IL CRISTALLO, 1976 XVIII 3 [stampa]

LABORATORIO TEATRALE E RICERCA INTERDISCIPLINARE*

di ALESSANDRO FERSEN

Il mio intervento sarà dedicato alla ricerca e sarà orientato più verso considerazioni culturali che non organizzative: la ricerca teatrale in Italia è una disciplina ancora giovane, fluttuante, indeterminata: e precisazioni, puntualizzazioni, esemplificazioni sono una premessa indispensabile per una presa di posizione da parte del legislatore.

È già stato ampiamente sottolineato il fatto che l'esplosione delle attività sperimentali verificatasi in Italia negli anni '60 e dilatatasi negli anni '70 è il sintomo più vistoso dell'esigenza di un radicale rinnovamento della vita teatrale italiana. Questo insieme affascinante ed incalzante di tentativi, di ricerche e di scoperte sceniche è la testimonianza di un disagio, di una insofferenza, di una ribellione a canoni teatrali ormai logori — disagio insofferenza e ribellione che sono quelli di una società in rapida trasformazione nei riguardi di strutture sociali arretrate.

Alla base c'è una lenta, ma sensibile decadenza della nozione tradizionale di spettacolo come prodotto da «udire» e da «vedere»: sappiamo tutti che, in quanto spettacolo, il teatro viene decisamente messo in condizioni di inferiorità dai prodotti spettacolari confezionati dai mass media. Vedremo come, per reazione, si accentui con crescente chiarezza, nella vita teatrale, un recupero della funzione sociale del teatro, in contrapposizione alla pura e semplice fruizione estetica dello spettacolo.

Ma intanto, nei confronti del cinema e della televisione il teatro di tradizione si trova perdente per quanto concerne le possibilità di racconto e di descrizione, praticamente illimitate nei mezzi di comunicazione audiovisiva. Nei confronti con la pittura, con la musica, con la danza, le cui strutture espressive sono state da gran tempo rivoluzionate rispetto ai moduli tradizionali, il cosiddetto «teatro di prosa» indugia ancora in schemi di spettacolo ottocenteschi, con divisione in atti, con personaggi, trama.

Ecco allora — in questo panorama scompigliato dall'invasione delle tecnologie dello spettacolo — l'urgenza dell'individuazione di una identità teatrale, di forme e di linguaggio che non possono essere vantaggiosamente surrogate dai nuovi strumenti espressivi, della definizione, infine, di più profonde ed organiche funzioni della vita teatrale.

Delineato, in questa diagnosi molto frettolosa, il contesto culturale e politico in cui insorge l'esigenza del laboratorio teatrale — vorrei esporre il tipo di ricerca che, a mio avviso, ne consegue ed il mio modo di concepirla. Non perché io lo consideri dogmaticamente giusto — anzi, sottoscrivo in pieno quell'apertura totale ad ogni metodologia ad ogni impostazione adottata in questo campo che è stata così chiaramente preconizzata nelle relazioni di Seroni e di Grieco — ma perché questo modo di concepire la ricerca, praticato per due decenni nel mio studio, rivela ora interessanti punti di contatto con quanto è stato detto nella relazione di Grieco circa la necessità di supporti scientifici e culturali all'attività di ricerca e già prima adombrato in un passo del documento del Partito Comunista sui teatri stabili.

Mi scuso quindi di questa indispensabile auto-citazione.

Un lungo lavoro di esplorazione della vita teatrale e una indagine strettamente sperimentale sul configurarsi dell'evento scenico nella società mi ha convinto che la ricerca deve avere un fondamento oggettivo, deve prendere le mosse da discipline affini al teatro, dalle quali il presente momento teatrale non può prescindere. Non che anche in questa direzione — come nella sperimentazione spontanea — non intervenga il soggettivo: ma esso interviene in un secondo tempo come fattore di sintesi, come illazione creativa, come intuizione conseguente ad una meditazione e ad una ricerca oggettiva ed interdisciplinare. Su questa strada mi sembra si sia mosso il grande filone della ricerca nel teatro mondiale da Krotowski a Peter Brook, e al primo Bob Wilson (ma già prima di loro, il Berliner Ensemble non era forse un laboratorio di collaudo delle teorizzazioni di Brecht sulla recitazione?). Talvolta la ricerca prescinde addirittura dal traguardo dello spettacolo come avviene spesso nel Centro Internazionale di ricerca di Peter Brook. E questo può avvenire, perché prioritaria, in questo modo di concepire l'attività di laboratorio, è l'individuazione di nuove tecniche di espressione scenica, di nuove forme di linguaggio teatrale, delle quali lo spettacolo è, semmai, un corollario (ed anche, s'intende, prima o poi una verifica). È questo, ovviamente, l'approccio più coerente a quell'individuazione di una identità teatrale di cui ho parlato prima. Un esempio concreto di questo tipo di laboratorio mi sembra sia proprio il Centro che Prato ha inaugurato affidandone la direzione a Ronconi, con decisione che a me pare particolarmente consapevole della sostanza del problema e delle esigenze ad esso connesse.

Nel mio Studio, che compie in questa stagione i suoi venti anni di vita e di ininterrotta attività, il lavoro di ricerca si è svolto fin dagli inizi in un assiduo confronto con le acquisizioni dell'antropologia culturale. Lo Studio è nato su queste basi: come laboratorio e, in subordine come scuola di recitazione. Se questo aspetto fondamentale della sua attività è stato a lungo ignorato è perché nel 1957, non si avvertiva ancora la necessità di un'attività di ricerca e tanto meno si capiva in quale modo l'antropologia potesse essere pertinente al discorso teatrale.

Ma perché, personalmente, ho privilegiato, nella mia ricerca, l'antropologia culturale. Qui il discorso si fa complesso, variamente articolato e rende inevitabile una perniciosa schematizzazione con tutti i danni ed i malintesi che le semplificazioni comportano.

Ho parlato prima dell'esigenza di una ricerca destinata ad individuare un'identità teatrale specifica e non surrogabile. E dunque, ragione numero uno per un ricorso all'antropologia: Ia necessità di individuare le condizioni ambientali, socio economiche, culturali, in cui si configura originariamente l'evento teatrale. In tempi di confusione diventa doverosa l'indagine sulle origini di una data formazione culturale, onde conoscerne la natura e funzione primaria. Ed ecco qui la possibile determinazione di certe costanti della vita teatrale, di una vera e propria sintassi dell'evento scenico, come esiste una sintassi biologica, una sintassi fisiologica che non possono venire eluse. Ecco, ancora e più chiaramente manifesta, quella oggettività della ricerca di laboratorio di cui parlavo prima.

La ricerca così impostata permette infatti la formulazione di ipotesi drammaturgiche, che vanno confrontate con le acquisizioni della antropologia culturale; e che riguardano le strutture e la dinamica psico-sociale che presiedono all'insorgere dell'evento teatrale nelle società umane, attraverso il mutare storico dei contenuti.

Ragione numero due per il ricorso all'antropologia. Uno degli aspetti più rilevanti dell'avanguardia storica in campo teatrale da Meyerchold in poi è stata l'esigenza di accantonare il cerimoniale tradizionale dello spettacolo, annientando lo steccato che separa la scena dalla platea; la ricerca anche spaziale di nuovi modi di coinvolgimento del pubblico (uso il termine «coinvolgimento» nella sua accezione più ampia); la fine della passività dello spettatore chiamato tradizionalmente a consumare un prodotto, su cui la sua presenza non ha potere di intervento (ma vedi qui anche la differenziazione rispetto allo spettacolo registrato dei mass media).

Tale esigenza ha trovato largo spazio nelle attività di ricerca di questi anni; ed è anzi per questo tramite che il filone sperimentale si è avvicinato e si muove in un'adiacenza parallela con le molteplici attività di animazione, nelle quali tutti i partecipanti diventano soggetti attivi dell'evento (teatrale e no). Sembra quasi che l'aspirazione estrema, il traguardo ultimo di questa tendenza sia l'annullamento della figura dello spettatore, la sua coincidenza con la funzione dell'attore nell'attività del «fare teatro». Di qui, la moda illusoria e già tramontata dello «happening», che nella sua velleitaria rudimentalità ha costituito un sintomo da non sottovalutare.

Ecco allora l'altra componente antropologica, meno strutturale e più concreta, che si inserisce nell'attività di laboratorio e, insieme l'apertura di un discorso sociologico sulle connessioni tra attività teatrale e territorio. Mi riferirò qui soprattutto alle culture subalterne che con le loro tradizioni popolari hanno continuato una vita tenace, sovente repressa nel nostro Paese. Proprio nell'evento della «Festa» si realizza quell'unità di attori e spettatori, quella partecipazione vivente di tutto un gruppo sociale, che il teatro di ricerca e l'attività di animazione teatrale cercano faticosamente di realizzare. Si scopre così, in questa sintesi a volo di uccello, un comune denominatore fra branche diverse di attività, alcune delle quali nemmeno teatrali: la ricerca teatrale, l'animazione, il mondo delle tradizioni popolari.

Il rapporto tra tradizioni popolari e teatro è un rapporto difficile; l'approccio è facilmente erroneo, il rischio della colonizzazione da parte della nostra cultura cittadinesca è forte; la propensione ad una usurpazione letteraria in agguato. È proprio di oggi una polemica e un dibattito che si è sviluppato a proposito dell'inserimento di spettacoli folk, in particolare della «sceneggiata» napoletana nel festival della gioventù del Partito Comunista a Napoli, con interventi differenziati di Di Nola, Carpitella, Cirese.

A mio avviso la lezione che bisogna trarre dal mondo delle tradizioni popolari e dall'evento festivo mi pare un'altra: anzitutto, l'analisi attenta dei comportamenti «festivi» individuali e collettivi di un gruppo sociale in una manifestazione culturale che è già teatro e la funzione che la festa adempie in un dato contesto socio-culturale. E non avrei in materia i timori espressi da Lombardi Satriani nella citazione fattane ieri da Grieco: è anzi sintomatico il fatto che la «Festa» come grande avvenimento di solidarietà sociale risorge oggi occupando uno spazio lasciato vuoto dal grande teatro delle origini e resuscitando comportamenti collettivi di estremo interesse e stimolo per un uomo di teatro. In secondo luogo, la necessità di una verifica popolare per la ricerca. La ricerca, che è ricerca di nuove forme di linguaggio teatrale, rasenta sempre il formalismo: rischia di cadere nel gratuito, nell'ermetico, in forme elitarie di teatro, anche quando i temi prescelti siano attuali e politicamente validi. Per questo è così opportuna la verifica popolare, meglio ancora quando si tratti del confronto con un pubblico non viziato dai moduli del teatro tradizionale e quindi più refrattario al nuovo. Una ricerca di linguaggio è una ricerca sulla comunicazione: il suo primo metro di misura è dunque la comunicabilità, quel tipo di comunicabilità che è proprio del segno teatrale.

Conclusioni pratiche. Per una attività di laboratorio come quella che ho descritta, basata sulla ricerca interdisciplinare, non oberata dalla scadenza del «debutto», quale collocazione trovare? Sulle proposte avanzate io ho delle perplessità. I teatri stabili? Ho accettato la direzione del Teatro Stabile di Bolzano proprio nella speranza di poter continuare quel tipo di lavoro che si era dimostrato finanziariamente insostenibile al di fuori delle strutture: ma la cosa è apparsa subito estremamente difficile. Non perché io non abbia trovato una apertura anche entusiastica da da parte del nostro Comitato di Gestione e della nostra Commissione Artistica: forse il Teatro Stabile di Bolzano non è la sede più adatta (Esso assolve ad una difficile funzione di frontiera che è politica e culturale insieme, in una situazione estremamente delicata: e devo qui farmi portavoce dei nostri comitati nel segnalare che esso non riceve per l'adempimento di questo arduo compito un riconoscimento ed un appoggio adeguato da parte del Ministero, degli Enti pubblici addetti alla distribuzione, degli altri teatri stabili). Ma anche prescindendo da Bolzano, non vedo come un'attività di questo tipo con la sua imprevedibilità, con le sue incognite, con il suo diritto all'errore possa conciliarsi con le scadenze e con i vincoli cui è assoggettato uno stabile. Bisognerebbe che gli Stabili si trasformassero. Le Università? Bisognerebbe che le Università si trasformassero: mi sembra difficile svolgere un'attività di laboratorio a tempo pieno con studenti impegnati in altre discipline e oberati da obblighi di frequenza, da esami e così via. Le Cooperative sperimentali? Certamente no, almeno oggi: costrette come esse sono ad operare in condizioni estremamente difficili, eroiche, a lottare con i borderò per conquistarsi il diritto alla sopravvivenza.

Il mio intervento si conclude con degli interrogativi. Ma ricordiamoci che stiamo vivendo in un periodo di transizione: e nei periodi di transizione è presente il passato, la tradizione, con tutto il peso che le è dovuto, ed è presente il futuro magari allo stato germinale. Ed è al futuro che il momento di transizione è rivolto. A questo futuro che sta nascendo sotto i nostri occhi, dai tentativi, dalle sperimentazioni, dalle ricerche di oggi, una lungimirante politica teatrale deve dedicare la sua maggiore attenzione ed il suo massimo impegno.


NOTA

* Relazione tenuta da Alessandro Fersen, direttore artistico del Teatro Stabile di Bolzano al Convegno sul Teatro tenutosi a Prato il 24, 25, 26 settembre 1976.