IL CRISTALLO, 1996 XXXVIII 3 [stampa]

IN RICORDO DI KARL PLATTNER

di PIER LUIGI SIENA

Il 13 dicembre del 1986, a Malles Venosta, alle due del pomeriggio per una strada stretta e tortuosa, fra case mute e serrate, si muoveva lentamente e mestamente, il lungo corteo che accompagnava al cimitero la salma di Karl Plattner, morto tragicamente a Milano, la mattina dell'otto alle ore sette. Poco lontano da quel suo attonito paese, verde e bruno, aspro e forte, del quale aveva portato sempre le redici nel cuore, ci eravamo incontrati nell'agosto del 1951. Il 28 luglio di quell'anno, si era aperta a Cortina d'Ampezzo una mostra importante: il "Premio Parigi" che ebbe in seguito a Torino varie altre edizioni, prima di cessare e cadere dimenticata, come succede anche a pur lodevoli iniziative, travolte dal sopravvenire aggressivo di nuove attività che seguono, magari più dappresso, le mode culturali.

Fu proprio durante il pranzo offerto dall'organizzazione agli invitati, tra i quali grandi Maestri delle arti figurative come Ossip Zadkine, Jacques Villon, fratello di Marcell Duchamp e di Duchamp Villon, Campigli, Severini, ed alcuni giovani talenti in espansione, oggi Maestri pure loro: Franchina, Music, Signori, Corpora, che sfogliando il catalogo, mi accorsi come il pittore Karl Plattner, del quale avevo notato alcune opere in mostra, fosse di Malles: un sudtirolese, un corregionale.

Incuriosito ed interessato, volli anche vedere, nella hall dell'albergo Miramonti, l'affresco, citato fra le note del volumetto e da lui appena eseguito in collaborazione col pittore Leonardo Cremonini: per la verità non una gran cosa che, pur avendo un carattere preminentemente decorativo, conteneva elementi di composizione, proporzione e spazio, di notevole interesse. I suoi quadri, invece, con davano concessioni all'effetto: figurativi, di maniera post-cubista, erano forti e severi, fuori dalle "mode" correnti, ma non antiquati, anzi con una loro manifesta attualità: in ambienti metafisici, in atmosfere assorte, stavano immerse figure statiche, costruite con colori cupi usati in funzione del segno, dalle quali traspariva la forte personalità del loro autore che si intuiva di formazione e cultura nordica, filtrata ed arricchita da studi umanistici.

Tornato a Bolzano cercai di conoscere il pittore ed assieme ad un amico, dopo aver fissato un appuntamento, andai a trovarlo a Silandro, dove stava provvisoriamente in famiglia. Ci vedemmo a casa sua, in una cucina quasi buia e, venendo dall'esterno, stentai a percepire, nell'imbarazzo del momento, la sua ed altre presenze silenziose. Il discorso si avviò con difficoltà e fra gli astanti, come bloccati in uno spazio compatto, senza vuoti, notai una donna con le mani bianche, incrociate sul grembo, illuminate da un improvviso chiarore. Erano mani salde, secche e nodose, segnate da solchi e rilievi, percorse da fitte pieghe sottili: strumenti di lavoro deformati dalla fatica e dal gelo, di grande espressività, capaci di significative comunicazioni. Erano le mani di una donna ferma e severa, la madre del pittore: mani che poi, non senza emozione, ho visto riprodotte in tanti suoi quadri. Si parlò di Firenze, Milano, Venezia, Parigi, città dove Plattner aveva abitato, studiato, e naturalmente lavorato, di pittura realista ed astratta, di cubismo e postcubismo, dei grandi Maestri e dei suoi amici Cremonini e Francesconi. Stava per partire, era alla vigilia delle nozze con Marie-Jo Texier e del suo primo viaggio in Brasile. Con la compagna si preparava ad affrontare l'avventura di una permanenza a San Paolo, durata dal 1952 al 1954, fornito solo, oltre che del suo talento, di fiducia nella vita, nella gente e spinto da grandi interessi culturali e conoscitivi.

Mi sono reso conto, nel tempo, che Karl aveva un animo nomade ed ogni volta che si incontrava era in arrivo da qualche posto od in partenza per qualche altro. Le sue soste, in genere legate al lavoro, allo stesso tempo erano preparativi per nuovi trasferimenti. Ho sempre avuta la sensazione che uno spirito inquieto, di zingaro venostano, lo spingesse lontano dalla sua valle alla ricerca di se stesso ma anche a riscoprire, in ogni luogo, la conferma e la certezza delle proprie origini; per ascoltare meglio, riflettere di più, capire di più, il che in fondo è la stessa cosa.

Tutti naturalmente viviamo, o soffriamo, le nostre contraddizioni, ma dalle opere e dalla personalità di Plattner emergeva una ricorrente apprensione, il turbamento della ricerca, una coerenza travagliata a conferma dell'intimo, non negato, dubbio nei confronti di sicurezze e di verità conclamate. In certi periodi può essere prevalsa, in lui, una idea, un pensiero, un sentimento capace di spiazzarlo nei confronti di un soggetto naturale che avrebbe potuto essere reinventato attraverso la modificazione dei suoi dati oggettivi, ma è ugualmente difficile immaginare una sua tela od un suo disegno, dove paesaggio, scena, uomini ed animali non possano venire, nel loro insieme, ricondotti alla stessa unica matrice, in una parola, alla sua Weltanschauung. Il primo periodo brasiliano, chiusosi nell'autunno del 1954, lo vide esporre a Rio de Janeiro ed a San Paolo, ove subito ottenne rilevanti affermazioni impostando la sua pittura verso la rappresentazione di luoghi e figure: immagini silenti e stupefatte, spesso frustrate dalla loro introversione.


KARL PLATTNER - Buoi

Nella sua mente intanto stava maturando la grande opera che avrebbe, fra la fine di quell'anno e l'inizio del 1955, realizzato nella sala del Consiglio Provinciale di Bolzano, dove venne a risiedere in un appartamento di Gries. Ci incontravamo spesso, in quel periodo, e specialmente dopo l'ultimazione del grande affresco eseguito con trepidazione ed impegno estremo, tra contrasti ed incomprensioni, acuite anche dal suo comportamento libero, non condizionato e limitato dall'esasperarsi delle questioni locali, che egli pensava democraticamente risolvibili attraverso la comprensione ed il rispetto dei diritti reciproci delle popolazioni. Quel lavoro fu, per l'artista, pur preparato e maturo, una notevole esperienza.

La qualità della sua arte trasse, da quella prova, grandi vantaggi. La sua capacità di sintesi si era ancor più accentuata ed in questo senso, stava trascorrendo una stagione particolarmente felice, quando vari motivi, tra di essi la solita inclinazione per i mutamenti, lo indussero a ripartire nuovamente, nel 1957, per il Brasile dove forse lo attraevano i colori accesi del paesaggio, gli agglomerati urbani ai margini della giungla o del deserto, le piante tropicali, le grandi foreste, la gente di quel paese del potere o delle favelas.

La sera prima della partenza la trascorremmo insieme, cenando a casa mia. Arrivò tardi, con un piccolo quadro in mano e mi disse porgendomelo: «attenzione è fresco». Lo scoprii era il mio ritratto. Lo guardai a lungo in silenzio e con emozione ne tentai la lettura: notai la somiglianza, ma non solo e non tanto per i lineamenti conformi, gli occhi vicini l'uno all'altro, il naso segnato, gli orecchi grandi, l'osso frontale e la calvizie, ma per quella tristezza di fondo che dava del mio aspetto un'interpretazione ed una misura oltre che fisica, psicologica. La sua capacità introspettiva, il cogliere un dato che ritenevo avvertibile, questo vedermi scoperto, mi fece sentire quasi violato nell'intima essenza. Mi ripresi pensando alla forza dell'opera, sciolta, libera, senza trucchi, schiva ed essenziale, reale ed inventata allo stesso tempo; il suo primo ritratto, il mio. Ciò mi inorgogliva e mi commuoveva perché era anche segno di un vincolo, di un rapporto intellettuale preciso, di un momento nodale della nostra amicizia. Mi raccontò che era sorto da una macchia grigio-bruna, al centro di un foglio di pergamena sulla quale d'improvviso gli ero apparso: «disegnai allora gli occhi» — aggiunse — «e qualche altro particolare, il quadro era nato, era già costruito, si trattava solo di completarlo. Finitolo mi accorsi che mancava qualche cosa, lo capii subito, due macchie rosse intorno al collo a simboleggiare il fazzoletto della speranza». Non volli che me lo regalasse: mi chiese allora, a titolo di compenso, ventimila lire che non avevo in tasca. L'indomani partì e non sono certo di avergliele date in seguito.

Che Karl Plattner fosse uomo colto ed informato, emerge anche dalla sua pittura attenta sia la passato, sia al presente. Scrive Mario De Micheli che componente essenziale della sua espressività era

l'intera e complessa vicenda della cultura figurativa nordica, in particolare da Grünenwald ed Egger-Lienz, da Otto Dix a Egon Schiele, dall'espressionismo realistico all'espressionismo liberty

e certamente tutto ciò è vero, ma va tenuto conto che a supporto dell'esperienza dell'artista vi sono molti altri elementi ed implicazioni, scelte e rifiuti, come appare chiaro dalla nota che mi scrisse sul catalogo della IV Bienal do Museo de Arte Moderna realizzatasi nel 1957 a Säo Paulo. A quella mostra parteciparono importanti artisti di diverse tendenze, tra i quali gli italiani Morandi, Severini, Franchina, Guttuso e Reggiani, i francesi Rebeirolle, Ubac, Cesar e Le Corbusier, i tedeschi Albers, Feininger, Itten ed ancora Klee, Kandinsky, Chagall, Moholy-Nagy, Jackson Pollok, Kline, e su di essi Plattner esprime il giudizio sommario che qui di seguito trascrivo:

«Caro Pietro, questa Biennale è un disastro, estetico, plastico e morale. C'è Morandi e pochi che si salvano. La Biennale serve per rendersi conto di come non bisogna dipingere. Credo sempre meno ai moderni, invece cresce la mia ammirazione e rispetto per il '300 e il '400. Là ce n'è da imparare. Sarò a Bolzano in aprile '58. Ciao Karl.»

Naturalmente questo scritto non va preso alla lettera, ma da esso risulta ugualmente lampante che Plattner da "umanista impegnato" crede ancora di poter trarre dal filone classico motivi di certezza in quanto artista ed in quanto uomo, mentre è sicuro che dalle esperienze moderniste nulla avrebbe potuto ricavare in funzione di quanto si proponeva: l'appropriazione e la rappresentazione dell'ambiente di vita dell'individuo e dell'individuo medesimo con la sua presenza logorata e consunta. Egli non voleva, evidentemente, arrestarsi alla ricerca ed al ritrovamento di un segno anche inedito, raffinato e personale, ma riuscire a formulare un giudizio di rifiuto e di denuncia di una società alienata, in via di sempre maggiore massificazione, con l'approfondimento dell'indagine conoscitiva della equivocità di una situazione, svolta attraverso l'esame e la verifica dei propri dubbi e delle proprie certezze.

Al primo ritorno dal Brasile, Karl si istallò in una bella abitazione di Appiano, assieme allo scultore di origine italiana Bruno Giorgi, autore di opere monumentali a Brasilia, ed alla sua giovane moglie, che con voce calda e profonda cantava canzoni popolari del suo paese. Al secondo rientro nel 1958, si stabilì invece a Bolzano dove trovò casa e studio; molto spesso la mattina mi univo a lui per raggiungere il centro. Lo studio, all'ultimo piano di una nuova costruzione sita all'incrocio fra due vecchie strade, non era stato facile ottenerlo in affitto: «Pagherà, non pagherà la pigione questo pittore?» si chiedevano i proprietari che però ben presto non solo si rassicurarono, ma diventarono ammiratori di Karl per le sue qualità di uomo ed artista. In effetti stavano mutando i tempi nei confronti di Plattner e molti che lo avevano avversato in precedenza si erano ricreduti e si accostavano alle sue opere, senza soverchi sospetti, aprendo la borsa, un po'perplessi ed insospettiti dalla sua intransigenza, dalla sua fermezza, dalla sua irremovibilità. E così, come non era stato per il passato, fu motivo di vanto possedere un "Plattner" per la borghesia locale, che all'inizio degli anni '60 avendo risolto il problema della propria situazione economica, voleva affrancarsi in quello del prestigio.

Nello stesso studio, a visitare Plattner, portai anche il critico Raffaele De Grada che si era sempre battuto per il "realismo" con saggi, riviste, volumi e conferenze, un po' settario, un po' zdanovista, ma di grande cultura e sensibilità; egli si rese subito conto di avere davanti un artista di rilievo ed in seguito si impegnò molto nei suoi confronti, oltre che con gli scritti, procurandogli la mostra di Roma nel 1961 alla galleria "La Cappuccina". Da alcuni anni Gino Severini passava parte dell'estate in Alto Adige e Plattner ambiva conoscerlo. Sapeva di questo importante pittore, della sua partecipazione essenziale ai movimenti futuristi e cubisti e della funzione di collegamento da lui svolta tra la cultura francese moderna e quella italiana. A Parigi gli era stato indicato il grande vecchio, Paul Fort, principe dei poeti, padre di Jeanne, moglie di Gino: tutti personaggi che avevano creato la leggenda di quella città nei primi anni del secolo con Picasso e Modigliani, Braque e Matisse. Una sera lo accompagnai a Marlengo dove Severini soggiornava in un albergo che rispondeva alle sue modeste esigenze, due delle quali erano però inderogabili: una grande stanza con la luce per poter dipingere e l'ufficio postale vicino da raggiungere presto e senza troppa fatica. L'incontro fu subito amichevole e cordiale. Severini amava i giovani pittori, era prodigo di consigli e di insegnamenti, capiva la loro esigenza di essere "diversi" dai maestri che li avevano preceduti e dai quali avevano appena appresa la lezione di libertà nell'operare. Con arguzia ed ironia sottile raccontò della sua vita, delle sue frequentazioni, delle sue esperienze, dei tempi leggendari ed irripetibili di Montmartre e di Montpernasse, di Apollinaire e Marinetti, testimoni alle sue nozze, della Closerie des Lilas e del Lapin Agile dove si incontravano abitualmente Utrillo, Max Jacob, Dufy, la Valadon ed altri, musicisti, scrittori, poeti; del suo amore per il mestiere e del suo impegno costante per la sprovincializzazione dell'arte italiana. Testimone prezioso, innovatore di genio, Severini analizzò e ripensò per noi l'arte del suo e del nostro tempo con una lucidità ed una semplicità affascinanti. Prima di lasciarci partire volle vedere le cose che Plattner aveva portato con sé e ne fu subito interessato, tanto da accettare di buon grado di presentarlo sul catalogo della prossima mostra che Karl avrebbe tenuto a Parigi alla Galerie de Seine.

Complessivamente il suo soggiorno bolzanino, interrotto da una breve sosta a Parigi, durò poco: il tempo necessario per quel così coinvolgente lavoro, dedicato alla sua terra. Ma quel soggiorno, quel periodo, fu per lui determinante. Egli allora scelse e definì il suo indirizzo poetico per sempre.

L'orientamento, per un artista, in ogni tempo tanto difficile, era reso ulteriormente problematico, in quegli anni, dal presentarsi, concomitante e tumultuoso, tra le altre, di almeno tre tendenze principali che trovarono le proprie radici e motivazioni nella linea di sviluppo culturale, ma anche politico-sociale, del secolo e nei suoi vertici più rappresentativi. Una di esse, la non figurativa o "arte astratta", rifiutava ogni riferimento ad elementi veristici e qualsiasi richiamo a forme tratte dalle conoscenze esterne. La "figurazione" tendeva invece come ad un rispecchiamento della realtà oggettiva in modi che dovevano tenere presenti le esperienze dell"'avanguardia storica", fatte nell'anteguerra. Il terzo indirizzo, detto molto schematicamente, era quello dello "straniamento" e si realizzava in una pittura dagli aspetti diversi e persino contrapposti, richiamandosi, sia nella forma "astratta" che in quella "figurativa", alle condizioni di angoscia del singolo davanti al mondo moderno ed alla sua alienazione, derivate dalla posizione conflittuale, individuale e collettiva, nei confronti di un'umanità dominata dai "prodotti" e dai loro consumi.

Plattner, sostanzialmente, pur cogliendo suggerimenti da tutte le situazioni, non si adeguò ad alcuna di esse e trovò un suo spazio autonomo, in quella corrente che in seguito verrà definita della "nuova figurazione". Egli fonda la sua linea traendo sostentamento, come rilevato da De Micheli, da tante avventure del pensiero, ma avendo sempre presente quel filone classico che fu un motivo predominante della propria vicenda di uomo e di artista.

Il secondo soggiorno di Karl Plattner in Brasile terminò nel 1958 e da quella data fino al 1963/64 abitò quasi sempre a Bolzano o a Tourettes, in Francia; numerose furono le esposizioni di quel periodo: a San Marino, a Monaco, a Stoccarda, a Milano, a Roma ed in altri vari centri italiani e stranieri. Nel 1959 gli venne assegnato un premio a Bergamo, nel 1963 uno a Capo d'Orlando, in Sicilia; un altro a Palermo nel '64 e nello stesso anno ebbe il "Premio Suzzara" ed il "Città di Prato". In questo periodo eseguì anche importanti opere murali alla nuova Festspielhaus di Salisburgo ed alla Cappella Europa, appena oltre il passo del Brennero, sull'autostrada ma già in territorio austriaco,nelle quali è palese che egli non voleva arrestarsi alla ricerca di un segno, anche inedito, raffinato e personale, che pure aveva ottenuto, ma riuscire a formulare, soprattutto, un giudizio di rifiuto e di denuncia, con i mezzi della pittura, di una società, in via di sempre maggiore massificazione. Nel 1964 Plattner lascia le residenze precedenti e va ad abitare a Milano. In quell'anno partecipa a dodici mostre delle quali tre personali, vince altri tre premi ed inizia il grande pannello per le Assicurazioni Austria di Vienna "La giostra della vita". Anche gli anni che verranno saranno tutti di grande attività, si susseguiranno le esposizioni ed i premi in città e paesi diversi.

Paesaggi, figure, nudi che compongono una visione poetica ricca di mitiche suggestioni, di elevato valore espressivo, di grande tensione e di compressa sensualità, vengono realizzati con procedimenti tecnici molteplici e con una materia pittorica dagli effetti straordinari. La sua attenzione si concentrerà, da quel momento, anche sull'opera grafica. E dalle sue mani usciranno splendidi fogli (disegni, incisioni, litografie) realizzati con virtuosismo tecnico magistrale, densi di immagini a volte liriche, a volte tristi e violente, capaci di scuotere lo spettatore. Nel 1977 Bolzano gli dedicò una grande antologica in occasione della riapertura di Castel Mareccio. Nel frattempo la sua personalità era andata sempre più precisandosi; per vocazione e talento la sua opera non era che il riflesso della propria visione del mondo, determinata dalle sue idee, dalle sue concezioni sulla vita degli uomini e sulle loro relazioni. Nessuno e niente poteva smuoverlo e portarlo su una strada differente o verso un orientamento che da solo non avesse prima meditato e maturato.

Nell'analisi del rapporto tra le sue posizioni e quelle degli altri, prevalevano le proprie, essendo il frutto di scelte sofferte e profonde convinzioni, anche se delle altre teneva conto, non certo per assumerne i concetti opportunisticamente, ma piuttosto per banalizzarli, qualora non condivisi, combatterli, magari anche assorbirli, facendone però uso funzionale e strumentale ai propri fini.

Plattner, malgrado ciò, non era un ostinato, ma un uomo di forte carattere, di precise opinioni emergenti da dubbi profondi che aveva conquistato le sue posizioni con grande determinazione, impegno e fatiche, che esercitava con devozione e senza enfasi il suo mestiere di pittore, quindi per niente disposto a rinunciare facilmente a ben maturati principi, alle intuizioni e a piegarsi alle ragioni del mercato o delle correnti portate avanti da un critico o dall'altro. Orgoglioso, cosciente del proprio valore, ha dato a tutti molto, ma molto di più di quanto non abbia ricevuto.

La mostra di Castel Mareccio fu un grande successo, un consuntivo di 25-30 anni di attività, l'eccezionale occasione di riesaminare e riconsiderare, sia linguaggio che contenuti espressivi del suo travaglio intelletuale, non solo parzialmente, episodio per episodio, ma anche globalmente, complessivamente. Certamente è stato per l'artista estremamente emozionante, privilegio e smarrimento insieme, il poter vedere riunito tutto quanto, o quasi, aveva prodotto in lunghi anni di ininterrotta dedizione e poter anche riguardare le sue tele, una per una, con occhio benevolo, o critico, o commosso, essendo ognuna di esse legata ad un momento singolare della sua vita, ad un ricordo, ad una speranza, ad una dramma, ad un rancore, ad un attimo felice o triste, dell'esistenza.

Chiusa l'esposizione Plattner si trasferisce nuovamente, lascia Bolzano e lascia Milano, mette casa e studio a Parigi ed a Cipières, in Provenza, per tornare solo di rado a Burgusio od in città, in occasione di qualche avvenimento o per pura nostalgia. Il periodo parigino culmina con la grande esposizione di opere recenti, dell'aprile del 1981, alla Galleria Odermatt, presentata da Dora Vallier che rileva in esse la «proposta realistica post-astratta» e «l'affacciarsi della complessità implicita nel ritorno ad una figurazione della quale significato e significante sono il connotato«. Tutti problemi questi, da sempre nella mente, indagati nell'opera ed emergenti dalla ricerca costante, svolta dall'artista, di un'espressività non limitata a formule momentanee o ad improvvise stravaganze.

Plattner ritornerà definitivamente fra noi nel 1984, stanco e malato, la vita e la pittura che pur gli avevano dato tanto, gli erano diventate insopportabili. L'ultima sua mostra alla Galleria Goethe aveva fatto balenare speranze di ripresa e di una sua guarigione. Per la bellezza dei colori, la luminosità e la freschezza delle opere sembrò uscito definitivamente dalla malinconia che lo affliggeva: quadri come il "Palloncino Giallo", il "Grande paesaggio", il "Prato verde", "Le calze bianche" ed il "Panno rosso" sembravano aprirsi, se non all'ottimismo, almeno ad una certa fiducia, allontanando gli inquietanti fantasmi di un'angosciata visione espressionista svolta all'interno di ambienti razionalizzanti ed indifferenti.

Purtroppo non fu così: le attese andarono deluse. E noi ora siamo qui a ricordarlo. A ricordare la sua opera permeata da parossismo visionario: coacervo di vita, di morte, di erotismo represso. I personaggi in essa rappresentati, macerati nell'incomunicabilità, sono figure di una tragedia formata dalla vita, prigionieri di una situazione ineluttabile, ultimi brandelli corrosi di una civiltà che si spegne nello sfacelo: nei loro volti lividi ed impietriti sono trattenuti, descritti ed analizzati sentimenti di cupa, disillusa struggente solitudine e messe a nudo segrete ed intime piaghe oltre che complesse stratificazioni.

La coscienza di Plattner ha dominato le forme e gli aspetti artistici delle sue emozioni. Dal suo profondo sono venute alla luce opere delle quali si dovrà esaminare non solo la dimensione estetica, ma la loro posizione nella storia dell'arte.

Credo sia indispensabile, concludendo queste mie note, certamente inadeguate, a dieci anni dalla sua scomparsa, ricordare oltre all'artista ricco ed originale, libero e fantastico, l'uomo dolce e sensibile ma risoluto ed inflessibile, anche l'allarmato ed allarmante ammonimento che ci proviene dal suo straordinario lavoro, nutrito di pietà, capace di mettere in risalto, come ha scritto De Micheli, che se per un attimo noi ci fermassimo prendendo coscienza dell'assurdità alienante di quello che stiamo facendo, saremmo sopraffatti dallo spavento di noi stessi.