IL CRISTALLO, 2009 LI 1 [stampa]

RICORDO DI CARLO BETOCCHI

di ELIO ANDRIUOLI

Tra i poeti italiani del Novecento un posto d'onore spetta a Carlo Betocchi (1899-1986), per la fresca limpidità del suo canto, sempre vivo, nonostante il trascorrere degli anni, e sempre nuovo. Ciò che maggiormente lo caratterizza è un'intima religiosità, che lo pone tra i maggiori lirici italiani d'ispirazione cattolica del ventesimo secolo, accanto a Clemente Rebora e a David Maria Turoldo.

Poeta della cristiana letizia e della serena gioia di vivere ("Se ci ripenso, credo proprio di essere nato ai miei esercizi di poesia per le vie dell'allegrezza", egli dice nel Diario della poesia e della rima), pur non ignaro della pena che nei giorni affatica ogni creatura, Carlo Betocchi si è riempito gli occhi dei colori del mondo, con una freschezza e una naturalezza che ancora rimangono intatte dopo oltre settant'anni da quando (nel 1932) apparvero le sue prime poesie di Realtà vince il sogno.

Benché appartenga al gruppo degli scrittori che operarono sulla rivista fiorentina "Frontespizio", alla quale collaborarono i maggiori ermetici, come Luzi, Bigongiari, Parronchi, ecc., egli tuttavia presenta una sua schietta comunicatività, un'ansia di canto e un indubbio legame con la tradizione che trascendono l'ermetismo, proprio dell'ambiente in cui visse, e che lo fanno piuttosto apparire inserito nell'altro versante della nostra poesia novecentesca: quello di Cardarelli, Saba, Penna, Valeri, Bertolucci e dello stesso Caproni ("Quella suprema eleganza della poesia del secolo / la mia natura biblica / ... / non l'ha potuta adottare" scrive Betocchi in una poesia, L'età maggiore, contenuta nelle Poesie del sabato, con ciò situandosi al di fuori dell'ermetismo dominante al suo tempo).

Se è vero che subito in Betocchi si nota una tensione della parola poetica e una lucidità intellettuale che lo rendono modernissimo, pur tuttavia è evidente che le sue reali ascendenze stanno, specie per la prosodia e la metrica di cui si giova, piuttosto che nelle poetiche del Novecento in certe esperienze settecentesche e pariniane, per giungere poi via via sino al Pascoli e a Rebora.

Certo il Simbolismo egli lo ha attraversato e non ha potuto ignorarlo (e lo si nota per taluni lampeggiamenti e per taluni scorci verbali della sua poesia), tuttavia la sua anima di poeta è altrove, lontana dall'oscurità e dall'ambiguità dell'allusione, tutta volta alla chiarezza e alla solarità dell'evidenza, pur essendo mai dimentica di un'alta sapienza formale.

Basti leggere a tale proposito alcune delle sue più note e memorabili liriche di Realtà vince il sogno: Dall'ombra; Musici, giocolieri, bambini, gioia; Se marzeggia, aprileggia;, Piazza dei fanciulli a sera, che sempre ci vengono incontro con l'immutato incanto della loro primizia e la forza trascinante di una freschezza che il tempo non intacca.

Le raccolte che vennero poi confermarono questa linea, anche se sempre più frequentemente le rime cedettero il posto alle assonanze, sino a perdersi del tutto in Diarietto invecchiando; Un passo, un altro passo; Ultimissime, dove prese l'avvento un verso dall'andamento discorsivo, ma caratterizzato da un tono alto ed estremamente arduo per la forza del dire, che procede tra meditazioni assorte e lacerazioni dell'animo, tra profonde intuizioni psicologiche e confessioni senza riserve, in un continuo accavallarsi di enjambements e di veloci scorci verbali, particolarmente efficace nelle poesie della vecchiaia e in quelle del dolore e della sventura.

Qua e là riaffiora la rima nelle Poesie del sabato, per ritornare in primo piano nelle Poesie disperse, con le quali il libro di tutte le poesie di Carlo Betocchi si chiude.

 

Carlo Betocchi fu un poeta dotato di un profondo amore per la natura, di cui cantò in maniera incomparabile le meraviglie, non dimenticando però le sofferenze degli umili, in particolar modo di quelli più diseredati e privi di speranza, senza tuttavia mai cadere nel lezioso e nella vuota retorica, bensì con estrema misura e buon gusto. Si vedano, ad esempio, La serva; Canto d'una rammendatrice; La Pasqua dei poveri, ecc.

Altamente pensoso sul destino che ci è riservato, Betocchi raggiunge vertici altissimi di tensione lirica (come in: Antichi tetti; L'azzurro; Rovine 1945; E ne dondola il ramo; Alla chiesa di Frosinone; Un passo, un altro passo; Da più oscure latebre; Il vecchio: stravaganze, sventura, destino, ecc.) con la massima semplicità di mezzi espressivi, proprio perché la poesia nasce in lui da un effettivo moto interiore, da una reale commozione dell'animo e non a freddo, secondo precostituiti programmi e come frutto di mero tecnicismo.

Si rileggano alcuni versi dalle poesie succitate nei quali la sua parola sembra farsi più aerea ed acquistare maggior forza espressiva, così da parlarci in maniera non effimera: "... Guardarsi dentro, e non saper che vada // di noi, per quel guardarsi, mutamente, / fattosi eterno; e quivi / restar tra noi, com'ombre, appena vivi / di un po' di vento, alle inquietate stelle" (da Antichi tetti); "Noi non abbiamo che mura, / per ascendere, e gronde di tetti / per limitare, dalla oscura / linea fitta di bocche d'embrici: // perciò requie chiediamo all'azzurro..." (da L'azzurro); "Il tuo orologio suona ogni quarto, / ogni quarto ricorda: - il tempo passa; / ogni quarto con tocchi argentini / e l'ore con cupi tocchi. E sembra // che siamo soli noi due, io e il tempo. / E sembra non ci sia carità; che il mondo / sia un'arida clessidra, e noi come sabbia / che, dentro, vi scivoliamo..." (da Alla chiesa di Frosinone), ecc.

Umiltà e grandezza delle piccole cose di tutti i giorni, nobiltà in Cristo della povertà, accettata pazientemente e vissuta con dignità e senza acrimonia; severa serietà del lavoro, compiuto come un dovere e come mezzo di redenzione e di santità: sono questi alcuni motivi che si ricavano dalle poesie di Carlo Betocchi e che specialmente le contraddistinguono. Si può dire pertanto che quella di Betocchi è una poesia intimamente cristiana, benché sia necessario tener presente che il suo è un cristianesimo mai oleografico, ma sofferto e intimamente combattuto, per il quale il sacrificium intellectus avviene non senza lacerazioni e interni dissidi, come è evidente specie nell'ultima parte della sua produzione, anche se poi è la fede che prevale. (Si legga a questo proposito la più drammatica delle poesie succitate, che è poi un vero e proprio poemetto: Il vecchio: stravaganze, sventura, destino).

Né è da omettere, parlando di questo poeta, un'osservazione, e cioè che in un secolo in cui si è particolarmente avvertito il fastidio del sentimentalismo, cioè la sdolcinata effusione del sentimento, Carlo Betocchi ha saputo invece esprimere in poesia dei forti sentimenti in maniera asciutta e sobria, così da raggiungere, pur essendo dotato di un'acuta sensibilità e di un profondo senso di umanità, elevati livelli d'arte, come può rilevarsi dall'intera sua opera.

 

Di Carlo Betocchi si sono occupati in molti, tra i quali Giorgio Caproni, che ne "La Fiera Letteraria" del 25 aprile 1953 riconobbe in Betocchi una "ferma e concreta e terrestre parola" e "un cristianesimo profondamente sentito (romanicamente più che romanticamente sentito)"; Carlo Bo, che nell'introduzione a Prime e ultimissime ebbe a rilevare "un sentire pieno e libero"; Mario Luzi, il quale in "Antologia Viesseux" n. 1-2 del 1981, mise a fuoco la "corrispondenza di allegria e di umiltà" e l'"esuberanza d'amore" in Betocchi; Luigi Baldacci, che nella sua introduzione a Tutte le poesie di Betocchi, parlò di "un rapporto strettissimo tra i registri del visivo e del visionario" in questo poeta, ecc.

A noi pare tuttavia siano da tenersi massimamente presenti le parole di Giovanni Raboni il quale, nella sua prefazione al suddetto volume, dopo aver messo in luce la "schiettezza" e il "realismo estatico-visionario" di Carlo Betocchi, conclude affermando: "... questa poesia grandissima è ancora largamente da scoprire; il posto che, mediamente, le viene assegnato nella gerarchia del Novecento italiano non corrisponde in nessun modo al suo valore"; il che viene a coincidere con quanto detto a sua volta da Luigi Baldacci nell'introduzione surricordata al libro del 1984: "c'è un anti-Novecento che, per troppo tempo, una storiografia di comodo ha cercato di mettere tra parentesi" e "sempre più si fa strada il sospetto, per divenire certezza, che questo anti-Novecento non sia affatto un Novecento minore".

Sono, queste, affermazioni che a noi sembra siano pienamente da condividersi da parte di chiunque abbia una consuetudine non superficiale con la poesia del secolo scorso in Italia.