IL CRISTALLO, 1985 XXVII 3 [stampa]

FEDERICO STEINHAUS, La terra contesa, Carucci Editore - Roma.

recensione di CARLO LAZZARINI

L'attenzione per le vicende politiche dei nostri giorni è guidata in modo preponderante da un'informazione quotidiana preoccupata di inseguire l'attualità, senza concedersi soste, intesa più che a registrare ciò che accade, come ci si aspetterebbe da una cronaca, addirittura a preconizzare il futuro, decifrare le intenzioni dei protagonisti, prevedere quanto potrà accadere domani. «Si dice che...», secondo fonti autorevoli...», «avrebbe dichiarato che...», «corre voce in ambienti di solito bene informati...», sono le formule ricorrenti che fan da supporto alla notizia e la mettono al riparo da ogni smentita dei fatti. Quest'attenzione per l'effimero nelle sue prospettive verso il domani cancella la memoria del passato, anche quello più recente, e rende difficile un giudizio che sappia controllare l'emozione della notizia dell'ultimo momento.

In una situazione siffatta si accolgono con immediata simpatia opere come «La terra contesa» di Federico Steinhaus (Carucci editore - Roma) che, per parlare di un problema di viva attualità come quello del Medio Oriente, focalizzato nel suo aspetto più scottante -, lo scontro quotidiano fra palestinesi e israeliani - sente naturale il bisogno di andare a ricercarne le radici nel più vasto quadro dei due nazionalismi - quello arabo e quello ebreo - ripercorrendone la storia recente, per ordinare gli avvenimenti in una successione sinottica che può rendere più agevole la comprensione di quanto accade quotidianamente. Quest'impegno culturale di decifrare il presente nella prospettiva del passato non si esaurisce nella diligente raccolta di tutto il materiale, specialmente di «diplomatica», che può gettare luce sugli avvenimenti remoti e recenti, ma si esplica ancor di più nel piglio autenticamente storiografico col quale è affrontata la materia. Nel narrare le vicende dei due nazionalismi, quello ebreo e quello arabo, e poi del loro scontro sempre più drammatico e impietoso, l'autore palesa chiaramente il suo impegno politico a favore dell'uno contro l'altro, ma al tempo stesso non trascura occasione - e questa è la rara virtù dello storico - per cercare di capire le buone ragioni dell'altro, i condizionamenti esterni di cui non è responsabile e che lo fanno essere quello che è, il dramma che lo coinvolge. Non si tratta del vecchio espediente retorico di esaltare l'avversario per poi accrescere i meriti della propria parte, né dell'atteggiamento distaccato, e non di rado ipocrita, di chi si pone au-dessus de la mêlée, ma dell'obbedienza alle regole della conoscenza storica che impongono di rimettere sempre in discussione le certezze raggiunte confrontandole con tutto ciò che le mette in forse, di diffidare delle divisioni manichee, di riferirsi alla natura umana nel suo impasto di verità ed errore, di giustizia ed iniquità, di ragione e di torto.

L'autore si rende ben conto delle difficoltà insite in un progetto di questo genere. «Non è certamente agevole», dichiara nella prima pagina «esaminare ed analizzare avvenimenti di un recentissimo passato, che ancor oggi sono oggetto di aspre controversie e turbano la pace del mondo, ponendosi al di sopra di essi con quella serenità ed obiettività che presuppongono una assenza di passioni, di umane simpatie ed antipatie, che solo lo studio di fatti a noi lontani ed estranei può consentire». Il rischio di provocare lo scontento e la protesta dei politici da un lato e degli storici dall'altro è continuamente in agguato in un'opera che vuoi collocarsi tra la pubblicistica e la ricerca, ma val la pena affrontarlo perché è urgente tentare, per quanto è possibile, un'esposizione dei fatti «che riesca a bilanciare l'uso e l'abuso delle moderne tecniche di propaganda e di persuasione, che esasperano lo stato di tensione coinvolgendovi l'opinione pubblica mondiale, dopo averle imbottito il cervello di tesi prefabbricate o comunque faziose...».

Il libro vuole insomma essere una denuncia «della detestabile abitudine a presentare solamente quella parte dei fatti che fa comodo alle proprie tesi, ed una affermazione di fiducia nelle capacità di discernimento critico del lettore.»; ed a lettura finita si può dire che l'intento è in gran parte raggiunto.

Per questo non rende certo un buon servizio all'opera la prefazione di Giovanni Spadolini, che sottolinea calorosamente l'aspetto politico dell'opera presentandola come una sorta di apologia del sionismo e mettendone in ombra i meriti storiografici. «Una cosa è certa» - è detto nella prefazione - «come l'Europa anche il Medio Oriente ha avuto il suo Risorgimento, con un particolare parallelismo tra storia italiana e storia ebraica». «Il sionismo sta al risorgimento nazionale ebraico così come il mazzinianesimo sta al risorgimento nazionale italiano». «Il sogno della Gerusalemme ebraica ripete i ritmi e le cadenze della terza Roma di Mazzini». E così via di questo passo. Di fronte a questi accostamenti un po' disinvolti il lettore interessato a quanto promette il sottotitolo «Storia dei nazionalismi arabo ed ebraico», memore anche delle recenti diatribe parlamentari, potrebbe avere la tentazione di rimettere il libro nello scaffale della libreria e non andare più avanti nella lettura.

Per fortuna il libro segue ben altra via che i paralleli propri del repertorio dell'eloquenza politica. Specialmente tutta la prima parte, là dove prendendo le mosse dalla fine dell'Ottocento è analizzato il nascere dell'idea di nazione nel mondo arabo e, di pari passo, tra gli ebrei sparsi nel mondo, l'analisi è singolarmente lucida proprio nel rilevarne le peculiarità del tutto originali. Il mondo arabo si sveglia dal suo fatalismo inerte più che per suggestioni culturali europee, per il disgregarsi e poi il dissolversi catastrofico dell'impero ottomano e per le sollecitazioni degli imperi coloniali, che vi speculano sopra. Il mondo ebraico passa col sionismo dall'idea mitica della patria biblica «sì bella e perduta» al progetto di una patria reale, muovendo da una situazione che non ha confronto altrove: dispersione e polverizzazione del popolo, mancanza di un territorio, ostilità, o almeno indifferenza, della sua media ed alta borghesia, quei ceti cioè che altrove sono i protagonisti del «risorgimento». Il sionismo, sottolinea l'autore, «in cui impropriamente si vede una forma di nazionalismo non dissimile da quante altre costellarono l'Ottocento europeo» (pag. 22) fu «una vera e propria rivoluzione nazionale profondamente dissimile da ogni altra rivendicazione nazionalista del tempo» (pag. 25); e lo stesso giudizio è implicitamente espresso anche per il movimento nazionale degli arabi. Due nazionalismi che hanno in comune le loro anomalie, il loro nascere quando in Europa il nazionalismo è al tramonto, il loro dibattersi entro le trame delle potenze imperiali, che anche quando li sostengono li giuocano per i loro interessi, e che pur sono destinati ad affrontarsi in uno scontro durissimo non ancora esaurito. Il dramma è nelle cose stesse e la narrazione lo evidenzia efficacemente.

Certo, a mano a mano che ci si avvicina ai nostri tempi la narrazione diventa più faticosa e meno persuasiva. Non è tanto che con l'approssimarsi dell'attualità l'autore ceda alla tentazione di far più politica che storia - il che, dato il carattere dell'opera, sarebbe anche comprensibile -, quanto piuttosto che l'affollarsi degli avvenimenti non ancora decantati dal tempo e lo scrupolo di registrarli minuziosamente finisce con l'appesantire il discorso e render difficile la riflessione del lettore. In certi momenti si sentirebbe il bisogno di veder relegato in abbondanti note tutto quanto è non essenziale - almeno per il giudizio del momento - così da poter cogliere con immediatezza il senso globale degli avvenimenti.

Nella Premessa l'autore afferma «per doverosa lealtà nei confronti del lettore» , «che una narrazione di fatti storici, per quanto si prefigga di essere «onesta», non potrà prescindere del tutto dalla concezione del mondo, dalla impostazione mentale di chi scrive»; ed a lettura finita si può dire che questa impostazione mentale risulta da ogni capitolo. L'autore parte sempre dal presupposto (questo sì potremmo dire «risorgimentale», anzi romantico-idealista) che i valori impliciti in un popolo non possono esplicarsi se non con la realizzazione di uno Stato nazionale, che un popolo che non ha un suo territorio ed un suo governo non è un popolo, ma «un volgo disperso che nome non ha»; e associa a questa fede nello «stato-nazione la convinzione di colore storico-materialista della parallela (se non prioritaria) urgenza, perché un popolo esista, di una crescita materiale e morale delle grandi masse. Riscatto sociale e libertà politica: le due linee direttive si sovrappongono nel pensiero dell'autore senza generare problemi, come perfettamente compatibili per una loro intrinseca dialettica. Del resto, che l'autore creda nel pregio assoluto dello Stato nazionale è suggerito dallo stesso sottotitolo «Storia dei nazionalismi arabo ed ebraico» dove il termine «nazionalismo», come ogni pagina dell'opera conferma, è usato in senso del tutto positivo, senza quel sospetto che affiora di sovente nel dibattito storico-politico, dei rischi di un piano inclinato in cui il patriottismo liberatorio delle origini si irrigidisce in nazionalismo esclusivista per poi enfatizzarsi in forme di imperialismo, al quale non di rado non sono estranee venature di razzismo.

Si potrà anche non convenire con questa prospettiva, ma si dovrà poi comunque constatare che a tutta l'opera non fa che da cornice, senza stravolgere quell'impegno storico di capire, costi quel che costi, quanto è accaduto e accade, che ci è parso dover segnalare come il maggior pregio del volume.