IL CRISTALLO, 1988 XXX 1 [stampa]

BRUNO MAIER E LA «LETTERATURA TRIESTINA»

di SANDRO GUARNERI

In meno di due anni dall'uscita dell'ultima opera di Bruno Maier, docente di letteratura italiana nell'Università di Trieste (Dimensione Trieste, Istituto Propaganda Libraria, Milano, 1987, pagine 318) si sono susseguiti almeno quattro importanti avvenimenti nel panorama della letteratura triestina e giuliana, due tristi e due lieti: anzitutto la scomparsa, nel Natale del 1985, del novantaquattrenne poeta gradese Biagio Marin (1891-1985), che «è il poeta - come scrive nel suo profilo storico-critico Claudio Magris - della strada, che sempre conduce alla meta e che è già la meta»1; poi quella del triestino Carolus Cergoly (1908 - 1986), poeta e romanziere di singolare e variegata originalità, i cui primi versi, fatti circolare a Trieste negli anni '30, furono conosciuti e apprezzati dallo stesso James Joyce,come attesta nel suo profilo storico-critico Andrea Zanzotto2 e appartenente ad un casato di nobiltà ungaro-slava, le cui radici si ramificavano nei vari paesi che formavano l'antico impero austriaco, sostrato etnico della letteratura mitteleuropea, e infine, la pubblicazione di due diverse opere del germanista triestino Claudio Magris (ora docente di letteratura tedesca nell'Università di Trieste), cioè il racconto lungo «Illazioni su una sciabola»3, che è il suo primo approccio alla narrativa, e il saggio critico Danubio, che è - come dice il sottotitolo - «un viaggio sentimentale dalle sorgenti del grande fiume fino al mar Nero»4.

In quest'ultima opera, che è una raccolta di articoli, brevi saggi o di elzeviri (dei quali ultimi alcuni pubblicati nel «Corriere della Sera») collegati da un filo narrante, l'autore ricostruisce a mosaico la civiltà dell'Europa centrale cogliendone i segni più rappresentativi nell'ampia area solcata dal Danubio, ma soprattutto ne delinea con fluidità e talora con sottile ironia la matrice fondamentale, cioè l'aspirazione alla libertà della decadente «letteratura mitteleuropea» o appunto «danubiana», in cui «dalla prigione continentale del tempo si sogna, - come egli scrive - comprensibilmente, la libertà marina dell'eterno, come Slataper, leggendo e studiando il grande rigore di Ibsen sognava ogni tanto gli spazi aperti di Shakespeare... e gli uomini senza qualità, gli ulissidi continentali in biblioteca hanno gli anticoncezionali sempre in tasca e la cultura mitteleuropea, nel suo complesso, è anche una grandiosa contraccezione intellettuale»5. Ed egli, fin dalle prime pagine del libro, giunto dentro le mura del celiniano castello di Sigmaringen, affacciato sulla riva sinistra del Danubio, enuclea, memore di Kant e di Leopardi (forse mediati da Francesco De Sanctis), nella coscienza morale e nella semplicità dello stile le due categorie estetico-poetiche fondamentali della grande letteratura mitteleuropea ed applica anche ai poeti contemporanei il messaggio evangelico contrapponendo l'onesto ed umile poeta triestino Virgilio Giotti al torrentizio poeta cileno Pablo Neruda, il quale assunse, com'è noto, il suo elegante pseudomino fin dagli inizi della sua brillante carriera: Il Messia - scrive infatti con profetico candore Claudio Magris - verrà per gli umili e i dimessi, non per i muscolosi della Vita; per il povareto Virgilio Giotti, la cui poesia splende modesta e incorruttibile fra l'amore per la moglie e i figli e l'impiego al municipio, non per il pomposo Pablo Neruda, che intitola le sue memorie «Confesso che ho vissuto»6 e, più avanti, di fronte al Lager di Mauthausen, nei pressi di Linz, cita Saba per smentire la convinzione espressa da Adorno che dopo i campi di sterminio non sia più possibile scrivere poesia, notando che il poeta triestino «sapeva cosa significasse scrivere «dopo Maidanek», altro terribile Lager, ma ha scritto «dopo Maidanek», sebbene poi Magris smentisca con kafkiana dialettica interiore se stesso aggiungendo che quella «sentenza di Adorno è tuttavia paradossalmente vera, perché il Lager è un esempio estremo di annullamento dell'individuo - di quell'individualità senza la quale non c'è poesia»7 e, appena lasciata Vienna, fra le rovine della città romana di Carnuntum, egli rinnova, citando ancora Saba, la difesa della poesia disprezzata dal filosofo Marco Aurelio (l'imperatore romano che si era accampato nel 171 con le sue 179 legioni alla Porta Hungarica per combattere i Quadi e i Marcomani) perché «memore del grande contrasto platonico tra retorica e filosofia, ringraziava il suo maestro Rustico di avergli trasmesso l'avversione alla retorica e alla poesia, al parlare forbito» con questa brusca ritorsione interlocutoria: «Lettori di Saba, ci è facile confutarlo e mostrargli la verità che può attingere la poesia e che sfugge non solo alla letteratura, alla retorica, ma anche alla filosofia»8 e chiude, infine, la sua variopinta rievocazione del mondo culturale danubiano, arrivato ormai sul delta del lungo fiume, che scorre perennemente, come la stessa vita, nel grande mare, ponendovi l'ultimo sigillo con una delle più belle liriche dell'ultimo Marin: «Fa' che la morte mia, / Signor la sia / comò 'l score de un fiume in t'el mar grando»9.

Si capirà più facilmente ora, dopo questo lungo preambolo, quanto sia utile e tempestivamente puntuale, per conoscere il valore e il significato della letteratura triestina nel vasto panorama di quella mitteleuropea, il contributo critico offerto col volume testé pubblicato da Bruno Maier, che già nella prefazione del libro identifica la «dimensione» o la «misura» di Trieste nella stessa «voce dei suoi poeti e dei suoi scrittori, non di necessità esclusivamente triestini, ma anche istriani e giuliani»10 e ne definisce con chiarezza in sede storico-critica le loro singolari caratteristiche collimanti in larga misura, ma con una loro peculiare connotazione, con quelle della cosiddetta letteratura mitteleuropea, che ne costituisce la più remota e naturale matrice storico-letteraria. E per intendere pienamente l'ampiezza e la polivalente acribia della critica maieriana gioverà risalire alla formazione culturale dello studioso, educato alla scuola di Ferdinando Pasini, Mario Fubini, Luigi Russo e, idealmente, a quella di Benedetto Croce, che gli espresse un significativo apprezzamento per uno dei suoi studi giovanili; e si dovrà anche considerare la ricca varietà dei classici e dei temi letterari, a cui si rifanno le sue più importanti opere, da quelle giovanili su Cecco Angiolieri11, su Gerolamo Fracastoro12, su Lorenzo de Medici13 e su Benvenuto Cellini14 a quelle più mature su Angelo Poliziano15, su Vittorio Alfieri16 e su Italo Svevo, lo scrittore da lui più compiutamente analizzato17.

Gioverà altresì ricordare gli apporti critici da lui dati alla metodologia e alla storia della critica, dai primi studi di critica letteraria, risalenti agli anni del suo ruolo di assistente di Mario Fubini nell'Università di Trieste18, ai più recenti e impegnativi, incentrati in larga misura sulla letteratura triestina e giuliana19, i quali trovano nel volume Dimensione Trieste il loro ulteriore approfondimento e lo sviluppo conclusivo. E, accanto agli studi degli autori e delle tematiche, non si può tacere il vivo amore dello studioso per l'opera dantesca, testimoniato dalle «letture» di alcuni significativi canti della Divina Commedia: il XXIV dell'Inferno20, il XXV del Purgatorio21 e cosiddetti canti dell'esilio (XV-XVI e XVII) del Paradiso22; e ancora si devono menzionare, accanto alle citate edizioni di molti classici (Boccaccio, Lorenzo de' Medici, Poliziano, Castiglione, Della Casa, Cellini, Tasso, Guidi, Baretti, Parini, Monti, ecc.), in particolare quelle degli autori triestini e giuliani (Caterina Percoto, Elio Schmitz, Silvio Benco, Virgilio Giotti, Carlo Sgorlon, ecc.) e soprattutto quelle di Italo Svevo, del cui Vegliardo è imminente l'uscita dell'edizione critica presso l'Editrice Studio Tesi di Pordenone.

Non si può, infine, ignorare la sua collaborazione sia a molti periodici culturali (tra cui basterà forse citare «La Rassegna della letteratura italiana»; «Il Giornale storico della letteratura italiana»; «Belfagor»; «Nuova Antologia», «Letterature moderne»; «La fiera letteraria»; «L'approdo letterario»; «Il Mulino»; «Cultura e scuola»; «Il ragguaglio librario»; «Otto/Novecento» e, oltre ai periodici triestini e giuliani, anche «Il Cristallo» di Bolzano) sia ad alcuni dei più diffusi dizionari (Dizionario Bompiani degli autori e delle opere; Dizionario critico della letteratura italiana diretto da Vittore Branca e il Dizionario critico della letteratura mondiale del Novecento) sia ad alcune opere enciclopediche, quali la «Grandi enciclopedia Vallardi», la «Enciclopedia di tutte le arti» Le Muse e l'«Enciclopedia Unedi».

È chiaro che un critico aperto, come Bruno Maier, alle problematiche della letteratura italiana (medievale, moderna e contemporanea) ed altresì esperto dalla metodologia e storia della critica (da quella tradizionale o idealistica a quella marxistica, avviata da Antonio Gramsci, e a quella che Emilio Bigi definì «stilistica storica», risalente al Fubini e al Russo23, può assumersi a buon diritto il non facile compito di illustrare per la prima volta in sede critica, dopo la polemica sorta negli anni trenta tra Pietro Pancrazi e gli scrittori triestini, il tema della «dimensione» di Trieste, cioè della sopravvivenza culturale del capoluogo giuliano e di cogliere in un'organica sintesi il concetto di una «letteratura triestina«o tout court della «triestinità». È quanto egli fa in questo ultimo volume di 318 pagine, che comprende i suoi saggi triestini, scritti dal 1972 al 1986, la prima sezione dei quali, intitolata «Tra cronaca e storia» affronta, in otto brevi saggi, il tema specifico della «letteratura triestina», la seconda, intitolata «Sveviana», approfondisce lo studio dell'opera teatrale del grande romanziere triestino, di cui illustra anche quattro scritti inediti, la terza intitolata «Sabiana», è una fine esegesi della poesia di Saba sviluppata in sei saggi e la quarta, intitolata «Altri e altro», è dedicata a molti altri scrittori triestini e giuliani, tra cui, per citare i più noti, Silvio Benco, Scipio Slataper, Pier Antonio Quarantotti Gambini, Carolus A. Cergoly, Fulvio Tomizza, Biagio Marin, Giorgio Voghera, Stelio Mattioni e Manlio Cecovini.

La prima e fondamentale questione, affrontata nei due saggi che aprono il volume, riguarda appunto il concetto critico di letteratura triestina. Maier dimostra anzitutto che, sebbene ne abbia discusso per primo sul piano critico Pietro Pancrazi in un articolo del 18 giugno 1930 intitolato «Scrittore triestino» sui Colloqui con mio fratello (editi da Treves a Milano nel 1925) e sui Racconti (editi da Buratti a Torino nel 1929) di Giani Stuparich24, tuttavia su quello storico il termine «triestinità» compare per la prima volta nella lettera del 27 settembre 1913 del giovanissimo Carlo Stuparich al fratello Giani (... Mi faccio un concetto di una triestinità fuori di Trieste o meglio fuori della Trieste giornalistica, ufficiale e provinciale»); poi che l'idea di una letteratura e cultura triestina, sia pure «sotto forma di aspirazione, di programma, di poetica» risale già a Domenico Rossetti (1974-1842), che in una lettera del gennaio 181925 esprimeva la speranza, nella sua qualità di podestà di Trieste, che «le scienze e le arti belle verranno finalmente a fare dimora» nella sua città, ma rilevava anche la necessità di introdurre «un affatto diverso e più ragionevole sistema di pubblica e privata istruzione» e soprattutto a Scipio Slataper (morto a 27 anni sul monte Podgora nel 1915), che in una delle sue celebri Lettere triestine pubblicate nel 1909 nella «Voce», diretta da Prezzolini26, individuava una nuova letteratura triestina, diversa da quella svoltasi anteriormente nella sua città, delineandone il carattere tragico e distinguendo in essa «due nature che cozzano ad annullarsi a vicenda: la commerciale e l'italiana» - e Slataper annotava anche nel celebre libro Mio Carso (edito nel 1912 a Firenze) con fine sensibilità critica «l'anima in tormento» di Trieste - e, infine, allo stesso Carlo Stuparich, che nella successiva lettera del 13 novembre 1913 confidava al fratello Giani (1891-1961) la sua aspirazione a «creare un nucleo che non sformi, ma formi l'anima triestina» e anche il proposito di fondare a Trieste con Scipio Slataper una nuova «rivista di pensiero e di cultura» che si sarebbe dovuta intitolare «Europa»27.

È merito comunque di Pancrazi - conclude Maier - aver indicato con efficace puntualità in quel memorabile articolo, redatto poi definitivamente nel 1946, i «caratteri distintivi della letteratura triestina (problematismo, interesse psicologico, assillo morale, travaglio espressivo)», che furono confermati dai più autorevoli critici successivi (dal Contini al Bo, dal Binni al Magris, dal Prezzolini al Bazlen, per citare i più noti), i quali hanno dimostrato altresì lo stretto rapporto della letteratura triestina sia con quella italiana sia con le altre letterature europee e soprattutto con la grande letteratura mitteleuropea, come rileva con acribia in varie opere critiche anche il Magris28. Ma ai caratteri sottolineati dal Pancrazi, Maier aggiunge anche «qualche altro», caratterizzanti la letteratura triestina, cioè «il senso di concretezza, il realismo, la serietà, l'aborrimento di ogni astruseria e astrattezza» e, soprattutto «l'antiletteratura o antiletterarietà», documentata da alcune affermazioni in sede di poetica dello Slataper, dello Svevo, del Saba e di Giani Stuparich raccolte dallo stesso Maier or sono quasi due decenni nel volume La letteratura triestina del Novecento (Trieste, Lint, 1969, pp. 12-26). Negano invece in sede critica l'esistenza di una letteratura triestina autonoma il triestino Silvio Benco, che difese apertamente in un articolo pubblicato nel 1939 la correlazione o integrazione della letteratura triestina con quella nazionale29 e l'istriano Pier Antonio Quarantotti Gambini, che, da buon patriota, in un'intervista concessa nel 1964 a Gian Antonio Cibotto, intitolata «Un italiano sbagliato», dichiarò la sua avversione a raggruppare gli scrittori, che sono diversi l'uno dall'altro, compresi quelli triestini, in sodalizi letterari30. Un'altra non meno importante questione, legata al rapporto tra letteratura triestino-giuliana e letteratura europea, è illustrata da Maier nel saggio intitolato «Appunti sul decadentismo giuliano», scritto nel 1983, in cui delinea, la fisionomia culturale del Decadentismo europeo per rilevare i caratteri particolari, emergenti dalle opere dei maggiori scrittori, di quello giuliano. Del decadentismo europeo, nato «dal tramonto del positivismo o dello scientifismo positivistico o delle sue orgogliose, apodittiche certezze» e storicamente collocato dopo il Verismo e prima del Neorealismo, Maier sottolinea da una parte la «fisionomia sostanzialmente borghese (nonostante certe effervescenze antiborghesi, anche violente...)» e dall'altra «il grande merito di aver sprovincializzato la nostra letteratura e cultura e di averle messe al passo con quelle dell'Europa»; ma egli, concordamente con i più noti filosofi, da Norberto Bobbio31 a Sergio Antonielli32, definendo il movimento letterario decadente «una letteratura di crisi» o «una civiltà culturale della crisi, della malattia e dell'angoscia esistenziale» ne enuclea quattro elementi caratteristici (che si riflettono in vario modo anche negli scrittori giuliani): 1) «un individualismo acuto, sottile, esasperato... oscillante tra titanismo e vittivismo, tra misticismo ed estetismo...», 2) «la predilezione per le forme lirico-introspettive e autobiografiche, come la confessione, l'esame di coscienza, la memorialistica...»; 3) «la priorità del privato... sul pubblico e sul politico... con un largo margine concesso all'irrazionalità e all'inconscio..., il cui immenso reame - come scrive Saba33 - è oggetto specifico delle trivellazioni psicanalitiche»; 4) «la cura rivolta agli esiti formali, alla parola rara... alle metafore, ai simboli, alle sinestesie e, comunque, all'espressione... con conseguenti ricerche che portano talvolta a soluzioni di tipo espressionistico».

In conclusione Maier, pur premettendo che la letteratura giuliana si adegua in generale, tra la fine dell'Ottocento e il 1945, a quella nazionale, nota tuttavia che il ruolo cosmopolitico di Trieste, crogiuolo o luogo d'incontro (e di scontro) di popoli e razze differenti, ha contribuito a rinnovare, aggiornare ed europeizzare la nuova letteratura triestina, che nei primi decenni del Novecento assume caratteri sempre più originali nell'ambito del decadentismo in Svevo, Slataper, Giani Stuparich, Qurantotti Gambini, Benco e Michelstaedter. Il critico infatti definisce Svevo «esponente di un decadentismo problematico, ironico, critico e perciò vicino al Pirandello», insieme col quale egli rappresenta «la coscienza profonda del Decadentismo» e nota che Saba, pur legato al filo d'oro della tradizione italiana (dal Petrarca al Leopardi), deriva dal decadentismo non solo un «certo giovanile superomismo e vittivismo» e l'interesse per la psicanalisi, ma anche l'amore delle «cose» e degli «oggetti», per cui è «un precursore del Neorealismo»; e sottolinea il suo distacco dagli ermetici, che il poeta triestino considera autori di «parole incrociate», tanto che avrebbe volentieri intitolato «Chiarezza» il suo Canzoniere. Quanto al decadentismo di Scipio Slataper, Maier avverte che il suo «itinerario artistico è contraddistinto dal passaggio da una sorta di superomismo non privo di umori nietzschiani all'umanità o alla condizione di un neogoethiano uomo fra gli uomini»; la narrativa di Giani Stuparich invece gli sembra aderente al decadentismo perché «ricca di inquietudini e di contrasti affettivi e morali». Ancora più cupo gli appare il mondo decadentistico sia di Quarantotti Gambini, nei cui romanzi e racconti prevale «la raffigurazione con risvolti freudiani del doloroso e traumatico impatto degli adolescenti con il mondo dei grandi e della loro difficile iniziazione alla vita» sia di Silvio Benco, nella cui opera narrativa il gusto del decadentismo rivela un'ascendenza dannunziana nei due primi romanzi (La fiamma fredda, Milano, Treves, 1903 e Il castello dei desideri, ivi, 1906) e viceversa un colorito borghese e un sapore autobiografico nel successivo (Nell'atmosfera del sole, Milano, Caddeo, 1921) sia al goriziano Carlo Michelstaedter (1887-1910), che rifiuta ogni filosofia sistematica (positivistica o idealistica) e «si impegna in una speculazione di tipo esistenziale, d'accento eroico e pessimistico, fondata sulla ricerca della persuasione e della verità e sul ripudio di ogni retorica» sia, infine, del poeta gradese Biagio Marin, sempre «intento a parlare di sé, del suo cuor de puto... delle zogie e dei dolori della sua lunga esistenza e del suo amore per Grado, a esprimere il suo fervido, esuberante vitalismo e a instaurare un colloquio... religioso con l'Assoluto e con l'Eterno». Subiscono, inoltre, l'influsso del decadentismo, secondo Maier, molti altri scrittori giuliani minori, tra i quali egli ricorda il poeta triestino Enrico Elia, morto a soli 24 anni sul Podgora nel luglio 1915 (autore della raccolta Schegge d'anima, ristampata da Studio Tesi a Pordenone nel 1981, cui il critico dedica un breve saggio nell'ultima parte del libro) e Carlo Stuparich, il fratello meno noto di Giani. Chiude il saggio sul decadentismo l'analisi delle connotazioni decadentistiche, che si riscontrano nell'opera dei poeti istriani Renato Rinaldi (1889-1914) e Tino Gavardo (1891-1914), della cui raccolta Fora del Semenà riporta per intero «la sua lirica più bella» intitolata «Cusine nostrane»34.

Il successivo saggio intitolato Gli scrittori triestini nel ventennio fascista, che è il più antico del libro, essendo stato scritto nel 1972, offre preziose testimonianze storico-biografiche intorno al rapporto tra i più noti scrittori triestini e il fascismo. Ed è importante, a mio avviso, anche sul piano storico-letterario sapere, per esempio, che Italo Svevo, morto nel 1928, accettò da vivo supinamente il regime, ma «come scrittore fu antifascista, europeizzante e mitteleuropeo»; che Umberto Saba (1883-1957), ebreo, avversò tenacemente il fascismo per il suo «odio di razza»; che Giani Stuparich abbandonò persino l'insegnamento al Liceo Classico «Dante Alighieri» di Trieste nel 1942 per «il crescente allineamento dei docenti e discepoli alla politica fascista»; che Silvio Benco viceversa, irredentista di salda fede, ebbe un atteggiamento contraddittorio, perché, pur avversando da prima decisamente il fascismo, finì per accettarne le sue attività culturali e artistiche, tra cui anche il premio Mussolini dell'Accademia d'Italia nel 1932, sebbene egli non sia entrato a far parte - come attesta R. Alessi35 - dell'Accademia, perché privo della tessera fascista e che, infine, Biagio Marin aderì in maniera polemica al fascismo passando nel 1943 all'antifascismo e alla Resistenza. Maier, in definitiva, sottolinea la sostanziale estraneità della letteratura triestina al fascismo» sia per un senso di fedeltà alle sue origini europeizzanti, antiletterarie e anticalligrafiche sia per il suo profondo interesse all'uomo (e non al superuomo o all'eroe) sia per il concetto di patria di tipo mazziniano e democratico... sia per il suo costituzionale moralismo...». L'altro breve saggio risalente come il precedente al 1972, intitolato Letteratura triestina e poesia dialettale, costituisce un felice trittico dedicato a tre poeti dialettali: al capodistriano Tino Gavardo, al triestino Virgilio Giotti e al gradese Biagio Marin. Spicca il ritratto del Giotti (1885-1957), definito dal Pancrazi «un popolano aristocratico»36, in cui coesistono affiancandosi per lungo tempo in antitetica tensione il poeta vernacolare, autore di 5 raccolte, di cui l'ultima scritta a 68 anni (Piccolo canzoniere, 1914; Caprizzi, canzonete e storie, 1928; Colori, 1943; Sera, 1948 e Versi, 1953), e il poeta in lingua italiana, che pubblicò due raccolte, rispettivamente a 35 a 46 anni: Il mio cuore e la mia casa (Trieste, Ed. la Libreria Antica e Moderna, 1920) e Liriche e idilli (Firenze, Edizioni di Solaria, 1931). Le sue liriche in dialetto triestino sono, a giudizio del Maier, di gran lunga migliori che quelle in lingua italiana, il cui linguaggio è «non coerente e intimamente fuso», perché tende ad una «letterarietà toscaneggiante sino al limite del vezzo, della civetteria e del ribobolo» e rivela «una prosasticità un po' arida e spenta, cascante ed elementare, oscillante tra iperletteratura e ipoletteratura...»; viceversa le liriche dialettali, pur riecheggiando, soprattutto nella prima raccolta, il mondo crepuscolare e decadentistico in una quasi naturale prosecuzione della poesia pascoliana, assumono un colorito sempre più originale ed elaborano «in maniera organica un proprio autentico linguaggio poetico, perfettamente capace di dare espressione, "in versi pici e tristi", a quel mondo umano che solum è suo». Giotti, quindi, attraverso l'uso del dialetto, realizza la sua fondamentale parabola artistica passando «dalla cronaca familiare all'aerea polivalenza del mito... dal realismo al simbolo, all'allusione, all'emblema lirico» e approda infine all'espressione definitiva e assoluta dell'umanità del poeta, che può essere definita in termini di «classicità» e di «misura». Tra gli altri saggi della prima sezione mi sembra degno di nota, per l'acribia storico-critica, anche quello intitolato «Francesco De Sanctis e la letteratura triestina», scritto nel 1984, in cui Maier delinea finemente i tratti di accordo e di contrasto tra il grande critico campano e gli scrittori triestini Italo Svevo, Umberto Saba e Carlo Stuparich. Svevo, lettore assiduo nella sua giovinezza di «Machiavelli, Guicciardini e Boccaccio»37, attestò la sua ammirazione per le idee estetiche del de Sanctis in una lettera al Montale del 10 marzo 1926, in cui affermava che egli «trapiantava un uomo intero nelle proprie parole»; ed è probabile - aggiunge Maier - che abbiano ottenuto il suo pieno assenso sia la celebre asserzione desanctisiana che la forma è «il contenuto esso medesimo in quanto è arte» sia l'altra, forse meno nota, che lo stile non è «l'uomo», come voleva lo scrittore e naturalista francese Buffon (1707-1788), ma «la cosa», in quanto «queste affermazioni - conclude Maier - presuppongono una condanna della letteratura o della letterarietà e confermano le convinzioni di poetica dello stesso Svevo, il cui stile è essenzialmente antiletterario». Altrettanto schietta ammirazione per il critico di Morra Irpino sentì Saba, che in una lettera del 22 settembre 1946 a Giuseppe De Robertis definisce il De Sanctis «un grande critico, il solo che abbia avuto l'Italia»38 e dimostra di condividerne quasi interamente le idee estetiche nella lettera scritta al Alfredo Rizzardi il 29 luglio 1951, nella quale afferma che «una poesia vale solo quando il suo contenuto si annulla... nella forma, senza la quale non esiste arte»39, dove l'idea del valore della poesia come «forma», in cui il contenuto si annulla è desanctisiana; ma poi Saba aggiungendo che «quello che sopravvive è... il contenuto annullato in quella precisa forma» non è più in linea - nota acutamente Maier - con il pensiero di De Sanctis, secondo cui «il contenuto è sottoposto a tutte le vicende della storia, nasce e muore, mentre la forma è immortale»40. È invece perfettamente desanctisiana la distinzione che Saba fa tra «il poeta Dante» e «il letterato Petrarca», riecheggiando il celebre giudizio di De Sanctis su Dante «più poeta che artista» e sul Petrarca «più artista che poeta»41, ribadito nella lettera scritta 1'8 giugno 1948 a Vladimiro Arangio Ruiz, in cui dichiara: «... Il Petrarca fu una delle piaghe d'Italia; sarà stato grande al suo tempo; oggi, a me almeno, dice assai poco. Ci sento qualcosa di falso, di voluto (di un amore voluto provare e non provato in effetto) che confina... addirittura col pornografico»; e conclude poi il confronto parafrasando forse inconsciamente, con squisito gusto dell'antitesi iperbolica, la trovata aristofanesca della bilancia, sui cui piatti Dioniso nell'Ade pesa i versi di Eschilo e di Euripide per dirimere la lunga contesa dei due tragediografi attici42: «Dante è così grande che, se si mettessero sopra un piatto della bilancia tutti i poeti di tutti i tempi e di tutti i paesi e sull'altro Dante, vincerebbe ancora Dante»43; e un ulteriore elogio del De Sanctis, Saba esprime anche in «Storia e cronistoria del Canzoniere» sul motivo della necessità di sentire la poesia per comprenderla e giudicarla: «in poesia - egli scrive - prima si sente, e poi, al caso, si comprende; questo è stato il caso del De Sanctis»44.

Infine anche Carlo Stuparich, fratello minore di Giani, attesta nel libro postumo «Cose e ombre di uno»45 di riconoscere in De Sanctis il suo «maestro» di vita etica e di concepire l'arte, memore del suo insegnamento, come espressione totale di vita e come capacità di «essere e vivere artisticamente la coscienza morale».

Le due sezioni centrali del libro «Sveviana» e «Sabiana» contengono il frutto forse migliore della critica maieriana. Di Svevo, peraltro, Maier può essere considerato oggi il maggiore critico, poiché egli ha dedicato allo scrittore triestino una serie ininterrotta di studi, dal citato giovanile Profilo della critica su Italo Svevo (edito dall'Università di Trieste nel 1951) all'ampliata Introduzione a I. Svevo (Milano, Dall'Oglio, 1962), dai Motivi e caratteri dell'Epistolario di Italo Svevo (Udine, 1967) agli «Studi sul teatro sveviano», raccolti nel volume Saggi sulla letteratura triestina del Novecento (Milano, Mursia, 1972) e, ancora, dalle ricerche sul carteggio intercorso tra Svevo e Joyce, Larbaud, Cremieux e la moglie Marie Anne, Montale e Jahier (curato per l'editore Dall'Oglio nel 1978) all'edizione critica dei tre romanzi (Una vita, Senilità e La coscienza di Zeno) edita a Pordenone da Studio Tesi nel 1985-86. Qui si aggiungono altri sette saggi, che apportano nuovi contributi alla soluzione dei più importanti problemi della critica sveviana, da quello della sistemazione cronologica e del valore dell'opera teatrale a quello sempre aperto sul cosiddetto «caso Svevo», cioè sulla tarda fortuna dello scrittore scoperto, com'è noto, nel 1925, a soli tre anni dalla morte, dal critico francese Valery Larbaud, che gli scrisse la prima lettera il 28 ottobre 1925, e dal Montale, che pubblicò nello stesso anno il suo celebre Omaggio a Italo Svevo46 e, infine, dalla questione del rapporto tra il Decadentismo europeo e Svevo (la cui attività di scrittore è vicina a quella di Kafka, Schnitzler, Musil, Zweig, Roth, Freud e Pirandello ed è, viceversa, in aperto contrasto con quella dei misticheggianti e irrazionalisti decadenti Fogazzaro, Pascoli d'Annunzio) al problema dell'interpretazione degli ultimi inediti sveviani scoperti dallo stesso Maier, cioè Il romanzo di Elio, collocabile tra il 1886 e 1899 (che è una rivelazione del suo amore per il fratello Elio, morto nel 1886 a soli 23 anni), una lettera scritta dallo Svevo il 12 aprile 1926 al critico francese Beniamin Cremieux ed altre tre lettere scritte al goriziano Enrico Rocca, amico di Carlo Michelstaedter, in cui appare «quanto lucida e sicura coscienza - scrive Maier - lo Svevo avesse della sua scrittura e delle profonde ragioni che la sorreggevano».

Diverso è l'approccio del critico col poeta Umberto Saba, cui ha dedicato 5 saggi, scritti dal 1980 al 1984: lo scavo psicologico è altrettanto profondo di quello sveviano, ma qui egli rivela una più intima e immediata consonanza col messaggio «umano» della poesia sabiana e in particolare con la tematica triestina del «Canzoniere». Nel primo e maggiore saggio intitolato «Umberto Saba e Trieste» (scritto nel 1983) egli coglie con finezza il passaggio del Saba «letterario», petrarchesco e leopardiano, delle prime due raccolte (Poesie dell'adolescenza e giovanili, 1900-1907 e Versi militari, 1908) a quello già ricco di un'originale autonomia delle due successive (Casa e campagna, 1909-1910 e Trieste e una donna, 1910-1912), nelle quali il tema «triestino» offre al poeta spunti energicamente realistici e il paesaggio della stessa città assume una connotazione psicologica più intensa collimando col messaggio etico della sua poesia. Altrettanto efficace, per il parallelismo con la maturazione poetica, è il rilievo dato al Saba critico, che, per esempio, nell'articolo intitolato «Quello che resta da fare ai poeti»47 distingue la «poesia disonesta» del D'Annunzio dalla «poesia onesta» del Manzoni e che accentua la tendenza antiletteraria della sua poetica dichiarando nello stesso articolo: «Il poeta deve tendere ad un tipo morale il più remoto possibile da quello del letterato di professione»48.

In questa direzione antiletteraria Maier individua il più stretto contatto della poetica sabiana con quella dei più eminenti scrittori triestini, tra cui lo Svevo e lo Slataper, del quale egli cita, tra le altre, una confessione scritta a Marcello Loevi nella lettera del 23 luglio 1908 («Quanto più mi faccio umano tanto più artista profondo divento»), che potrebbe essere non solo «l'epigrafe - come egli scrive - o la divisa artistica e morale della letteratura triestina», ma anche quella dello stesso Saba e dei massimi poeti italiani, da Dante a Petrarca e da Ariosto a Manzoni e a Leopardi. Ed è felice, a mio avviso, sul piano della «stilistica storica», per dirla con Emilio Bigi, l'intuizione del giro di boa provocato nel 1908 dalla parentesi militare nella vita del giovane Saba «bruscamente, ma provvidamente dirottata dalla letteratura alla realtà», perché questa dura esperienza spingerà il poeta a cercare, anche nelle raccolte più mature, un dialogo sempre più aperto «con gli altri». a cantare il suo «essere uomo tra gli uomini»49 e a trovare infine la felicità nell'«essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni» e ancora nell'«essere... soltanto fra: gli uomini / un uomo»50.

Pure notevole è la distinzione formulata da Maier tra la lirica di Saba e quella dei poeti ermetici, soprattutto di Montale e Ungaretti: infatti «mentre l'esperienza biografica - egli puntualizza - nel Montale e nell'Ungaretti (e in particolare nel primo) è soggetta, allorché si traduce in poesia, a un processo di astrazione lirica, la vita del Saba entra direttamente e, si vorrebbe dire, senza mediazione in poesia: sicché le persone, le cose, gli ambienti, ecc. sono indicati con i loro nomi e le loro esatte connotazioni, valgono e contano per se stessi, e non sono, invece un correlativo oggettivo dello stato d'animo o della concezione dell'esistenza, propria del poeta: come avviene nella lirica montaliana, dalla quale quella del Saba è totalmente, radicalmente diversa»51. Questo primo saggio sabiano si chiude con un confronto tra la poesia e la prosa del poeta, da cui traspare l'intima correlazione tra i due generi espressivi, soprattutto sul tema della città di Trieste, la quale è rappresentata in certi scorci e aspetti collimanti con quelli del Canzoniere sia nella raccolta di racconti e ricordi intitolata Il ghetto di Trieste nel 1860 sia nel romanzo Ernesto sia in altre pagine raccolte in Prose tra cui spiccano quelle intitolate Inferno e paradiso di Trieste del 1946, dove, tra l'altro, toccando il motivo fondamentale del «cosmopolitismo» di Trieste, Saba profeticamente scrive: «... era questo il suo pericolo, ma anche il suo fascino»52. Nel successivo breve saggio sabiano, intitolato «Saba, Trieste e la letteratura triestina», il critico approfondisce lo studio della poesia del «Canzoniere» privilegiando il tema della «triestinità» del poeta e quello del suo rapporto con gli altri scrittori triestini coevi, variamente vicini alla «Voce» (il non amato Slataper, Carlo e Giani Stuparich, Virgilio Giotti e Biagio Marin), per rilevare che, ad onta dell'affermazione di essere stato «fra lor di un'altra specie»53, egli concepisce la poesia, concordemente con i vicini, come «autobiografia, confessione, esame di coscienza», aggiungendo però a questo motivo fondamentale anche altri due, quelli dell'«onestà» e della «verità della poesia», che ne sono ovviamente gli indispensabili corollari; e nota, a conclusione del saggio, che la semplicità del Saba non è altro che una «semplicità difficile», in quanto scaturita dal lungo travaglio del poeta e dalla vittoria della sua poesia sulla letteratura.

Nel terzo breve articolo successivo, scritto nel 1984, sono illustrate «due liriche sconosciute» di Saba: la prima, dedicata all'amico goriziano Vittorio Bolaffio (1883-1931), è un patetico sonetto autobiografico, datato Trieste, 1924, e l'altra è una composizione di venticinque endecasillabi e settenari liberamente alternati, intitolata «Il dovere», scritta nel 1925 e poi rifiutata dal poeta probabilmente - secondo Maier - perché «toccava troppo da vicino... la sfera del privato senza assumere un significato più ampio, esemplare e universale».

Nell'altro breve articolo successivo Maier dimostra che il «curioso bibliofilo», che acquistò il manoscritto autografo del Canzoniere sabiano, datato Roma, 30 marzo 1945, poi stampato dall'editore Einaudi nello stesso anno, è Renato Serra, nato a La Spezia nel 1890 e morto a Roma nel 1980, che fu l'editore della prima raccolta poetica di Ungaretti Il porto sepolto54, il quale affidò il manoscritto sabiano al triestino Carlo Cerne che ne ottenne una «encomiabile stampa anastatica» dal Loyd Adriatico di Trieste nel 1983. Questa preziosa stampa anastatica ha permesso al critico di confrontare filologicamente il manoscritto coll'edizione Einaudiana del 1945 del Canzoniere, che risulta assai diversa per «l'ossessione emendatoria» del Saba, che ha ritoccato in più punti il testo di alcune liriche illustrate dal Maier (particolarmente interessante per l'analisi filologica è la lirica «Due felicità» appartenente alla raccolta Cuor morituro, rimasta incompleta).

Chiude la sezione sabiana un importante articolo, in cui Maier commenta acutamente alcune significative confessioni contenute nelle lettere scritte da Saba al vescovo Giovanni Fallani (noto dantista e critico d'arte), da lui conosciuto a Roma nel 1950, tramite Carlo Levi, negli ultimi anni della sua vita (dal luglio 1952 al luglio 1957, cioè un mese prima della morte del poeta avvenuta a Gorizia il 25 agosto 1957).

Due motivi essenziali emergono, secondo Maier, da queste lettere indirizzate al Fallani: anzitutto «un senso di crescente solitudine», che invade il poeta, afflitto da «un'incoercibile, incommensurabile angoscia» durante la lunga degenza nella clinica «Villa San Giusto» di Gorizia, mentre assiste, a sua volta, all'inguaribile malattia e alla morte della moglie Lina (l'ispiratrice di moltissime liriche del Canzoniere) e, nel contempo, «un desiderio struggente di elevazione interiore... una sincera tensione al trascendente... la necessità di una fede, identificata con il cristianesimo e espressa nella preghiera... in una fervida e appassionata ricerca di Dio».

La terza ed ultima sezione del libro, intitolata «Altri e altro» (comprendente 18 articoli o brevi saggi scritti dal 1972 al 1986), tocca gli autori triestini e giuliani contemporanei. Infatti, esclusi il primo breve saggio dedicato al teatro di Silvio Benco (importante soprattutto per le testimonianze epistolari tra Benco e Svevo, incentrate sulla loro attività teatrale e narrativa, di cui Maier rileva la concorde attenzione rivolta sia pure con diversi esiti artistici ai problemi psicologici e umani), i due articoli che illustrano alcuni interessanti documenti epistolari («Le lettere di Scipio Slataper a Maria Spigolotto» e «Le lettere di Elody Oblath a Scipio Slataper») nonché il breve ritratto del poeta e musicista triestino Enrico Elia (morto sul Podgora a soli 24 anni) e infine il confronto filologico tra le due edizioni (del 1920 e del 1935) della raccolta poetica La Buffa (una moderna epopea popolare della prima guerra mondiale) di Giulio Camber Barni, tutti gli altri lavori sono dedicati a scrittori giuliani viventi o da poco scomparsi.

Un caso a parte è costituito dal poeta e romanziere Pier Antonio Quarantotti Gambini (nato a Pisino d'Istria nel 1910 e scomparso a 55 anni a Venezia nel 1965), cui Maier dedica 4 articoli. Il primo è un succoso e aggiornato profilo critico, intitolato «Pier Antonio Quarantotti Gambini a venti anni dalla morte», da cui traspare l'essenziale valore quarantottiano di «poeta della difficile, tormentosa, traumatica iniziazione dei ragazzi e degli adolescenti all'esistenza dei grandi», il quale tende a rappresentare la vita «non più sabianamente all'insegna della bontà e della saggezza... sì invece tra i soffi del forte vento dell'eros e in presenza di un'ineliminabile angoscia, di una costituzionale difficoltà, precarietà e ambiguità di relazioni umane, di cui soprattutto i giovani fanno - sono costretti a fare - un'amara, dolorosa esperienza»55. Nel secondo articolo, intitolato «Memorie di vita e di narrativa nelle liriche di Pier Antonio Quarantotti Gambini», emerge con chiarezza il perfetto ritorno «circolare» alle origini dello scrittore, che inizia e conclude la carriera di narratore, noto soprattutto per i romanzi e i racconti del «ciclo di Paolo» (alter ego dell'autore) riuniti sotto il titolo Gli anni ciechi (editi a Torino da Einaudi nel 1971) e ambientati a Semedella, presso Capodistria, con la poesia: il critico sottolinea la piena complementarità fra la prosa e i versi di Quarantotti Gambini, perché le due sillogi postume Racconti d'amore (edite da Mondadori nel 1965) e Al sole e al vento (edite da Einaudi nel 1970) si richiamano, come la stessa opera narrativa, all'esperienza biografica esistenziale dello scrittore, incentrata sulla rievocazione della sua giovinezza istriana, cui è rimasto legato il suo cuore «alla luce di una memoria... accanita», che non riflette un atteggiamento «narcisistico» nei confronti della sua opera, ma diventa «una sorta di amoroso pellegrinaggio nel regno della Bellezza... identificato con il suo mondo di ieri». Significativo è, a questo riguardo, il fatto che alcune liriche, soprattutto nell'ultima raccolta, rievocano nel titolo gli omonimi romanzi (per esempio, «La terra rossa») e gli stessi personaggi del ciclo degli «Anni ciechi» (per esempio, le liriche dal titolo «Paolo e Norma»).

Nel successivo articolo Maier rileva il «tono dannunziano» e il«lessico raro, erudito, arcaicizzante» della lirica giovanile «La città dei melafiri», scritta nel 1928 dal diciottenne poeta per celebrare Venezia città evanescente, / ebra di luci, di fantasmagoriche / luci di sogno... concludendo che per fortuna lo scrittore

non si è molto inoltrato su questa via irta di insidie e di pericoli e... poco concludente, ma ha trovato lontano dall'influsso dannunziano la sua poesia più autentica e profonda nei suoi racconti, nei suoi romanzi e anche nelle liriche degli ultimi anni che sono, in fondo... una proiezione poetica della sua narrativa.

Il quarto articolo è un'ampia, penetrante recensione del volume postumo di ricordi Il poeta innamorato di Pier Antonio Quarantotti Gambini (curato da Riccardo Scrivano ed edito da Studio Tesi, Pordenone, 1984). Maier vi rintraccia almeno quattro categorie o tipi di ricordi: quello autobiografico, che è costituito dalla nota intervista concessa dall'autore a Gian Antonio Cibotto il 15 novembre 1964, intitolata «Un italiano sbagliato»; quello commemorativo, che è un dittico giuliano dedicato a Giani Stuparich e ad Antonio De Berti, il «Deputato di Pola», il «Papà degli esuli» istriani; quello ricreativo di personaggi appartenenti alla «letteratura triestina» da lui conosciuti e frequentati, tra cui Svevo (visto, tuttavia, una sola volta, nel 1923, durante un viaggio in piroscafo da Trieste a Capodistria), Saba, che egli considera il suo maestro, e Giotti «personaggio ineguagliabile della vecchia e nuova Trieste... gran signore e gran popolano sempre» e, infine, quello rievocativo di personaggi famosi non triestini, tra cui Malaparte, De Pisis, Hemingway, Brecht, Maugham, Camus e Dos Passos. In questo libro di memorie Quarantotti Gambini appare al critico

un memorialista che sa essere saggista sensibile, acuto e originale... e ci fa respirare l'atmosfera di naturale, spontanea, intesa che si stabilisce fra i grandi autori anche psicologicamente lontani e appartenenti a nazioni diverse...: ciò che Raffaello ha saputo rendere mirabilmente negli affreschi del Parnaso e della Scuola d'Atene

L'articolo successivo, intitolato «Il carteggio tra Biagio Marin e Giorgio Voghera», è una nitida e dotta recensione del libro Un dialogo (introdotto e curato da Elvio Guagnini ed edito dalla Provincia di Trieste nel 1982), in cui è stata pubblicata una scelta del carteggio svoltosi tra i due scrittori dal luglio 1967 al gennaio 1981: Maier rileva che il contrasto, che divide il poeta Marin («un idealista, vicino alle posizioni del Croce e del Gentile; uno storicista; un individualista aristocratico che diffida delle masse e non crede nel socialismo, marxista e no») e lo scrittore - saggista Voghera («uno scettico e un pessimista... un socialista democratico, internazionalista e quanto possibile rispettoso delle libertà individuali»), si risolve non già in «un dialogo tra sordi», bensì nella manifestazione di «una sempre più schietta e affettuosa amicizia», nel reciproco arricchimento che «ognuno dei due fratelli fa all'altro attraverso il dono d'anima», cosicché le lettere intercorse fra loro, secondo Maier, costituiscono «un avvenimento intellettuale e culturale per più rispetti esemplare e una lezione di vita e di costume che va meditata e ricordata».

Allo scrittore, da poco scomparso, Carolus L. Cergoly sono dedicati due puntuali articoli: nel primo, intitolato «Carolus L. Cergoly tra poesia e narrativa» (scritto nel 1985), Maier delineando le caratteristiche dell'originalità espressiva (la soppressione delle interpunzioni, la ricchezza inventiva e «d'uso del tutto anomalo del dialetto triestino, intessuto di inserti tedeschi, slavi, francesi, inglesi, ungheresi, latini in un risultato di pastiche estroso») delle poesie mitteleuropee in lessico triestino raccolte nei libri Latitudine Nord (Mondadori, 1980) e Opera 79 in sostantivo Amore (Genova, San Marco dei Giustiniani, 1983) connota una stretta correlazione stilistica tra il linguaggio poetico e quello altrettanto «fortemente personale» del romanzo Il complesso dell'Imperatore (Mondadori, 1979), nel quale è rappresentata la Trieste austriaca anteriore alla prima guerra mondiale «babele di genti, di fedi e di costumi». Viceversa nel secondo articolo intitolato «Fermo là in poltrona di C.L. Cergoly» egli sottolinea la struttura «deliberatamente emblematica dell'ultimo romanzo cergolyano, il cui titolo completo esprime in nuce l'estrosa fantasia dell'autore: Fermo là in poltrona ovverosia i teatri della memoria per trastullarsi e fantasticare scritti da un mitteleuropeo» (Mondadori, 1984). Non ha, quindi, torto il critico che acutamente vede contrapposta nella trama narrativa la tensione verso due mondi inconciliabili tra loro: da una parte infatti egli definisce il romanzo «una sorta di omaggio a una moderna Afrodite, grecamente concepita come la dea del riso, dispensatrice di felicità e incarnata in una serie di non dimenticabili figure femminili...», dall'altra riconosce che il tema dominante dell'opera è «la rievocazione... del viver lieto» dell'ultimo '800 e del primo '900, in cui l'autobiografico protagonista, il nobile Alvise von Bribir, vive (come il protagonista istriano dei romanzi del «ciclo di Paolo» di Quarantotti Gambini) nel suo castello di Dalmazia, dove «tutto fila a bacchetta quasi magica», ma da cui egli vuole fuggire per inseguire il suo sogno di viaggiare (che lo porta a Vienna, a Parigi e a Venezia) e la sua volontà di amare (che gli fa ritrovare la viennese «Tante Leopoldine» e incontrare la sua «Venere ciprigna», cioè la veneziana Delfina Dolfin). Anche al narratore istriano Fulvio Tomizza sono dedicati due attenti articoli. Nel primo, intitolato La città di Miriam di F. Tomizza, il critico non solo sottolinea «l'atmosfera profondamente triestina del romanzo (edito da Mondadori nel 1972), che gli sembra richiamare quella stessa che domina la raccolta poetica di Saba Trieste e una donna, cosicché egli vi intravede quasi «una sorta d'omaggio dell'istriano Tomizza alla sua città d'elezione, considerata soprattutto nella sua dimensione borghese», ma vi rileva anche alcuni parallelismi sveviani: anzitutto quello tra l'autobiografico protagonista, il cattolico e campagnolo Stefano, marito di Miriam, ebrea e cittadina, e lo Zeno sveviano, che nonostante qualche sbandamento amoroso resta fedele alla moglie, poi la molteplicità dei sondaggi analitici, analoghi a quelli del capolavoro sveviano, che rendono il romanzo tomizziano «una sorta di confessione (in chiave più o meno psicanalitica) del protagonista, svolta coerentemente in termini narrativi». Il secondo e più ampio articolo, intitolato «F. Tomizza tra narrativa e storia», scritto nel 1986, è una globale recensione degli ultimi cinque romanzi tomizziani: La miglior vita, Rizzoli, 1977; L'amicizia, ivi, 1980; La finzione di Maria, Mondadori, 1981; Il male viene dal Nord, ivi, 1984 e Gli sposi di via Rossetti, ivi, 1986. Nei primi due prevale ancora, a suo giudizio, il conflitto, autobiograficante rivissuto, tra la mentalità campagnola e quella cittadina già raffigurata nel romanzo precedente; negli altri tre viceversa affiora un più vivo interesse per la storia obiettivamente rappresentata: nella Finzione infatti è rievocato il clima inquisitorio e repressivo della Controriforma cattolica, che intenta un processo per «finzione di santità» alla contadina bergamasca Maria Janis, accusata di aver simulato di essersi nutrita soltanto dell'ostia consacrata per cinque anni, dal 1658 al 1663, e la costringe all'abiura; la trama narrativa tuttavia rivela piuttosto il romanziere che lo storico per l'originale presentazione della materia osservata con gli occhi dello psicologo e per la partecipazione umana dell'autore alle vicende della protagonista, che è soltanto una donna, anzi un'umile contadina, simile ai personaggi della campagna istriana, che popolano le trame narrative tomizziane. Lo stesso giudizio critico vale sia per la cinquecentesca biografia del vescovo di Capodistria, Vergerio, poi convertitosi al protestantesimo (la cui formazione religiosa compiuta nel seminario di Capodistria è rivissuta dall'autore, che completò nello stesso seminario i suoi studi giovanili, in un lungo capitolo introduttivo al romanzo Il male viene dal Nord), sia per l'ambiente sociale culturale e geografico, in cui si svolge la drammatica vicenda del romanzo Gli sposi di via Rossetti, ricostruita dalla filigrana delle 372 lettere che il protagonista slavo e cattolico Stanko Vuk invia dal carcere di Fossano in Piemonte (dove è stato rinchiuso nella seconda guerra mondiale dai fascisti) alla sposa slava, atea e comunista Dani Tomazic. La tragica conclusione del romanzo getta una luce sinistra sul mondo sentimentale e psicologico dei due sposi, vittime dei dissidi politici che spingono i partigiani slavi a compiere il 10 marzo 1944 il truce delitto «in quella via Rossetti, allietata - aggiunge Maier - da alberi e da ville, che Saba aveva definito la via della gioia e dell'amore in una lirica famosa». Chiudono il panorama maieriano della letteratura triestina quattro articoli dedicati all'ultima attività narrativa di altrettanti scrittori giuliani contemporanei.

Del romanzo La caricatura (Genova, Lanterna, 1983) del fiumano Enrico Morovich, il critico sottolinea la tonalità antilirica, da cui traluce una profonda «impronta dolorosa, che contraddistingue la raffigurazione della vita dei giovani (Gianna, Silvia, Bernardo) tratteggiata dall'autore», il quale riscatta la voluta banalità della trama dipingendo a chiare tinte l'insoddisfazione di fondo dei personaggi, che li costringe a compiere talvolta gesti inconsulti o violenti, come quello di Gianna, campionessa di nuoto, che per un impulso di vendetta spinge in un precipizio la macchina di Bernardo, che ne aveva fatto la caricatura, urtandola con la sua.

Il romanzo Il richiamo di Alma (Milano, Adelphi, 1980) è una storia d'amore narrata, con topografica esattezza di linee, dal triestino Stelio Mattioni, che l'ambienta nel centro storico di Trieste (di cui è minuziosamente descritto il colle di San Giusto) trasposto «in un clima quasi stilnovistico»: il critico vi nota «soprattutto, o solamente, la storia dell'anima dell'io narrante» e ne sottolinea «l'atmosfera magica e stregata», che si acuisce nelle pagine finali del romanzo, quando Mattioni, prima di lasciare Trieste, rivisita, alcuni anni dopo la sua avventura amorosa con Alma, i luoghi della città dove ha incontrato l'amata e trova tutto cambiato, perché la banale prosa della vita ha sopraffatto la poesia d'un tempo, come sentiva Catullo rievocando nel carme XI, dopo il distacco da Lesbia, i «candidi soles» vissuti con lei nelle vie dell'antica Roma; opportunamente il critico ricollega il motivo del sogno e dell'irrazionale, che alligna in noi, dominante nel romanzo, non certo con la sofferta, ma incrollabile rassegnazione del poeta romano, bensì con la «sensibilità decadentistica e moderna» espressa del Pascoli nel protagonista del poema conviviale L'ultimo viaggio, cioè in Odisséo, che riprende il mare, dopo il ritorno a Itaca, ripercorrendo coi suoi vecchi compagni il suo avventuroso viaggio e «ritrovando in luogo dei mitici personaggi di un tempo - Circe, Polifemo, le Sirene - una realtà prosastica», come dice il pascoliano Odisséo («Il mio sogno non era altro che sogno; / e vento e fumo»). Nel romanzo Un'ipotesi per Barbara del triestino Manlio Cecovini, (ex sindaco di Trieste, eurodeputato e ora capogruppo comunale), riaffiora il tema dell'amore infelice narrato nell'ultimo romanzo da Stelio Mattioni; tuttavia qui il protagonista non è un anonimo giovane introverso e solitario, ma l'affermato «avvocato-divorzista» Ante Huber-Castaldo (alter ego dell'autore), la cui esistenza serenamente vissuta tra il lavoro e il riposo goduto nella sua villa fuori città (che egli, lettore appassionato di Slataper, considera «uno spazio di Carso intorno al suo corpo»), viene improvvisamente turbata dalla telefonata di una donna amata in gioventù, Barbara Prandi, che gli chiede l'assistenza nella causa di divorzio dal marito svizzero. Il ricordo dell'amore bruscamente concluso vent'anni prima, quando egli aveva rinunciato a Barbara in difesa della sua qualità di uomo libero e in reazione all'ordine absburgico impersonato dalla figura autoritaria del padre, provoca nel suo animo una salutare crisi di coscienza, da cui riaffiora il palpito dell'amore ingiustamente soffocato, ma un banale incidente aereo stronca la vita di Barbara lasciandogli trapelare solo l'ipotesi di amore e di felicità, che non si può realizzare: conclusione che «considerata - astrattamente - nota il critico - potrebbe apparire meccanica e artificiosa, invece è necessaria e coerente» in quanto ogni vicenda perfetta o ideale o poetica, suscitando «l'invidia degli dei» (come scriveva Erodoto) si dissolve nella prosa del mondo e rimane soltanto un'ipotesi; e del romanziere, il critico sottolinea con coerente sintesi l'intelligenza neoilluministica, «un'ironia... che ricupera espressionisticamente... un certo joycismo» e la scrittura analitica e ispirata da «un forte affiato morale che lo collega direttamente alla linea etica della letteratura triestina, dallo Slataper a Giani Stuparich».

Il libro Nostra Signora Morte del triestino Giorgio Voghera (Pordenone, «Studio Tesi», 1983) appare a Maier difficilmente definibile in sede critica, come gli altri lavori dello stesso autore, per l'intrecciarsi della componente narrativa e memorialistica e di quella saggistica. Non sfugge tuttavia al critico, attento interprete di tutta l'attività letteraria triestina, la radicalizzazione della pessimistica Weltanschauung avvenuta nell'autore, «agnostico e materialista» del saggio psicanalitico Gli anni della psicanalisi (Pordenone, «Studio Tesi», 1980), che dopo aver un tempo considerato la morte, sulla scia di Democrito, «la fine di ogni cosa in un mondo governato esclusivamente dal caso», ora vede in essa il risultato delle credule volontà di un essere superiore, che impone all'uomo, in vita e dopo la vita, un «pensare senza fine e senza riscatto». Questa incupita visione del mondo detta a Voghera «una pagina alta e solenne, permeata di quell'estrema lucidità che è peculiare del suo razionalismo, e insieme pervasa da un rattenuto, accorato palpito di commozione». Si tratta insomma - secondo Maier - di una contemplazione della morte risolta in una lezione di umanità, le cui radici affondano in «quel senso profondo dell'unità familiare che è tipico del mondo ebraico», cui appartiene Voghera, e in un «certo fatalismo proprio degli ebrei e della loro plurisecolare esperienza di dolori e di persecuzioni». Ma il romanzo assume anche una tensione drammatica, perché al tema filosofico della morte si intreccia quello, non meno importante, dell'amore per Bianca: un amore «nato sui banchi di scuola, ma destinato a durare, sempre unilateralmente, per tutta una vita». Il ricordo di Bianca ispira al protagonista il racconto di alcuni suggestivi sogni: da quello di una donna «molto, molto invecchiata...» a quello di una giovane «forse diciassettenne»; dopo il quale tuttavia «ci sarà il nulla» - aggiunge l'autore - e tale consapevolezza gli dà «una serenità che non ha mai provata». La conclusione del libro pare al critico coerente con la coscienza dell'autore che ripercorre, «nelle fredde sere ventose», «le strade deserte della sua città».

 


NOTE


1 Cfr. Poesia italiana del Novecento, a cura di Piero Gelli e Gina Lagorio, Garzanti, 1980, vol. I, pag. 358.

2 ivi, vol. II, pag. 545.

3 Claudio Magris, Illazione su una sciabola, Studio Tesi, 1986.

4 Claudio Magris, Danubio, Garzanti, 1986, pagine 439.

5 Ivi, pp. 143-144.

6 Ivi, pag. 53.

7 Ivi, pag. 152.

8 Ivi, pag. 225.

9 Ivi, pag. 431.

10 Bruno Maier, Dimensione Trieste, Istituto Propaganda Libraria, Milano, 1987, pag. 7.

11 Idem, La personalità e la poesia di Cecco Angiolieri, Bologna, 1947.

12 Idem, La poetica di Girolamo Fracastoro, Trieste, 1949.

13 Idem, Lettura critica del «Corinto» di Lorenzo de'Medici», Trieste, 1949.

14 Idem, Svolgimento storico della critica su Benvenuto Cellini scrittore, Trieste, 1950-1951, volumi 2.

15 Idem, Agnolo Poliziano, Milano, 1956.

16 Idem, Vittorio Alfieri, Milano, 1956.

17 Idem, Profilo della critica su Italo Svevo, Trieste, Edizioni dell'Università, 1951; Introduzione a Svevo, Milano, Dall'Oglio, 1959; La personalità e l'opera di I. Svevo, Milano, 1961; Motivi e caratteri dell'Epistolario di I. Svevo, Udine, 1967; I. Svevo, Milano, Mursia, 1980; I. Svevo, Edizione critica di «Una vita» (Studio Tesi, 1985), «La coscienza di Zeno» (ivi, 1985), «Senilità» (ivi, 1986).

18 Idem, Problemi ed esperienze di critica letteraria, Siena, 1950; La critica di Aurelio Bertola, Rimini-Bologna, 1953; Agnolo Poliziano e Lorenzo de'Medici nella storia della critica, Firenze, 1954; Alfieri, Storia e antologia della critica, Palermo, 1957.

19 Idem, Invito alla letteratura triestina, Trieste, 1958; La letteratura triestina del Novecento, Trieste, 1969; Saggi sulla letteratura triestina del Novecento, Trieste, 1972; A. Manzoni e la letteratura della Venezia Giulia, Firenze, 1976; Neoclassicismo, Storia e antologia della critica, Palermo, 1964; Antonio Gramsci, Introduzione e guida allo studio dell'opera gramsciana - Storia e antologia della critica - in collaborazione con Paolo Semanna, Firenze, 1978; La letteratura giuliana, Udine, 1979; Il realismo letterario di Lorenzo il Magnifico, Palermo, 1980; Iconografia sveviana, in collaborazione con Letizia Svevo Fonda Savio, Pordenone, 1981; Carlo Sgorlon, Firenze, 1985; «Nuovi saggi sulla letteratura triestina», Milano, 1987.

20 Idem, Il canto XXIV dell'Inferno, Firenze, 1965.

21 Idem, Il canto XXV del Purgatorio, Trieste, 1953.

22 Idem, I canti di Cacciaguida, Modena, 1986 e Agugliano, Ancona, 1987.

23 Il termine «stilistica storica» è stato usato da Emilio Bigi come sottotitolo del volume Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli, Ricciardi, 1954.

24 L'articolo «Scrittore triestino» di Pancrazi fu poi incluso col titolo «Giani Stuparich triestino» nella Ia edizione del volume Scrittori italiani del Novecento (Bari, Laterza, 1934) e poi, con notevoli mutamenti, nella «serie seconda» degli «Scrittori d'oggi» (ivi, 1946).

25 Domenico Bassetti, Sette lettere d'argomento municipale, Trieste, Stefani, 1944.

26 Cfr. Scipio Slataper in Scritti politici a cura di Giani Stuparich, Milano, 1954; la lettera, citata da B. Maier, è la quarta, intitolata «La vita dello spirito», pp. 44-46.

27 Cfr. Giani Stuparich Trieste nei miei ricordi, Milano, Garzanti, 1948, pag. 61 e Idem, Scipio Slataper, Milano, Mondadori, 1950, pp. 275-277.

28 Claudio Magris, Una storia si chiude in Dietro le parole, Milano, Garzanti, 1978, pp. 173-179; I luoghi della scrittura: Trieste, in Itaca e oltre, ivi, 1982, pp. 278-284 e, in collaborazione con Angelo Ara, in Trieste, Un'identità di frontiera, Torino, Einaudi, 1982.

29 Cfr. Silvio Benco, Cultura e letteratura a Trieste, «in L'illustrazione del medico», 1939, nr. 62, pag. 18.

30 Cfr. Pier A. Quarantotti Gambini, Un italiano sbagliato in «La Fiera Letteraria», 15 novembre 1964; l'intervista è stata poi ripubblicata nel volume Il poeta innamorato. Ricordi con introduzione e a cura di R. Scrivano, Pordenone, Studio Tesi, 1984, pp. 166 179.

31 Cfr. Norberto Bobbio, La filosofia del Decadentismo, Torino, Chiantore, 1944.

32 Cfr. voce «Decadentismo» in Dizionario critico, diretto da Vittore Branca, Torino, U.T.E.T., 1973.

33 Umberto Saba, «Scorciatoie e raccontini» in Prose, a cura di Linuccia Saba, prefazione di Guido Piovene, Milano, Mondadori, 1964, pag. 329.

34 La raccolta poetica Fora del semenà di Tino Gavardi, edita a Capodistria (Lonzar) nel 1912, è stata ripubblicata a cura di Bruno Maier, Comune di Trieste, nel 1950.

35 Cfr. Rino Alessi in Trieste viva. Fatti, Uomini; Pensieri; Roma, Casini, 1954, pp. 36-37.

36 Cfr. Pietro Pancrazi, «Giotti poeta triestino» in «Scrittori d'oggi», serie IV, Bari, Laterza, 1946, pag. 218.

37 La confessione di Italo Svevo è contenuta nel Profilo autobiografico da lui scritto nel 1928 per l'editore Giuseppe Monreale, che lo pubblicò postumo nel 1929 col titolo Italo Svevo scrittore. Svevo nella sua nobile vita, Milano, Monreale, 1929.

38 Umberto Saba, La spada d'amore, Lettere scelte 1902-1907, a cura di A. Marcovecchio, presentazione di Giovanni Giudici, Mondadori, 1983, pag. 175.

39 Ivi, pp. 287-288.

40 Bruno Maier, Dimensione Trieste, cit. pp. 110-111.

41 Cfr. Francesco De Sanctis, Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, introduzione di N. Sapegno, Torino, Einaudi, 1971, vol. I, pp. 301-311 e Saggio critico sul Petrarca, a cura di N. Gallo, introduzione di N. Sapegno, Torino, Einaudi, 1986, pp. 244-245.

42 La contesa tra Eschilo ed Euripide si conclude, com'è noto, con la vittoria del più antico e valente Eschilo: cfr. Aristofane, Rane, vv. 830-1413; scena della bilancia, vv. 1378-1413.

43 Umberto Saba, op. cit., pag. 199.

44 Umberto Saba, Prose a cura di Linuccia Saba, op.cit., pag. 568; e, prima del De Sanctis, già il Manzoni premeite il «sentir» al «meditar»enunciando il famoso decalogo estetico-morale nel Carme a Carlo Imbonati (vv. 207-215) e per primo Dante indica a Bonaggiunta da Lucca l'intima corrispondenza della parola al sentimento, cioè all'ispirazione, rivelandogli il principio fondamentale del «dolce stil novo» nel VI girone del Purgatorio (XXIV, 52-54).

45 Edizione a cura di Giani Stuparich con un'appendice di inediti e con un'avvertenza di A. Bocelli, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1968.

46 Pubblicato nel nr. di novembre-dicembre 1925 del periodico milanese «L'esame», IV, 1925, numeri XI XII pp. 804-813.

47 Edito in Prose, op.cit., pp. 751-752.

48 Ivi, pag. 758.

49 Sesta fuga, v. 207, da Preludio e fughe del 1929.

50 Il borgo, vv. 9-11 e 46-47, da «Cuor morituro» (1925-1930).

51 «Umberto Saba e Trieste» in B. Maier, Dimensione Trieste, op.cit., pag. 179.

52 Cfr. Prose, op.cit., pag. 819.

53 Da Autobiografia (1924).

54 Stampata a Udine nel 1916 dallo «Stabilimento tipografico friulano» e poi dallo stesso Serra a La Spezia, con prefazione di Benito Mussolini, nel 1923.

55 Cfr. Dimensione Trieste, op.cit., pag. 251.