 a Weimar, poiché il poeta lombardo non fu a Parigi prima del luglio del 1805. Manzoni, da parte sua, prima del 1820 aveva letto l'Egmont e Ermanno e Dorotea44. Non sappiamo se lo abbia fatto in traduzione francese o direttamente nel testo tedesco, cosa di cui era forse in grado. I suoi, diciamo, intermediari in proposito furono Claude Fauriel e Ermes Visconti. Non è possibile individuare con sicurezza 'influssi' di sorta di tali lavori sull'opera del Manzoni. Forse se ne potrebbero trovare nell'Ermanno e Dorotea rispetto alla prima concezione di Fermo e Lucia45. Ma mi sembrano irrilevanti in un narratore così originale come fu il Manzoni.

Goethe venne a conoscenza di Manzoni attraverso una specie di agenzia letteraria che i circoli intellettuali di Weimar avevano a Milano. Se ne occuparono, tra gli altri, oltre al granduca Carlo Augusto che nell'estate del 1817 visitò per ragioni politico-militari la città lombarda, il banchiere tedesco Heinrich Mylius e sua moglie, quivi residenti46, e soprattutto Gaetano Cattaneo, direttore del gabinetto numismatico della Braidense. Da una relazione che il Cattaneo inviò nel 1818 a Carlo Augusto47, Goethe ebbe per la prima volta notizia della disputa letteraria in corso a Milano, e due anni dopo prese, con molto tatto, posizione in proposito nel suo trattato su La veemente contesa tra classici e romantici in Italia48. Può darsi lo abbia spinto al suo atteggiamento «conciliatore» il carattere della rivista che si chiamava appunto così49. Nella relazione suaccennata il Cattaneo aveva ricordato Manzoni con appena poche parole. Nel novembre del 1818, però, egli inviò i quattro Inni sacri manzoniani fino allora pubblicati, di cui ben presto Goethe elogiò la vigoria artistica. In seguito alla impegnativa recensione del Carmagnola, Manzoni si decise a scrivere la sua lettera di ringraziamento, tanto più che aveva trovato in Goethe un prezioso aiuto contro l'incomprensione dei classicisti milanesi e sentito in lui interesse per la «formula primitiva» dei suoi concetti drammatici50.

In effetti Goethe ha validamente aiutato Manzoni, sia ad affermarsi come scrittore che a raggiungere grande fama al di là delle Alpi. Proprio questo era quello che si era proposto con il suo periodico: rendere note — grazie alla sua autorità — creazioni poetiche di rilievo fuori dei confini nazionali. E continuò su tale strada con la recensione dell'Adelchi, di cui affidò la versione in tedesco a Carlo Streckfuss, conosciuto anche per una traduzione della Divina Commedia, con l'edizione delle opere di Manzoni, con la recensione de I promessi sposi, che fece scrivere allo stesso Streckfuss, e con la loro traduzione curata dal giovane scrittore Alexander Lessmann. «Se fossi stato più giovane», disse una volta Goethe al cancelliere von Müller51, «avrei subito provveduto ad una loro traduzione sullo stile di quella della 'Vita' del Cellini». Invece del romanzo tradusse alcuni versi dei drammi e l'ode «Il cinque maggio». Si tratta della versione più aderente al testo che Goethe abbia mai fatta, nonostante alcuni errori (non è affatto sicuro, però, che si tratti veramente di errori suoi)52. In essa ha realizzato, per la prima e l'ultima volta, il principio della traduzione che cerca di identificarsi con l'originale.

Se si prendono in esame i rapporti tra i due uomini, che durarono più di un decennio e continuarono ad esercitare la loro influenza su Manzoni anche dopo la morte di Goethe, non si può fare a meno di notare il tono veramente urbano, quasi cavalleresco delle relazioni. Fu un incontro tra persone dell'alta società, di nazione e confessione diversa, improntato ad elegante cortesia — con in Goethe talora una lieve sfumatura cancelleresca —, ma sempre con la debita distanza che si addiceva sia all'uno che all'altro: al più giovane rispetto al più anziano, al patrizio milanese nei confronti del ministro di Weimar e viceversa. Le dediche dell'Adelchi e delle Opere e la lettera di Manzoni rimangono, tuttavia, gli unici contatti diretti53; ma le espressioni avute da Goethe nei riguardi di Manzoni si contraddistinguono per una cordialità ed un calore che altrimenti si riscontrano assai di rado negli anni della sua senilità. Manzoni, piuttosto riservato nelle lodi, è senza dubbio sincero quando confessa di riconoscere nella benevola critica di Goethe «la voce del Maestro»54. La deferente ammirazione è rimasta sempre il tratto caratteristico del suo atteggiamento verso Goethe. La più forte affinità tra i due poeti la si rileva nella signorile gentilezza del modo di sentire e di pensare e nella nobilità del cuore: in quell'umanità che ha contrassegnato sempre Manzoni e che si manifesta in Goethe quando non è tormentato dal satirico spirito volteriano e dalle fantasticherie mefistofeliche. Da questo punto di vista l'Ode sulla morte di Napoleone, scritta da Manzoni e tradotta da Goethe, è la migliore testimonianza dei loro comuni sentimenti davanti allo spettacolo della grandezza storica e del fallimento umano.

Ma vi è pure uno strato più profondo dei loro rapporti in cui interessi, diversità di opinioni e veri e propri malintesi si fanno evidenti. Per prima cosa occorre osservare che non è stato soltanto Goethe ad essere un alleato di Manzoni, ma che — probabilmente senza rendersene conto — Manzoni stesso è stato un alleato di Goethe nella lotta contro la stravaganza ed il dilettantismo. Spesso la lode di Goethe per Manzoni e i romantici italiani include, inespressa ma non per questo meno percettibile, la critica ai romantici tedeschi, così per esempio quando egli elogia dimostrativamente gli Inni sacri e il cattolicesimo «naïf» di Manzoni. Il disappunto di Goethe nei confronti dei romantici tedeschi non è privo di delusione ed amarezza. Consigliando la lettura dell'Adelchi scrive al fidato amico Knebel55: «... perché non è possibile rendere un favore simile ad un contemporaneo tedesco!» L'averlo reso ad uno straniero nasconde una punta contro i suoi connazionali. Ancora meno poteva Manzoni sospettare che egli fosse, dopo la morte di Schiller, in certa maniera, divenuto quasi l'unico interlocutore ideale di Goethe56. Per Goethe era certo che esisteva una affinità elettiva interiore tra il defunto e l'amico ed alleato che viveva lontano. Ma avrebbe potuto, egli, proseguire il colloquio come con lo Schiller?

Egli vedeva nella tendenza di Schiller e di Manzoni a rivolgersi alla storia, un tentativo di evasione dalla triste realtà della loro epoca, ed erano appunto i momenti idillici de I promessi sposi quelli che affascinavano anche lui maggiormente. Per Manzoni, però, la storia era qualcosa di più che non semplice 'edificazione'. La sua vera e propria essenza era, per lui, il passaggio di Dio sulla terra, e il suo significato la rivelazione della provvidenza divina. Al poeta spettava il compito esegetico del sacerdote di interpretare, sulla base della storia, l'operato di Dio. D'altra parte, il poeta aveva una seconda missione a carattere politico-nazionale, ben chiara per i lettori italiani dei suoi drammi. Nessuno poteva non rendersene conto leggendo nel coro del Carmagnola57:

D'una terra son tutti: un linguaggio
parlan tutti: fratelli li dice
lo straniero: il comune lignaggio
a ognun d'essi dal volto traspar.

Nessuno poteva non comprendere che la descrizione della battaglia fratricida nascondeva il segreto appello all'unità nazionale contro lo «straniero», parola ripetuta, con palese avversione, cinque volte. Nessun Italiano colto poteva fraintendere l'allusione alla canzone patriottica del Petrarca58 ed alla situazione politica del momento, nei versi:

Questa terra fu a tutti nudrice,
questa terra di sangue ora intrisa,
che natura dall'altre ha divisa,
e ricinta con l'alpe e col mar.

A Goethe sfuggi questa attualità. Probabilmente non volle sentirne le nascoste allusioni. Si richiamò all'inizio della prefazione di Manzoni al Carmagnola che, nella sua modesta riservatezza, costituisce un manifesto, sia pur meno spettacolare del proemio di Victor Hugo al Cromwell. Quivi Manzoni con amabile autoironia scrive59:

...ogni componimento presenta a chi voglia esaminarlo gli elementi necessari a regolarne un giudizio; e a mio avviso sono questi: quale sia l'intento dell'autore; se questo intento sia ragionevole; se l'autore l'abbia conseguito. Prescindere da un tale esame, e volere a tutta forza giudicare ogni lavoro secondo regole, delle quali è controversa appunto l"universalità e la certezza, è lo stesso che esporsi a giudicare stortamente un lavoro: il che per altro è uno de' più piccoli mali che possano accadere in questo mondo.

Goethe completa il pensiero di Manzoni aggiungendo60: «Una vera opera d'arte dovrebbe, come un sano prodotto naturale, esser giudicata di per sé stessa». Con ciò protesta contro le norme estetiche estranee all'opera, o, più esattamente, contro il voler giudicare il Carmagnola secondo le regole delle unità classicistiche. Quando, poi, mette espressamente in rilievo «di aver in corrispondenza a tali esigenze cercato di rendersi conto degli intenti prepostisi dal signor Manzoni», un tale modo di esprimersi ci permette affermare che non desiderava prestare orecchio al carattere politico-nazionale dei cori, dato che li considerava corpi estranei. E rimprovera all'altrimenti assai apprezzata rivista francese «Le Globe»61 che «i signori 'globisti' non scrivono alcuna riga che non sia politica, che non tenda, cioè, ad avere un'influenza sul giorno d'oggi. Essi formano una società buona si, ma pericolosa... Essi non possono, e non vogliono neppure, negare il loro proposito, che è quello di diffondere ovunque il liberalismo assoluto...». Ora Goethe non poteva certo accusare Manzoni di un tale disegno. Eppure anche Manzoni mirava con il suo coro ad esercitare un influsso sul suo tempo e sul destino della sua patria. Goethe si limita però a far notare62 che si tratta di «una magnifica descrizione di un combattimento» e che il coro, «verso la fine, prorompe in lamenti e tristi considerazioni sui disastri della guerra, specie di una lotta intestina all'interno di una nazione»63. Tuttavia, egli conosceva assai bene i «tormenti rivoluzionari» di cui avevano sofferto Manzoni ed i suoi amici, come si rileva da un accenno a I promessi sposi; ma li ricorda soltanto di sfuggita nel corso di un colloquio privato64.

Non molto diversamente Goethe si comporta nell'analisi di quel coro dell'Adelchi che, secondo la critica italiana65, rappresenta «un invidiabile titolo di gloria patriottica non meno che poetica» e che fu effettivamente sentito tale dai connazionali e dai contemporanei di Manzoni. Come si potrebbe altrimenti spiegare la reazione della censura austriaca?

...un volgo disperso repente si desta;
intende l'orecchio, solleva la testa
percorso da novo crescente romor.66

Anche in questo caso Goethe non prende in considerazione i riferimenti attuali. Mette in rilievo solo «l'esatta ricostruzione e rivivificazione del momento storico» e il grande «amore del dettaglio». Ammette, è vero, che «la lirica più elevata è sempre storica», e ne chiama persino a testimonianza indiscutibile gli «elementi mitologico-storici» di Pindaro67. Ma poco prima aveva scritto68 che «ogni poesia, in ultima analisi, si muove in regioni anacronistiche», e che «quello che ci è rimasto di vera poesia vive e respira soltanto in anacronismi». E aveva ricordato a Manzoni «l'inalienabile diritto del poeta di trasformare la storia in mitologia», aggiungendo in una conversazione con Eckermann69: «Manzoni ha un solo difetto: di non sapere egli stesso che grande poeta egli sia e quali diritti, come tale, gli spettino».

Ma proprio di questi diritti Manzoni non voleva e non poteva neppure valersi, come se ne era valso Goethe nei suoi drammi e come consigliava adesso all'amico di fare. Per Manzoni, infatti, la storia non era altro che rivelazione della verità, o meglio ancora rivelazione religiosa, e nessun poeta poteva arrogarsi la prerogativa di «trasformarla in mitologia». Per Goethe essa aveva una funzione del tutto diversa. Riferendosi all'Adelchi disse al Cousin70:

«Nous ne pouvons nous intéresser qu'à ce qui nous ressemble un peu, et non aux Lombards ou Longobards et à la cour de Charlemagne», ed elogiò il carattere del protagonista proprio perché era «une invention de Manzoni». Se, tuttavia, si vuole comprendere esattamente la divergenza di opinioni tra Goethe e Manzoni sull'essenza dell'evento storico, si deve ricorrere almeno ad alcune delle numerose affermazioni di Goethe in proposito: «La storia è all'inizio una fiaba sulla quale un fatto nuota come sull'acqua fino a che l'acqua scompare»71, o con riferimento ad uno scritto di Plutarco72: «...nella maggior parte dei casi la storia è costituita da ciarle», «con una infinità di stoltezze e cattiverie»73. «La storia, anche la migliore, ha sempre qualcosa di cadaverico. Vi si respira l'aria di un sepolcro»74. E, infine75: «Il fattore più positivo che ci viene dalla storia è l'entusiasmo che riesce a destare». Né Manzoni né Schiller avrebbero potuto approvare nessuna di queste affermazioni, fatta eccezione, forse, per l'ultima, e meno ancora quell'altra che rivela l'essenza del pensiero di Goethe76: «... il mio sincero, profondo, connaturale ed esperimentato modo di intendere le cose... mi ha insegnato a vedere — senza possibilità di alternative — Dio nella Natura e la Natura in Dio, tanto da formare, questa maniera di immaginare, la base di tutta la mia esistenza...». Basta contrapporgli una sola frase dell'introduzione al Carmagnola77: La poesia drammatica deve essere ispirata ad un «sistema conducente allo scopo morale, ben lungi dall'essergli contrario».

Goethe non ha conosciuto le affermazioni, assai più intransigenti, di Manzoni maturo sul tema 'poesia e verità'. Per fortuna, si può dire, perché avrebbero dovuto portare alla rottura. La critica non si può contentare, in questo complesso, delle antitesi convenzionali Romanticismo (o primo Realismo) - Classicismo, nazionalismo - cosmopolitismo, cattolicesimo - panteismo, libertà - necessità, e simili. Si tratta di chiarire il problema di fondo, e cioè quello della validità e della responsabilità dell'arte di fronte alla crudeltà della storia, del piacere estetico di fronte al comportamento morale ed alla 'verità'. Schiller aveva tentato di risolverlo mediante la sua tipologia del poeta «naïf» e «sentimentale» ed aveva cercato, con il suo aiuto, di affermarsi nei confronti di Goethe. Manzoni tentò di farlo, in un primo momento, con il romanzo storico, che gli sembrava 'più sincero' del dramma. Ma andò oltre. Già nel 1823 scrisse a Cesare Taparelli d'Azeglio la lettera programmatica, in cui motiva non soltanto esteticamente, ma anche con il suo radicale cristianesimo, la sua invincibile avversione al Classicismo. Egli ritiene l'uso della mitologia nocivo, non solo perché per lui si tratta di idolatria78, per il fatto cioè che egli, in contrapposizione al Rinascimento, al Barocco ed all'Arcadia, prende sul serio il paganesimo letterario, ma, e soprattutto, perché la morale del Classicismo è decisamente non-morale79:

La parte morale dei classici è essenzialmente falsa: false idee di vizio e di virtù, idee false, incerte, esagerate, contraddittorie, difettive dei beni e dei mali, della vita e della morte, di doveri e di speranze, di gloria e di sapienza; falsi giudizii dei fatti, falsi consigli; e ciò che non è falso in tutto, manca però di quella prima ed ultima ragione che è stata una grande sciagura il non aver conosciuta, ma dalla quale è stoltezza il prescindere scientemente e volontariamente. Ora la parte morale, come è la più importante nelle cose letterarie, così vi tiene maggior luogo, v'è più diffusa che non appaia al primo sguardo. Per la ragione sopraddetta, io non potrei mai... chiamar miei maestri quelli che si sono ingannati, che m'ingannerebbero in una. tale e in una tanta parte del loro insegnamento...

È breve il passo da questo atteggiamento all'affermazione, veramente sconcertante, di Manzoni nella lettera del 16 febbraio 1829 a Francesco Guicciardini, che gli aveva comunicato la sua nomina a Socio corrispondente della Società Filodrammatica di Firenze. Riferendosi ai suoi drammi ed ai suoi scritti teorici in proposito scrive80:

... debbo confessarle schiettamente che, da quelle pubblicazioni in poi, le mie idee sono andate oltre assai nella buona o cattiva strada in cui io era entrato; e che, se quella poté parer licenza, le mie opinioni attuali, in questo particolare, tendono affatto all'anarchia, per non dire alla distruzione dell'arte medesima. Questo io Le doveva dire a scarico di coscienza...

Con sorprendente unanimità la maggior parte della recente critica letteraria vorrebbe attribuire a Goethe — naturalmente senza che questi ne avesse l'intenzione — il fatto che Manzoni abbia rinunciato ad ulteriori creazioni poetiche81. Una tale ipotesi a me sembra errata. Essa sopravaluta l'influsso di Goethe sul pensiero di Manzoni e sottovaluta l'indipendenza e l'energia morale di questo; non attribuisce l'importanza necessaria alla sua sincerissima religiosità, che non aveva certo bisogno di un qualche impulso dall'esterno per riconoscere l'antagonismo tra 'verità' religioso-morale e 'menzogna' poetica. Tutt'al più si può affermare che Manzoni, in seguito alla critica di Goethe, aveva «acquistato chiarezza» sulle sue idee stesse, ma le radici dell'atteggiamento di un «padre Saturno che non esiterebbe a divorare le sue creature»82 sono già individuabili nella crisi religiosa del 1809. Può darsi che nella religiosità di Manzoni si abbiano tracce delle idee di Pascal e del giansenismo, forse pure dei padri della Chiesa e del cristianesimo primigenio; a me sembra più importante che essa faccia presagire il pensiero di Kierkegaard, di Tolstoj83 e di un certo messianismo social-utopico dei giorni nostri, se pure senza alcuna ombra di fariseismo, il morbo ereditario dei moralisti. Alla diffidenza di Goethe nei confronti della storia, fa riscontro quella ancora più coerente di Manzoni di fronte all''invenzione', alla poesia, al 'fittizio' e, in breve, all'arte. Lo si è definito un poeta la cui «coscienza non è tranquilla»84. E dato che un uomo della sincerità di Manzoni non può alla lunga agire contro la sua coscienza, ad un certo momento egli rinunciò decisamente all'arte. Se avesse effettivamente stampato il suo trattato Del romanzo storico, ideato originariamente come missiva a Goethe, prima della morte di questi e glielo avesse mandato, non ci sarebbe stata la possibilità di appianare le divergenze delle idee. Manzoni sembra averlo presagito. Infatti, quando nell'estate del 1829 ebbe la visita del Cancelliere von Müller, scusò con il suo «malfermo stato di salute» il lento procedere del lavoro; ma forse si rendeva conto che avrebbe messo a dura prova l'«indulgenza» di Goethe e che si sarebbe trovato di fronte un rifiuto deciso, invece dei desiderati «ammaestramenti». Può darsi si debba al tatto di Manzoni l'aver atteso fino al 1851 — quasi venti anni dopo la morte di Goethe85 — a pubblicare il trattato. Goethe avrebbe dovuto rinnegare tutta la sua esistenza di poeta se avesse voluto approvare la rigorosa tesi di Manzoni riferitaci da Carlo Witte, noto studioso di Dante, dopo una sua visita a Brusuglio nel 184186:

...ogni racconto può essere solo o verità o menzogna, ed ogni menzogna è e rimane immorale. Invano ho tentato, io [Witte], di ricordare al poeta, che condannava la sua opera, che ogni storiografo, che non vogli essere soltanto cronista ma intenda anche essere produttivo, non può limitarsi a riferire i fatti ma deve anche manifestare la sua opinione e che, dunque, se pure in senso limitato, finisce per scrivere un romanzo storico. Egli ha mostrato di disapprovare ogni storiografia di siffatto genere e ha chiaramente affermato di esigere una semplice compilazione di date e fatti...

In tale maniera si avrebbe infatti non solo la fine della storiografia, ma anche quella dell'arte. A me sembra debba venir considerato un grande merito, dal punto di vista di una morale severamente cattolica, del «poeta nato» Manzoni, il fatto che ne abbia tratto l'estrema conseguenza per il suo proprio lavoro. Ma, nel medesimo tempo, si deve pure riconoscergliene uno pii grande nel non aver tentato di conquistare proseliti alla sua diffidenza verso l'arte. In ciò si differenzia notevolmente da quegli zelanti dei nostri giorni, che vorrebbero elevare a legge generale la loro cupidigia iconoclastica dovuta alla loro incapacità di capire l'arte. È stata la profonda liberalità umana, di cui era dotato, ad impedire a Manzoni di violare sacrilegamente le pii personali convinzioni del suo prossimo.

(Traduzione di Enzo Calani)


 

NOTE

1 Cfr. Fritz Strich: Goethe und die Weltlit., Bern 1957, 370, no. 10 (cit.: Strich). Lo Strich ha raccolto tutte le testimonianze in cui Goethe adopera la parola 'Weltliteratur'. - Cfr. anche i brani riguardanti L'Eco sulla rivista goethiana Über Kunst und Alterthum, rist. Bern 1970, VI 2 (1828), 398-400 (cit.: KuA) = Gedenkausg, der Werke, Briefe und Gespräche XIV, Schriften zur Lit., a cura di F. Strich, Zürich 1950, 958 (cit.: Gedenkausg. XIV), nonché Io schema [Historische Studien zur Weltlit.], ivi 904 (1828).

2 Bezüge nach außen: KuA VI 2 (1828), 267 = Gedenkausg. 895. - Strich (n. 1) 371, n. 18.

3 [Die Zusammenkunft der Naturforscher in Berlin]: Strich (n. 1) 370 s., no. 12 (1828) = Gedenkausg. XIV 909.

4 [Engl.-schott. Zs.]: KuA VI 2 (1828), 936 = Gedenkausg. XIV 956.

5 Allo Zelter, 4 marzo '29: Strich (n. 1) 371, no. 14 = Gedenkausg. XXI, Briefe der Jahre 1814-1832, a cura di Chr. Beutler, Zürich 1965, 842 (cit.: Gedenkausg. XXI).

6 31 genn. '27: Gedenkausg. XXIV, Eckermann: Gespräche mit Goethe..., a cura di E. Beutler, Zürich 1948, 229 (cit.: Gedenkausg. XXIV).

7 A Gaetano Cattaneo, 28 marzo '20: Gedenkausg. XXI (n. 5) 383, nonché all'Eckermann, 23 luglio '27: Gedenkausg. XXIV (n. 6) 267.

8 Klassiker und Romantiker in Italien...: KuA II 2 (1820), 115 = Gedenkausg. XIV 806.

9 Indicazione di ciò che nel 1819 si è fatto in Italia...: KuA III 1 (1821), 62 = Gedenkausg. XIV 808, nonché Graf Carmagnola noch einmal: KuA III 2 (1821), 60 = Gedenkausg. XIV 826.

10 Indicazione di ciò...: KuA III 1 (1821), 66 = Gedenkausg. XIV 810.

11 Il conte di Carmagnola...: KuA II 3 (1820), 53 = Gedenkausg. XIV 822.

12 A Sulpiz Boisserée, 11 nov. '27: Gedenkausg. XXI (n. 5) 772.

13 All'Eckermann, 18 luglio '27: Gedenkausg. XXIV (n. 6) 263.

14 Adelchi..., in: Teilnahme Goethes an Manzoni: Gedenkausg. XIV 838.

15 Il conte di Carmagnola...: KuA II 3 (1820), 61 = Gedenkausg. XIV 826.

16 28 aprile '25: Gedenkausg. XXIII, Gespräche II, a cura di W. Pfeiffer-Belli, Zürich 1966, 384 (cit.: Gedenkausg. XXIII).

17 Klassiker und Romantiker...: KuA II 2 (1820), 116 = Gedenkausg. XIV 806.

18 All'Eckermann, 18 luglio '27: Gedenkausg. XXIV (n. 6) 263.

19 Graf Carmagnola noch einmal: KuA III 2 (1821), 72 = Gedenkausg. XIV 832.

20 Adelchi..., in: Teilnahme...: ivi 838.

21 All'Eckermann, 18 e 21 luglio '27: Gedenkausg. XXIV (n. 6) 263, 265.

22 Klassiker und Romantiker...: KuA II 2 (1820), 103 = Gedenkausg. XIV 801.

23 Tag- und Jahreshefte 1821: Gedenkausg. XI, Ital. Reise - Annalen, a cura di E. Beutler, Zürich 1962, 928 (cit.: Gedenkausg. XI).

24 Il conte di Carmagnola...: KuA II 3 (1820), 52 = Gedenkausg. XIV 822; spazieggiato da me.

25 Adelchi..., in: Teilnahme...: Gedenkausg. XIV 837.

26 Ivi.

27 Ivi 842.

28 All'Eckermann, 18 luglio '27: Gedenkausg. XXIV (n. 6) 263.

29 Cfr. Strich (n. 1) 257.

30 Adelchi..., in: Teilnahme...: Gedenkausg. XIV 837.

31 Cfr. Horst Rüdiger: Die Kritik der Romantiker und Goethes an den Tragödien Alfieris, in: Euphorion 66 (1972), 258-287, spec. 271-286. Da questo saggio ho ripreso qualche brano.

32 Indicazione di ciò...: KuA III 1 (1821), 64 = Gedenkausg. XIV 809.

33 Mazzino Montinari: Goethe und Manzoni - Zur Problematik ihrer geistigen Begegnung, in: studi germanici (n. s.) IX 3 (ott. 1971), 394-418, spec. 416 (cit.: Montinari).

34 All'Eckermann, 21 luglio '27: Gedenkausg. XXIV (n. 6) 265.

35 Cfr. Il conte di Carmagnola...: KuA II 3 (1820), 37 = Gedenkausg. XIV 815.

36 23 luglio '27: Gedenkausg._XXIV (n. 6) 267.

37 Le frasi seguenti sono state dette all'Eckermann, 21 e 23 luglio '27: ivi 265 s.

38 Il conte di Carmagnola...: KuA II 3 (1820), 53 = Gedenkausg. XIV 822.

39 KuA IV 1 (1823), 98-101 = Gedenkausg. XIV 833-836 (insieme al te-sto italiano, riprodotto dal Goethe in Teilnahme...) = Alessandro Manzoni: Tutte le opere VII, Lettere I, a cura di C. Arieti, Milano 1970 (= I Classici Mondadori), 222 s., 816-818 (cit.: Lettere I). - Cfr. Emmy Rosenfeld: Goethe und Manzoni..., in: Lit.wiss. Jb. Görres-Ges. NF 1 (1960), 91-116, spec. 97-99 (cit.: Rosenfeld). La R. riproduce la brutta copia della lettera di Manzoni, crede che il Riemer abbia tradotto in tedesco l'originale spedito a Goethe e ne dà una sua propria versione modernizzata.

40 V. l'autografo riprodotto da Friedrich Schürr: Die roman. Lit.en des 19. und 20. Jh.s, Potsdam 1935, I 310. - Cfr. anche la lettera che Manzoni spe-di, nell'ottobre del 1822, al Cattaneo pregandolo di prestargli una copia dell'Egmont: Lettere I (n. 39) 291 s.

41 Lionello Senigaglia: v. Goethes Beziehungen zu Manzoni und anderen Italienern - Briefwechsel zwischen Manzoni und Kanzler von Müller, in: Goethe-Jb. 9 (1888), 135-147 (cit.: Senigaglia), spec. 141; v. l'autografo riprodotto dalla Rosenfeld (n. 39) 97; cfr. ivi 109.

42 Senigaglia (n. 41); Strich (n. 1) 251-262; Rosenfeld (n. 39); Montinari (n. 33); Otto Speyer: Manzoni und Goethe, in: Die Grenzboten 48 (1889), 71-81, 117-126; id.: Manzonis Graf von Carmagnola und seine Kritiker, in: Archiv St. der neueren Sprachen und Litt., anno XLIII, vol. 83 (1889), 419-438; E. Sacchi: Manzoni e Goethe, in: Nuova Antologia, vol. CCII (luglio-ag. 1919), 442-445; Heidi Lohner: Deutschlands Anteil an der ital. Romantik, Bern/ Leipzig 1936 (= Sprache und Dichtung, fasc. 62), 103-145 (cit.: Lohner); Piero Fossi: La Lucia del Manzoni ed altre note critiche, Firenze 1937 (con-tiene la versione italiana degli scritti goethiani sul Manzoni); Jean F. Beaumont: Manzoni and Goethe, in: Italian Studies II (Aug. 1938 - May 1939), 129-140 (cit.: Beaumont); John Hennig: Goethe and an Engl. Critic of Manzoni, in: Monatshefte, vol. XXXIX 1 (Jan. 1947), 9-16; Carlo Curto: La poesia del Manzoni nel pensiero del Goethe; in: Nuova Antologia, vol. CDXLVII (sett.-dic. 1949), 25-34. Materiale inedito risp. punti di vista nuovi si trovano nei saggi del Senigaglia, della Lohner, del Beaumont, dello Strich, della Rosenfeld e del Montinari.

43 Senigaglia (n. 41) 135 s.

44 Cfr. la lettera del febbraio 1811 al Fauriel: Lettere I (n. 39) 112 s.: Manzoni diede a leggere agli amici l'idillio del Baggesen, La Parthénéide, evidentemente nella versione francese del Fauriel, e rimaneva deluso in seguito alla loro reazione negativa: Baggesen n'en [dell'insuccesso] saura rien, mais voilà ce qui le consolerait bien s'il en était informé; c'est qu'on dit qu'au moins Parthénéide est plus passable que Hermann et Dorothée....ce n'est pas contre son Poi?me, mais contre le genre qu'on est prévenu. Diffatti on a plaint beaucoup son beau talent de s'étre exercé sur des niaiseries. J'ai fait lire entr'autres Hermann et Dor. à M.r Visconti... il le ravale au point de me dire que si je ne l'avais pas prévenu en faveur de ce Poéme, si je ne lui avais pas dit qu'il a beaucoup de réputation en Allemagne, il l'aurait pris pour un de ces Romans sentimentaux dont on est inondé à cette heure...

45 Quanto alla conoscenza della lingua tedesca da parte di Manzoni e agli 'influssi' di Goethe sull'opera manzoniana v. Beaumont (n. 42) 129-133, ipotesi poi ripresa dalla Rosenfeld (n. 39) 92, 97 s., 100 s., 112 s.

46 Cfr. Josefine Rumpf-Fleck: Heinrich Mylius - Ein Mittler zwischen Weimar und Italien, in: Goethe-Kalender 35 (1942), 192-243.

47 Pubblicato dal Montinari (n. 33) 396 s., n. 1.

48 KuA II 2 (1820), 101-117 = Gedenkausg. XIV 800-807; Montinari (n. 33) 398-400 ne fa un'analisi.

49 Cfr. Lohner (n. 42) 81-102.

50 Lettere I (n. 39) 223 - KuA IV 1 (1823), 100 = Gedenkausg. XIV 834.

51 20 sett. '27: Gedenkausg. XXIII (n. 16) 514.

52 Cfr. Horst Rüdiger: Ein Versuch im Dienste der Weltlit.-Idee: Goethes übers. von Manzonis Ode "Il cinque maggio", in: St. in onore di Lorenzo Bianchi, Bologna 1960, 1-24, spec. 17 s., n. 1. Sul principio della traduzione v. ivi 6-8, 23 s.

53 Sembra che Manzoni non abbia ricevuto un biglietto dell'aprile 1830 con cui Goethe gli raccomanda suo figlio ed Eckermann in viaggio per l'Italia: Gedenkausg. XXI (n. 5) 901; v. anche Senigaglia (n. 41) 143 s.; Rosenfeld (n. 39) 114.

54 V. sopra, n. 50.

55 14 dic. '22: Gedenkausg. XXI (n. 5) 523. Cfr. anche Lohner (n. 42) 108, 111, 130 s., 135.

56 Cfr. Rosenfeld (n. 39) 101-103. Già la Lohner (n. 42), 113, 122 s., 139, ha però giustamente dato rilievo all'atteggiamento critico di Manzoni verso Schiller. Manzoni conosceva certamente la rielaborazione del Wallstein da parte di Benjamin Constant (ivi 104-106), nonché La fidanzata di Messina e il Guglielmo Tell.

57 Opere, a cura di R. Bacchelli, Milano; Napoli 1953 (= La lett. ital. - Storia e testi, vol. 53), 133 (cit.: Opere).

58 Italia mia...: Canz. CXXVIII, v. 33-35: Ben provide Natura al nostro stato / quando de l'Alpi schermo / pose fra noi e la tedesca rabbia...

59 Opere (n. 57) 83.

60 Il conte di Carmagnola...: KuA II 3 (1820), 35 s.; cfr. 60 = Gedenkausg. XIV 814 s.; cfr. 825.

61 [Die Zs. Le Globe]: ivi 868.

62 Il conte di Carmagnola...: KuA II 3 (1820), 47 — Gedenkausg. XIV 820.

63 Adelchi..., in: Teilnahme Goethes an Manzoni: ivi 839.

64 All'Eckermann, 21 luglio '27: Gedenkausg. XXIV (n. 6) 265.

65 Ezio Chiòrboli in: A. Manzoni: Le poesie, Bologna 1948, 534.

66 Opere (n. 57) 281.

67 Adelchi..., in: Teilnahme Goethes an Manzoni: Gedenkausg. XIV 839.

68 Ivi 838.

69 31 genn. '27: Gedenkausg. XXIV (n. 6) 229.

70 28 aprile '25: Gedenkausg. XXIII (n. 16) 383 s.

71 Al Riemer, giugno '11: Gedenkausg. XXII, Gespräche I, a cura di W. Pfeiffer-Belli, Zürich 1964, 637. Il senso che risulta da un altro aforismo di Goethe è che il fatto «avanza come un caput mortuum».

72 Goethes Gespräche..., scelti a cura di F. Freiherr von Biedermann, Leipzig s. a. (1929), 735, cit. in: Lexikon der Goethe-Zitate, a cura di R. Dobel, Zürich/Stuttgart 1968, col. 267.

73 Al cancelliere von Müller, 17 dic. '24: Gedenkausg. XXIII (n. 16) 370.

74 Abbozzo di una prefazione alla terza parte di Dichtung und Wahrheit, in: SW - Jubiläums-Ausg. XXIV, Dichtung und Wahrheit III, a cura di R. M. Meyer, Stuttgart/Berlin, 269.

75 Maximen und Reflexionen attinenti ai Wanderjahre: Gedenkausg. IX, Die Wahlverwandtschaften..., a cura di P. Stöcklein, Zürich 1962, 563, no. 495.

76 Tag- und Jahreshefte 1811: Gedenkausg. XI (n. 23) 853.

77 Opere (n. 57) 89. Persino Shakespeare per Manzoni è in prima linea moralista e supera perciò gli altri poeti drammatici; cfr. Lohner (n. 42) 115.

78 Cfr. ivi 112; Montinari (n. 33) 405 s.

79 Lettere (n. 39) 326 s., 856 ss.

80 Ivi 536 s., 949 s.

81 Beaumont (n. 42) 140: «... we are surely justified in holding Goethe to have been very largely responsible fo his [Manzoni's] anarchia in purely aesthetic matters. We are thus led to the almost paradoxical conclusion that Goethe... may perhaps have succeeded.., by his influence as a critic, in playing the part oft Mephistopheles; greatly contributing, however unintentionally, to Manzoni's renunciation of any further creative work». Questa ipotesi è stata ripresa dalla Rosenfeld (n. 39) 92, 116, e, più cautamente, dal Montinari (n. 33) 416. Già la Lohner (n. 42) 140-143 aveva però analizzato i rapporti più esattamente. Il giudizio sulla responsabilità di Goethe si fon-da soprattutto sul resoconto (dell'estate 1829): Der Kanzler Friedrich v. Müller bei Manzoni, pubblicato da C. A. H. Burkhardt, in: Magazin für die Lit. des Auslandes, vol. 79/80 (1871), 640, resoconto ripreso dal Senigaglia e poi dal Beaumont 137, n. 25; riassunto dalla Rosenfeld 113 s.; estratto dal Montinari 417. I brani decisivi, citati e tradotti dal tedesco in base al testo del Beaumont, suonano come segue: «La benevolenza continua di Goethe verso di me dimostra che la sua indulgenza è tanto grande quanto è il suo genio, e mi è gradito goderne. Non è la paura di sentire il suo giudizio a trattenermi dal terminare la mia missiva, già da tempo iniziata, intorno ai principi del romanzo storico; la causa ne è piuttosto il mio malfermo stato di salute... Io sono sicuro che egli mi comprenderebbe e che mi darebbe ammaestra-menti se avessi commesso un errore, e ciò mi basta... È esclusivamente opera sua se ho trovato approvazione..., ed è solo in seguito alla sua critica che ho acquistato chiarezza su di me stesso... Se avessi la fortuna di par-lare personalmente con Goethe sarei difficilmente impicciato; avrei verso di lui quel sentimento di cui è preso un bambino che trova il proprio padre. Il mio animo si aprirebbe a lui senza ritegno...». Queste parole testimoniano l'alta venerazione di Manzoni per Goethe; ma non siamo sicuri, purtroppo, fino a che punto siano state stilizzate dal Müller. Del resto, Manzoni non afferma altro che di aver «acquistato chiarezza» su di sé stesso, in seguito alle osservazioni goethiane. Senza dubbio le idee del Rosmini esercitavano maggiore influsso sul suo pensiero.

82 Francesco Flora: Storia della lett. ital., ed economica, Milano 21967, IV 460.

83 Il cenno al Tolstoj lo devo al Montinari (n. 33) 418.

84 Ivi 407.

85 Opere (n. 57) 1055-1114; il trattato fu terminato nel 1851 e pubblicato, per la prima volta, in: Opere varie, Milano 1845-55.

86 Ein Besuch bei Alessandro Manzoni im Jahre 1831, in: Dt. Rundschau 132 (1907), cit. in base al testo pubblicato dal Beaumont (n. 42) 139 s., n. 31, ripreso poi dalla Rosenfeld (n. 39) 115 s. e dal Montinari (n. 33) 417 s.