IL CRISTALLO, 2007 XLIX 3 [stampa]

LA BREVE MA INCISIVA PARABOLA D'IPPOLITO NIEVO

di CARMELO CICCIA

In soli trent'anni di vita (1831-1861) Ippolito Nievo produsse una gran quantità d'opere letterarie, dalla poesia alla narrativa e alla saggistica, in alcune delle quali si dimostrò un grande scrittore oscillante fra romanticismo e verismo; anzi, per essere più precisi, la temperie in cui visse il Nievo è quella del primo romanticismo, cioè quello patriottico, ma per alcuni aspetti egli anticipò il verismo. Il romanticismo è evidente negl'innamoramenti di persone, che spesso hanno implicazioni psicologiche, ma soprattutto nell'amor di patria (sentimento nazionale); il verismo, nelle descrizioni della vita contadina, nel desiderio di miglioramento delle condizioni economiche del popolo e nell'utilizzo delle tradizioni popolari a fine d'arte letteraria (usi, costumi, lingua, proverbi, ecc.).

Per questo, oltre che per la sua attività garibaldina e la sua strana morte, appare ingiusto che per lungo tempo egli poi sia caduto nell'oblio; e soltanto di recente c'è stato un risveglio d'interesse per lui, anzitutto grazie all'opera del suo pronipote Stanislao Nievo, valido scrittore anche lui, che fra l'altro ha avuto l'idea d'istituire i parchi letterari, primo dei quali proprio quello del suo prozio.

Anche la misteriosa morte d'Ippolito Nievo è oggetto d'indagine e contribuisce a creare un alone di leggenda. Si sa che lo scrittore nel 1861, cioè un anno dopo, fu rimandato da Garibaldi in Sicilia, a prelevare il tesoro dei garibaldini rimasto a Palermo e alcuni documenti. Il piroscafo che lo trasportava affondò inspiegabilmente sulla rotta Palermo-Napoli, probabilmente nella cosiddetta "fossa del Tirreno", nei pressi d'Ustica: fossa in cui si sono verificati altri affondamenti misteriosi, come quello recente d'un aereo di linea ivi precipitato dopo un'esplosione, oggetto di lunghe indagini giudiziarie. Nel caso del Nievo ora si comincia a sospettare che l'affondamento possa essere dovuto, oltre che al tesoro, ai documenti che lo scrittore-patriota portava con sé: documenti che avrebbero potuto essere compromettenti per qualcuno o qualcosa.

Ippolito Nievo nacque a Padova nel 1831, da un magistrato benestante e da una nobile veneziana. Trascorse l'infanzia fra Padova, Mantova e il castello di Colloredo, in Friuli, nei pressi di Fratta. Studiò nei ginnasi di Verona e Mantova. Nel 1848, in seguito alle Cinque Giornate di Milano s'arruolò nella guardia civica. L'anno successivo fu mandato all'università di Pisa, per iscriversi a quella, ma invece si recò a Livorno, dove c'erano dei moti popolari, e successivamente frequentò l'università di Pavia. Passato all'università di Padova, si laureò in legge nel 1855, ma esercitò per poco l'avvocatura, dopo aver pubblicato le prime opere. Intanto divenne amico intimo del patriota Arnaldo Fusinato; e, stando fra Padova e Colloredo, continuò a pubblicare opere in volume e sulla stampa periodica. Nacquero così il racconto La nostra famiglia di campagna, la novella lunga Il Varmo, il romanzo Il conte pecoraio, la raccolta di poesie Le lucciole, due tragedie inedite.

Nel 1859 raggiunse fortunosamente il Piemonte, dove s'arruolò fra i Cacciatori a cavallo di Garibaldi. Passato a Milano, scrisse il romanzo Il pescatore d'anime. Nel 1860 s'arruolò fra i Mille di Garibaldi e partì da Quarto per la Sicilia, dove combatté a Calatafimi e Palermo. Qui fu nominato colonnello e vice-intendente generale, tesoriere e amministratore della spedizione. Intanto scriveva il Diario della spedizione dei Mille e delle lettere poi intitolate Lettere garibaldine, mentre uscirono le sue poesie intitolate Amori garibaldini. Finita la spedizione, ritornò al Nord e a Milano lavorò intensamente alla compilazione d'altre opere, fra cui il grandioso romanzo che poi gli diede la fama.

Nel febbraio del 1861 ricevette l'ordine di recarsi a Palermo per prelevare soldi e documenti (anche contabili) da portare a Torino per una relazione. Eseguito l'ordine, il 4 marzo s'imbarcò sul piroscafo "Ercole" per fare ritorno a casa, ma nella notte successiva, in data 5 marzo 1861, il piroscafo affondò con tutti i passeggeri. Qualche mese dopo Garibaldi così espresse il suo cordoglio ai familiari: "Tra i miei compagni d'arme di Lombardia e dell'Italia meridionale, tra i più prodi, io lamento la perdita del colonnello Ippolito Nievo, risparmiato tante volte sui campi di battaglia dal piombo nemico, e morto naufrago nel Tirreno dopo la gloriosa campagna del '60".

Il grandioso romanzo che gli dette la fama uscì a Firenze nel 1867, dopo la sua morte, a cura d'Erminia Fuà, moglie del Fusinato, col titolo Confessioni d'un ottuagenario, anziché con quello che il Nievo aveva lasciato Confessioni di un Italiano; e ciò, perché non apparisse un'opera di propaganda politica.

Molteplici sono, dunque, i motivi per i quali Ippolito Nievo dev'essere ricordato e apprezzato. E, se la toponomastica italiana è stata generosa con lui, probabilmente in grazia del suo patriottismo, del suo eroismo e della sua prematura scomparsa, non trascurabile è la sua attività letteraria, con particolare riguardo alle Confessioni, che all'uscita hanno fatto epoca, quasi come la migliore opera dopo I promessi sposi del Manzoni, sulla cui scia da più d'un critico sono state collocate. E, nonostante alcuni difetti formali, questo romanzo dovrebbe avere più spazio anche nelle scuole, non soltanto per i frequenti riferimenti alla storia veneta, e veneziana in particolare, ma anche per il forte anelito d'italianità, esplicitamente mirante all'unità d'Italia.

Al riguardo basta leggere, oltre che qualche poesia in cui si manifesta la venerazione del Nievo per Garibaldi, anche la premessa del grandioso romanzo, in cui il protagonista esprime la speranza di morire italiano. Ma questo romanzo non è soltanto un quadro storico, bensì anche una descrizione psicologica e morale, a volte ironica e umoristica.

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Ippolito Nievo era affascinato dall'apostolato mazziniano; ed ebbe 1'occasione di dimostrare i suoi alti ideali patriottici e filantropici negli scritti e nella vita pratica, combattendo nella seconda guerra d'indipendenza e nella spedizione dei Mille e morendo annegato per l'Italia, al ritorno da una susseguente missione di pace.

Fra il 1855 e il 1856 uscirono in vari giornali alcuni suoi racconti e novelle che avrebbero dovuto costituire il suo progettato Novelliere campagnuolo, un'opera che poté essere realizzata soltanto postuma. C'è in questi racconti e novelle non solo un ritorno all'Arcadia, con 1'esaltazione della vita agreste, semplice e primitiva, ma anche un impegno sociale dell'autore che quasi ne fa un precursore dei veristi. In realtà il Nievo vive nell'atmosfera dei romantici, da cui assume anche 1'esigenza di valorizzare tutto ciò che è popolare. Ma questo lo spinge oltre, fino alla consapevolezza della questione contadina e sociale.

Nel racconto La nostra famiglia di campagna (1855) una rilassante e piacevole gita in campagna dà il pretesto per una sentita riflessione sulla condizione contadina: "Voglio rappresentarti, o ingenuo lettore, per ischizzi e profili, quella parte più pura dell'umana famiglia che vive nei campi, e per vivere intendo io lavorare in essi di braccia, non passeggiarvi in essi pei freschi della sera come tu per avventura costumi... Quando io t'abbia sincerato della cosa, e dimostratoti splendidamente quanto a te sovrastino per bontà d'animo e rettitudine di coscienza quelle genti che grida maestre di malizia, scioperate e imbestialite, allora non potrai più adagiarti all'ombra di simili calunnie lasciando le cose rovinare alla peggio per quei poveretti". Nel racconto si mettono in luce le prepotenze dei padroni; e qui il Nievo. Si differenzia da altri scrittori consimili dell'epoca, non limitandosi al folclore anche. con l'inserimento di termini dialettali per mero colore locale, ma andando al di là di questo aspetto puramente formale per costituire una coscienza politica e richiamare l'attenzione degl'intellettuali sulla realtà delle masse contadine.

Il Varmo, "novella paesana" di ben 75 pagine (1856), prende il titolo da un affluente del Tagliamento ed è la storia dell'idillio di due fanciulli sullo sfondo di una natura vergine e fiabesca. Essa comincia con un proemio di sapore manzoniano come "Quel ramo del lago di Como..."; e già a pag. 1 c'è un elogio del paesaggio della Marca Trevigiana ? pur essendo questa tanto distante dalla zona del Varmo? per le "negre arature di Oderzo" e "i colli pampinosi di Conegliano": e al riguardo è da ricordare che quest'ultima città è nota per il vino prosecco e per la scuola enologica, a fianco alla quale ha intitolato una via proprio a questo scrittore. La novella ha non soltanto quadretti paesaggistici incantevoli, in cui autore e lettore possono andare a rifugiarsi come in una nuova Arcadia, ma anche vita semplice e rude dei protagonisti, antichi mestieri, abiti caratteristici, tradizioni e costumanze, modi di dire locali. Tutto ciò potrebbe essere definito folclore, magari in consonanza con le novelle della scrittrice friulana Caterina Percoto (1812-1887). Ma, lungi dal folclore, nel cap. VII un certo ser Giorgio "affermava egli che quante campagne stanno sotto il sole, tutte sono per origine comunali, e perciò a stretto diritto divisibili un tanto per capo; anzi aspettava giorno per giorno non so da qual buon vento certi personaggi dalle gran barbe nere che doveano, per dirla con lui, affettare la torta". Proprio in quegli anni (1848) era uscito il Manifesto del Partito Comunista di Marx-Engels, cui evidentemente qui si fa riferimento. Di queste dottrine "affatto originali" che "sfriggolavano nel capo" a ser Giorgio si parla più volte verso la fine della novella, senza che appaia chiaramente la posizione del Nievo; anzi qui queste affermazioni potrebbero essere viste con ironia.

Il Nievo non aderì all'idea della lotta di classe: il suo fu piuttosto un populismo simile a quello di certi scrittori russi della seconda metà dell'Ottocento. Egli notò la frattura fra borghesi e contadini e perciò assegnava agl'intellettuali il compito di educare e istruire, ma anche di risolvere la questione sociale eliminando le disparità economiche. Per capire ciò basta leggere qualche brano del suo Frammento sulla rivoluzione nazionale, scritto probabilmente nel 1860-1861, cioè dopo l'esperienza siciliana (campagna garibaldina, questione contadina, fatti di Bronte...): "Prima di istruire, prima di educare, bisogna procurare quell'assetto di vita comoda, indipendente, dignitosa, che rende possibili educazione e istruzione… In una parola, fate degli uomini fisici e morali con una saggia economia, fatene degli esseri uguali a voi, colle leggi, coi codici, coi costumi, prima di far dei saccenti e dei fratelli colle chiacchiere…"

Dunque, è dei borghesi-intellettuali la responsabilità delle disparità sociali, del perpetuarsi dello stato di sottosviluppo del proletariato. E contro questo sottosviluppo il Nievo insorge, non predicando la lotta di classe, ma ispirandosi a principi di riformismo liberale sull'onda dell'azione di Giuseppe Mazzini che nel riscatto della patria (unità e indipendenza) vedeva il riscatto del proletariato e la sua elevazione alla dignità umana e sociale. Così anche per il Nievo rivoluzione nazionale è tutt'uno con rivoluzione economico-sociale. Perciò il Nievo è vicino alle aspirazioni dei rivoltosi di Bronte della novella Libertà del Verga, per i quali Garibaldi e liberazione dai Borboni avrebbero dovuto significare liberazione dal bisogno economico, riforma agraria, suddivisione e distribuzione delle terre ai poveri.

Questa posizione del Nievo è documentata anche in alcune lettere e nel suo diario, e rivela un'innata simpatia verso il popolo, intesa come condivisione di sorte. Essa è riscontrabile in altre sue opere.

In Studi sulla poesia popolare e civile massimamente in Italia (1854) il Nievo sostiene che la letteratura deve rifarsi al popolo, con un linguaggio che tenga conto delle peculiarità regionali. "La lingua italiana sta come un gran serbatoio in cui di secolo in secolo si vanno depositando gli elementi più puri di ben dieci vocabolari… Le frasi dialettali tendono a passare dall'uso provinciale al generale, sia per la crescente uniformità delle opinioni italiane, sia per naturale attitudine d'ogni segno che vesta acconciamente il concetto." Dunque qui il Nievo rifiuta la teoria manzoniana dell'unitarietà linguistica, preferendo piuttosto una lingua nazionale variegata, con 1'apporto dei singoli dialetti; ed egli stesso frequentemente scrisse in un italiano farcito di espressioni tipiche della sua regione, vicino al Verga anche sotto questo punto di vista, pur seguendo a volte il modello manzoniano.

Infine anche nel romanzo Il conte pecoraio (1857) vi sono espressioni di simpatia per gli umili: si esaltano la sapiente umiltà ed il sentimento di fiducia come fattori di futura concordia e ragione civile; e nel bozzetto Il pescatore d'anime (1859) lo scrittore torna sul riscatto delle plebi.

Come si vede, questo aspetto del Nievo è meritevole di approfondimento, anche per collocare lo sfortunato scrittore in una giusta posizione di rilievo nell'asse Manzoni-Verga letterariamente parlando e in quello Mazzini-Pisacane politicamente parlando.

Dunque, Ippolito Nievo diede un fulgido esempio d'italianità nella teoria (scritti) e nella pratica (gesta). Nato padovano, volle vivere e morire "italiano". L'italianità del Nievo anticipa in un certo senso quel concetto che oggi hanno della patria le persone che ben ragionano: accanto alla piccola patria che ci ha visti nascere esiste una grande patria che si chiama Italia. Insomma, il Veneto-Friuli strettamente legato all'ltalia. Perciò egli, esaltando con grande amore la sua piccola patria (luoghi, storia, lingua, costumi), seppe esaltare con altrettanto amore la grande patria italiana fino al sacrificio personale. Basti pensare che concepì la parola come mezzo di diffusione delle nuove idee di patriottismo, di riscatto, di civiltà.

Già il titolo stesso del capolavoro del Nievo ci richiama questo concetto di patria. E, se per la paura che il libro potesse apparire come opera di propaganda politica la curatrice Erminia Fuà Fusinato e l'editore Le Monnier nel 1867 lo pubblicarono come Le confessioni di un ottuagenario (titolo ben familiare nella nostra giovinezza, il quale figura al n° 260 nell'opera-catalogo di Adriano Andreani per l'editore Le Monnier intitolata I libri che hanno fatto l'Italia, edita nel 1994), giustamente dopo alcuni anni è stato ripristinato il titolo di Le confessioni di un Italiano che, oltre ad essere quello originario dato dal Nievo, rispecchia esattamente il contenuto del libro. Questo in effetti, oltre ad essere un libro di memorie, un intreccio di vicende e sentimenti personali, di scorci paesaggistici, usi e costumi, è anche un grandioso mosaico di un secolo di storia italiana, dalla metà del '700 alla metà dell''800, dal nord al sud della penisola, comprese le cospirazioni e le guerre d'indipendenza.

Il protagonista, partecipando alle lotte per la repubblica partenopea del 1799 e ai moti napoletani del 1821, conosce prima la prigionia dei sanfedisti e poi l'esilio a Londra, città dove c'erano altri esuli italiani, compreso il Mazzini che il Nievo ammirava e che vi arrivò nel 1837. E dopo la morte della Pisana la storia dell'ottuagenario Carlino Altoviti continua insieme con quella dei suoi figli e delle vicende italiane.

Significativo d'italianità, e molto importante, è ciò che il protagonista dichiara nella premessa del romanzo: "Io nacqui veneziano […] e morrò per la grazia di Dio italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo".

Le confessioni di un Italiano sono un romanzo-fiume, a volte dispersivo e stancante; ma, a parte la bellezza di certi personaggi ed episodi, hanno un grande respiro: il Nievo sa cogliere l'essenza dell'italianità, quell'anelito profondo che fa riconoscere come connazionali meridionali e settentrionali e come propria terra qualsiasi lembo d'Italia. C'è quindi anche in quest'opera quell'idea di nazione così cara al Mazzini, anche lui definitosi fra l'altro semplicemente "Un Italiano". E questa è un'altra riprova del forte legame Nievo-Mazzini.