IL CRISTALLO, 2009 LI 2-3 [stampa]

RECUPERO DI A. PIZZUTO: SUL PONTE DI AVIGNONE

di FRANCO ZANGRILLI

Nonostante Antonio Pizzuto (Palermo 1983 – Roma 1976) abbia fatto carriera nel mondo della Polizia che si conclude nel 1949 con il grado di questore, nell’arco della sua vita ha sempre coltivato la passione per l’arte dello scrivere.

Dagli ultimi anni del Novecento ai nostri giorni si sta assistendo a una riscoperta delle sue opere che lo rendono uno degli scrittori più originali della letteratura contemporanea. Il revival è animato dalla pubblicazione degli inediti, dai romanzi giovanili (Rapin e Rapier, 1998; Così, 1998) ai racconti raccolti in Narrare (1999), dei carteggi con illustri personaggi ed amici di cultura del suo tempo (Gianfranco Contini, Giovanni Nencioni, Lucio Piccoli, ecc.), dei testi che accolgono cose varie, delle nuove edizioni e della ristampa di quasi tutti i suoi romanzi.

Sul ponte di Avignone è un suo romanzo che le Edizioni Polistampa di Firenze ristampa due volte, nel 2004 e nel 2008. Scritto nell'arco di cinque anni, dal 1931 al 1936, Pizzuto per la prima volta lo pubblica, a sue spese, nel 1938 presso le edizioni Ardita di Roma, con lo pseudonimo Heis, e oltre a non vendersi, passa del tutto inosservato dalla critica; invece suscita attenzione quando nel 1985 appare la prima ristampa nella collana "Scrittori italiani e stranieri" della Mondadori, anche per l'immagine dell'autore ormai ben noto, seguito maggiormente da un pubblico elitario di lettori e ammirato da illustri critici: Jacobbi, Bo, Baldacci, Segre, Pedullà, ecc.

Si tratta di un romanzo che l'autore considera un "grassone zibaldone" (p. 268), forse perché è fitto di elementi autobiografici, diaristici, confessionali, di esperienze e situazioni personali che si presentano attraverso un ricordo vivo o una memoria capace di dilatarsi su dimensioni oniriche. È composto di quattro "quaderni"(-capitoli) che ad eccezione del primo sono molto lunghi. Si ambienta in due città che si potrebbero trovare in ogni luogo del pianeta, ma facilmente identificabili con i luoghi dell'anima dell'autore: la città natia di Palermo e le sue zone limitrofe, e la città adottiva di Roma, descritte con puntiglioso realismo, specialmente Palermo con i suoi paesaggi multiformi, diurni e stagionali, con palazzi, quartieri, piazze, con giardini da cui esalano piacevoli profumi, con vicoli e viuzze che si aprono, si chiudono, si incrociano, e con spazi labirintici da cui in certe scene l'individuo sembra evadere coltivando il mito fantastico dell'America, come suggerisce anche il finale a sorpresa dove si puntualizza che il "manoscritto italiano" di questo testo è stato "rinvenuto in Columbus Circe, a New York"1; le descrizioni minuziose dei luoghi urbani, degli spazi domestici, delle situazioni sociali, insomma dell'universo di Palermo a volte prendono la mano dello scrittore, vi indugia tanto che subentrano i toni dell'artificio. E si sviluppa in un periodo identificabile nel ventennio che va all'incirca dal 1912 al 1931, come fanno capire anche i precisi riferimenti storici alla prima guerra mondiale e all'avvento del fascismo.

Il narratore assume anche il ruolo di protagonista. Sebbene nel romanzo sia innominato, qualche critico ci suggerisce che il suo nome è Heis. Vuol essere un narratore-protagonista che in parecchi aspetti si identifica con dell'autore, che rappresenta umori, contraddizioni, irrequietezze, tanti sentimenti e pensieri di Pizzuto. Come aveva già fatto Il fu Mattia Pascal di Pirandello, racconta in prima persona e scrive le sue avventure esistenziali ("Ho intravisto in ciò un romanzo – e ciascuno, invece, ha il proprio: che cosa è il romanzo se non una biografia dall'interno" p. 162), mostrando un Pizzuto maestro dell'arte del raccontare "dall'interno", anche molto abile nel tenere le cose sul piano della sospensione e dell'ambiguità, nell'uso del falshback e delle tecniche cinematiche o perfino del collage, nel realizzare tagli e spostamenti diegetici, nel dar vita agli andamenti della mise en abyme, nel costruire colpi di scena o azioni di accelerazione-decelerazione, nell'andare avanti ed indietro nelle dimensioni temporali, anche se la storia si sviluppa linearmente.

La storia si costruisce sul triangolo d'amore, un luogo comune della letteratura occidentale. Ma certi scrittori contemporanei, inclusi Pirandello (ad es. La signora Morli, una e due, e La bestia, l'uomo e la virtù) e lo stesso Pizzuto, riescono a rinnovarlo con il narratore-protagonista che si ritrova con due famiglie, una legittima e una illegittima, simboleggiando il carattere profondamente (auto-)analitico dell'uomo in crisi, rinchiuso nella trappola delle interrogazioni di varia natura, anche metafisiche. Un carattere tipico delle creature di Pizzuto (ad esempio, Signorina Rosnina), tanto che gli concedono la possibilità di sperimentare sul piano narratologico, con moduli che si rifanno alla diegesi del nuoveau roman e dello stream of unconsciousness di Joyce, con approcci e mezzi che enunciano un forte tentativo di trasgredire e quindi di rinnovare i canoni romanzeschi della tradizione (cfr. anche Signorina Rosina).

Come Uno, nessuno, e centomila ed altre opere narrative di Pirandello, la stile di Sul ponte di Avignone è riflessivo, monologico, discorsivo, si addice molto bene a rappresentare il dramma interiore del Narratore che nutre un amore molto infiammato, anche se molto tormentato, per l'amante Elena da cui ha una figlia, Giovanna (nome tratto da quello del nonno paterno).

La relazione decennale con l'amante domina la rappresentazione del romanzo illustrando tanti aspetti di un amore dolce-amaro ("Le mormorai inquieto: 'Sto sulle spine. E lei dolcemente di rimando: 'Io sulle rose'" p. 32), una dovizia di contrasti drammatici tra gli amanti causati anche da forti sentimenti di gelosia, e il peggioramento della crisi del Narratore, un io bizzarro, strano, quasi pirandellianamente "fuori di chiave".

Sul ponte di Avignone può essere facilmente classificato un romanzo d'amore teso a esplorare e registrare gli angoli interiori della coscienza, e indaga con una scrittura che fa sentire le tonalità sottili e variegate dell'ironia pizzutiana. In Pizzuto i rapporti di coppia, siano essi tra due coniugi o amanti, sono caratterizzati da sentimenti vendicativi e tradimenti, dalle tensioni, dalle liti, e dagli scontri di varia natura, come mostra anche l'incipit di Signorina Rosina. A volte è una lieve comicità a farli sembrare alquanto mitigati, attenuati, fugati. Ma nelle opere pizzutiane la comicità si trasforma istantaneamente in amaro umorismo che rinforza la visione pessimistica dell'autore (cfr. anche Signorina Rosina).

La rappresentazione della famiglia legittima talvolta sembra assumere un ruolo funzionale in quanto deve mette in risalto la vita del Narratore con l'altra illegittima. Anche la famiglia illegittima si modella un'immagine di incubo, di fardello, di oppressione e di imprigionamento del Narratore. Ambedue le famiglie, come quelle raffigurate in gran parte delle opere contemporanee, non formano un nido di affetto, di sincerità, di amore, ma uno spazio della disarmonia e della discordia. L'amore sia per la figlia illegittima Giovanna che per i due figli legittimi, Maria e Giovanni, sembra essere un "ponte" che fa rimanere legato per parecchi anni il Narratore all'amante e alla moglie, che viene sconvolta dalla conoscenza della relazione adulterina del marito.

Soprattutto l'amore del Narratore per Giovanna ("Giovanna diventò la mia idea fissa" p. 66) e per la madre è una passione profonda, infuocata, viscerale; (e molto vivo è il suo amore per la madre, una donna che rappresenta il fervore della fede religiosa e l'affetto puro e nobile, che consola, incoraggia, ed eleva in tanti modi, specie in momenti di scoramento e di crisi, è l'unica figura con cui il Narratore incompreso ed alienato - perfino nel mondo del lavoro in ufficio - stabilisce un rapporto aperto e schietto, basato sulla comunicazione, sulla compressione e sulla compassione). Se l'amore per la figlia Giovanna si rivela frequentemente tenero, armonioso, ed idillico, come si nota dalla rappresentazione delle passeggiate o delle letture (non solo di favole ma anche di un testo classico come l'Odissea di Omero) che fanno insieme, del padre che se ne cura attentamente e preoccupa, che ci tiene a farla crescere bene, a educarla ed a metterla nelle migliori scuole, che la intrattiene insegnandole anche di andare in bici, la porta a giocare e ad altri divertimenti; quello per la madre Elena si rivela gradatamente l'opposto, un sentimento che logora, tortura, soffoca, rende la vita un supplizio, di cui sono illustrativi i loro continui litigi, i reciproci risentimenti, minacce, violenze.

Il protagonista-narratore cammina sul "ponte" di queste passioni opposte, e nel "terzo quaderno" si sofferma sul titolo del romanzo sottolineando che Sul ponte di Avignone è un famoso canto popolare francese e che Giovanna gli canta durante uno dei ritorni a casa dal collegio (aristocratico del "Sacro Cuore") per le vacanze di Pasqua.

Il romanzo si apre con una sorta di proemio in cui si delinea la ricordanza di questo canto e la rievocazione del Narratore dei momenti significativi della sua età infantile, adolescenziale, universitaria, dell'incontro sia con una ragazza raffigurata come una sorta di Beatrice che porta a "una vita nuova" (p. 11), di archetipo dell'amore platonico, puro, stilnovistico, che ispira ed infiamma a vari livelli, anche a scrivere tante missive ("Rincasai con la testa in fiamme. E subito mi chiusi nel mio stanzino da studio e scrissi… scrissi […] Vestita di bianco apparve" p. 9), e che dopo dieci anni di fidanzamento diventerà sua moglie, sia con Elena, una giovane donna maltratta, picchiata e messa sulla strada da un marito non estraneo al mondo della giustizia ("era fuori del carcere" p. 75), che diventerà la sua amante.

La relazione con l'amante si rivela sempre più problematica e turbolenta, contrassegnata da crisi e forti contrasti, idillica ed elegiaca, bella e brutta, pacifica e violenta. Sembra farsi espressione e paradigma del destino che il Narratore deve subire, è condannato a vivere nel fuoco dei tormenti e delle sofferenze mentre desidera la tranquillità della pace, ad annullarsi mentre sogna grandi ideali, ad accettare la miseria mentre vagheggia il bello e la ricchezza. Come si osserva quando è costretto a vivere con Elena in abitazioni molto squallide e malandate. La ricerca di una dimora fissa per la seconda famiglia, i continui traslochi da una casa all'altra, si fanno simbolo di instabilità, di insicurezza, e di inquietudini interiori.

Particolarmente quest'azione peregrinante, quella del marito di Elena che la insegue e la pedina ("suo marito la ricercava con cattive intenzioni" p. 17), quella di Elena che fugge dall'amante e questi che la ricerca, e quelle combinate da una serie di stratagemmi, impartono alla narrazione l'atmosfera poliziesca. A volte tutto sembra una catena di allontanamenti e ritorni, inseguimenti, appostamenti, nascondimenti. La quale si rinforza con il Narratore che in varie circostanze cerca di fuggire da tutti e finanche da se stesso, e con Elena che non solo non riesce a distaccarsi dal marito violento ma lo ricerca ("la sorpresi per via a braccetto col marito, andarono al ristorante insieme" p. 22) quasi sulla falsariga della protagonista di Doña Flor e i suoi due mariti di Jorge Amado, e che si mette a tradire l'amante, un leitmotiv della letteratura contemporanea, come avvertono ad esempio la novella La vendetta del cane di Pirandello e il romanzo Un amore di Buzzati. L'operare del personaggio pizzutiano è caratteristico di un "fare misterioso". Come ci fa notare anche il romanzo Signorina Rosina.

L'assurdità delle azioni umani e delle vicende esistenziali è enfatizzata da Pizzuto quando porta il Narratore a conoscere gli uomini frequentati da Elena, non solo gli rimangono simpatici ma impara ad amarli, forse per la paura terrorizzante di perdere l'amante. O quando il Narratore realizza un incontro quasi magico tra le sue figlie bambine, Giovanna e Maria, sognando la speranza che giocondo insieme svilupperanno un rapporto felice, che un giorno potranno considerarsi ed amarsi come sorelle, una scena che ricorre in certi romanzi contemporanei, come in Conversione di Rodolfo Doni, ma dove tutto diventa molto drammatico anche perché l'incontro che il padre costruisce tra i figli avuti dal matrimonio e dall'avventura extraconiugale è foriero di tensioni e dissapori, di odi reciproci.

Ed è proprio Elena, dopo tanti logoramenti e sofferenze, tanti atti e recriminazioni collerici, tanti litigi e scontri violenti ("Mi strappò il cappello, si avventò. I rumori della colluttazione dovevano sentirsi all'esterno" p. 50, e cfr. ad esempio, pp. 262-263) che rendono l'abitazione-casa una metafora del manicomio, a rompere con l'amante, una rottura irreversibile che linguisticamente è messa a fuoco dall'iterazione dell'imperativo "vattene" e da altre espressioni sinonimi (ad esempio, "Devi andartene!" p. 225).

Nel romanzo si ripetano con frequenza scene, eventi, e situazioni di un'avventura amorosa all'insegna di contrasti stridenti e di azioni tempestose, tanti aspetti di quest'amore turbolento e velenoso, mostrando difetti e punti deboli, oltre all'incapacità dell'autore di limare, di accorciare e di eliminare, di rendere più snello e più stringato l'evolversi della fabula. E questo riflette la scrittura che si fa prolissa, ridondante, retorica. Se Pizzuto avesse compiuto una revisione certosina del romanzo, sarebbe indubbiamente risultato più compatto e quindi per il lettore meno pesante e meno noioso. Benchè egli lo consideri un "capolavoro" (p. 273), non è certo un'opera più riuscita e più rappresentativa della sua vistosa produzione.

L'avventura amorosa dà vita a una rete di motivi dello sdoppiamento dell'io, che ritornano con costanza nei racconti di Pizzuto. Essi traspaiono dal recupero di certi miti favolosi, come quando ad Elena si assegna il nome di Cenerentola nel momento che incontra il Narratore, un principe alla rovescia benché le dia protezione e sostegno, la salvi portandola fuori la tragica situazione di miseria e di vivere con un marito abusivo e brutale; o quando si descrive la fidanzata che diventerà la moglie "come una novella Calipso" che non corrisponde ai suoi ardenti sentimenti d'amore, e così facendo assapora le prime esperienze dell'amore "che è dolore ostacolo" (p. 10). Essi vengono messi a fuoco da tutti i personaggi centrali del romanzo che mettono in pratica l'arte del "fingere", una parola chiave che oltre a formare una ricca variazione con vocaboli quali "menzogna", "fandonia", "mentire", diviene la spia stilistica di parecchi episodi; che si mettono la maschera anche per celare ipocrisie e sentimenti volpini; che si muovono in modo furtivo per proteggersi, per nascondere verità, segreti, e passioni molto vissute. Elena e il Narratore conoscono, valutano, e mettono in atto le strategie della finzione, fingono anche di non amarsi ("fingeva […] eppure ero amato da lei" p. 55). Perfino Giovanna finge: ad esempio, svegliatasi finge di dormire quando il padre si avvicina a letto per baciarla, e finge "di non sentire" chi la desidera (p. 91). Le finzioni tramate da alcuni personaggi impartono rimorsi e colpe, ed inducono a diversi tipi di ripiegamenti, di comportamenti, di alibi. Il Narratore addirittura disquisisce in misura alquanto filosofica della sua funzione di mentitore: "la menzogna aiuta a perseverare nel male […] Ho mentito […] per risparmia[re] un dolore. – Non! Non si deve mentire!" (p. 162).

Soprattutto la scissione dei protagonisti, Elena e il Narratore, è messa in evidenza dalla ricorrente azione di guardarsi nello specchio, rivelatore dei segni del tempo che scorrendo divora tutto e tutti, segni che Elena nasconde truccandosi: "tracciava, allo specchio, con un untuoso bastoncino di nero certi trattini dall'esterno delle sopracciglia verso gli zigomi" (p. 118). Umoristicamente lo specchio si personifica al punto che scherza e prende in giro coloro che gli si portano davanti: "lo specchio […] mi canzonava" (p. 146). Fa scatenare scoperte, rivelazioni, e riconoscimenti che stravolgono il personaggio, tanto che ne accentua la spersonalizzazione: "vedermi allo specchio una faccia spettrale e strana che non riconoscevo" (p. 228).

Come parecchi personaggi contemporanei, inclusi quelli di Pirandello, di Calvino, di Doni, iI Narratore conduce una doppia vita, rivelandosi un "estraneo" che più agogna alla coerenza più si ritrova dimidiato, un'io nevrotico che si divide anche passando metà notte con una famiglia e metà con l'altra famiglia; che realizza enormi sforzi nel tener nascosto il suo stile di vita alle due donne cui è legato, nel "non far scoprire la verità né all'una né all'altra" (p. 40); che amerebbe svolgere un altro lavoro, magari essere insegnate di filosofia, e invece deve fare l'impiegato d'ufficio; che indossa e sa portare la maschera dell'apparenza anche nell'ambiente del lavoro; che ha consapevolezza del cambiamento della personalità degli altri, inclusa Elena ("io trovai in lei un'altra" p. 103), e di svolgere il gioco delle parti. Si camuffa in un altro per raggiungere determinati obiettivi quale quello di affittare un dato appartamento, e anche per non turbare le persone circostanti, specialmente Giovanna. Egli si erge un istrione condannato a recitare ("Vivere è stato per me una alternativa di simulare e dissimulare" p. 160), a fabbricare tanti suoi "tormenti" (p. 90), tanti inganni, pretesti, scuse, come quando mette la scusa all'amante che deve vivere in casa dei genitori perchè in qualsiasi momento lo possono chiamare dall'ufficio o perché lì ha uno studio dove può tranquillamente studiare e lavorare. Articola menzogne e bugie ("stavo raccontando le solite fandonie" p. 45) che fanno condurre una vertiginosa vita dimezzata, per proteggersi e per non farsi conoscersi. La paura di "essere riconosciuto" (p. 92), che gli altri scoprano il suo segreto e la sua vera identità, instilla l'ansia e il panico, lo rende un essere terrorizzato, paranoico, schizofrenico. Come mostra la scena in cui è travolto dal timore(-"pena" p. 97) che le suore dell'istituto frequentato da Giovanna possano intuire chi egli veramente sia. In momenti di profonda disperazione nulla sostiene il Narratore, ed ecco che subentra la meditazione di realizzare atroci misfatti e di suicidarsi (p. 234).

È un personaggio amletico nel senso che ha l'abitudine di abbandonarsi in fantasticherie

e in riflessioni intellettualistiche che causano stonature e digressioni, di porsi

quesiti filosofici che fanno ricordare anche la tragica ricerca di Edipo re: "Chi ero io ormai?" (p. 9) o di porli anche alla sua piccola: "Giovanna [….], sai dirmi cosa sia la virtù?" (p. 88), che oscilla e rimugina troppo le cose, che si rivela titubante e debole, in preda a dubbi ed incertezze che non lasciano prendere le decisioni, non riesce a dire la verità delle cose e a volte sembra negarla a se stesso.

Varie volte è la fede ereditata dalla madre che lo spinge a entra in chiesa non solo per pregare ma anche per confessare il peccato di marito infedele, che vive in una difficile situazione adulterina:

Ero alla confessione, alla penitenza liberatoria che dà pace; potevo esprimere alfine, sfogare; invece trovavo delle frasi incoerenti. A nulla valevano i "Dunque", i "Sì, dici, dici!" intercalati dal Padre per incoraggiarmi. I discorsi in pectore erano inafferrabili. La piena dell'anima si ridusse a questo: "Ho una relazione peccaminosa ma anteriore al matrimonio (notai in seguito quando studio per giustificarmi e non va: bisogna confessare senza difendersi). Ho una figlia illegittima che il giorno nove farà la Prima Comunione in collegio" […] Non trovavo altro da dire. Era tutto lì. Il resto, vapori. Alcune risposte altrettanto scheletriche. Il Padre pronunciò la sentenza inesorabile: "Lei deve troncare…". – Come, dopo anni di geloso lavoro un autore al quale il critico indichi l'errore vitale […] "La madre – ribattei -, è giovane. Se, allontanandomi io, si perdesse?" – "Ognuno deve pensare da sé alla propria salvazione". (pp. 139-140)

Nei momenti in cui la crisi si acuisce l'aggrapparsi alla fede aiuta e conforta, l'io dimezzato compie l'azione rituale di rivolgersi a Dio: "Oh! Se c'è il Signore! E infinitamente misericordioso! Poi, che male facevo? Perché non chiamarlo bene?" (p. 92), e di ritornare in chiesa ("Entrai nella chiesa scelta […] Vi si celebrava il mese di Maria" p. 143), dove si smarrisce a osservare i riti del sacerdote ed a rivangare il ricordo dell'infanzia quando ci andava con la madre.

La vicenda amorosa incorpora motivi metanarrativi e di metascrittura. Come una galleria di personaggi degli scrittori contemporanei, da Pirandello a Pomilio a Eco, anche il Narratore coltivare il piacere della lettura (di testi di vari generi e in particolare per quelli di filosofia -ad esempio, Platone, Hume, Berkeley - e quando li commenta lo stile di Pizzuto si fa saggistico), la passione per la letteratura, e il sogno di diventare scrittore. Dopo la rottura con l'amante questo ideale si intensifica, al Narratore aspirante scrittore non rimane che ripristinare un "ponte" di lettere e di carta, ponte che porta a delineare ed a discutere elementi topici della poetica di Pizzuto, a trattare idee vissute dall'autore che concernano non solo la sterilità creativa ma anche l'aspetto faticoso del lavoro creativo, nel coltivare il giardino della pagina e delle parole: "mi rividi dinanzi la squallida pagina […], fatica assoluta meccanicamente parola per parola, quel che nasceva nasceva" (p. 228). Come aveva fatto il pirandelliano Mattia Pascal, anch'egli prende la penna e si mettere a scrivere le proprie esperienze-avventure di vita, a dar sfogo alla forza interiore della memoria, a un profondo stimolo(-ispirazione) che annulla ogni sorta di incertezza e di titubanza: "il bisogno di fissare narrando, vincere sul sentimento che mi ha tenuto una estate intera indeciso. Perché si narra? E perché si ascolta?" (p. 25). Nella narrazione Pizzuto conduce al massimo i giochi metanarrativi con il Narratore che fa continui riferimenti al romanzo in fieri Sul ponte di Avignone. Per Mattia Pascal e per il Narratore la scrittura diventa una forma di terapia e di salvezza, un farmaco che cura lo spirito malato, un processo di liberazione, di catarsi, di ritrovamento. E la fine ironia pizzutiana, largendo messaggi morali, evidenzia che per il Narratore-scrittore scrivere è anche un colloquio-confessione con il lettore ideale:

Forse ciò che andrò scrivendo potrà assomigliarsi meglio a una confessione che tenda oltre la semplice pazienza. So che la confessione è forza e dà pace. Voglio essere forte, voglio avere pace. Non scrivo dunque "en artiste". Scrivo per un impulso […] complicato […] Pel caso che queste pagine dovessero cadere un giorno sotto sguardi estranei farò il seguente avvertimento: non badare troppo ai fatti in ciò che espongo, mai vi fu sì poca voglia di raccontare! Tuttavia, inatteso lettore per cui non scrivo, tu non mi scorderai facilmente. (p. 6)

In un certo senso lo scrivere vuole essere un'intricata metafora di un altro profondo amore del Narratore. Un amore che eleva all'estasi e distrae dal flusso del tempo, e che restituisce identità ed orgoglio all'individuo precipitato nel labirinto della crisi: "Tutto ciò che […] scrivevo era ben fatto, restavano impunite le mie astuzie tendenti a coprire con sfoggi di erudizione uno studio […] troppo affrettato, allorché dicevo il superfluo per sorvolare il necessario […] Mi sentivo nato per altri destini. Amavo le cose ricercate e bizzarre e imitavo intanto gli altri. Scrissi in quel tempo un voluminoso romanzo" (p. 7).

Oltre che realistico, grazioso è il ricordo del nonno che istilla in lui l'amore per la letteratura e per lo scrivere:

La frase mi piacque tanto che la trascrissi a matita e da allora l'ho addosso. Così, quando ero ragazzo, la sera nello studio del nonno. Prendevo, senza far rumore, posto dirimpetto a lui, i nostri libri uno contro l'altro: a destra il quaderno delle cose belle. Alla mia sinistra il lume dalla verde ventola e trasudante petrolio. Tutto intorno nella penombra scaffali che arrivano al tetto. Mio nonno era letterato e poeta (sull'Erice ha la statua) ma l'amore verso il primogenito della figlia – dotata di consimili doni – gli faceva velo. Seguirai la tua stella… - mi predicava. La sua fondamentale illusione consisteva nel credere che sarei diventato scrittore. Ogni tanto riprendeva la pipa e un fiammifero già spento che alzava sopra lo scartaccio del lume. Una fiammella appiccicatasi sulla punta. (pp. 230-231)

E nello spazio narrativo c'è qualcuno, che adombra la voce (auto-)esegetica di Pizzuto, pronto a criticarlo ed a dirgli "che come scrittore [è] mediocre" (p. 250).

Anche in altre opere di Pizzuto si presentano i motivi di meta-scrittura con figure di aspiranti o affermati scrittori. Come ad esempio avviene nel romanzo Signorina Rosina (composto tra il 1953 e il 1955, e pubblicato per la prima volta presso l'Editore Macchia nel 1956). Dove il personaggio Bibi, rivelando un carattere narcisistico nel riflettere sullo scrivere ("[scrivendo] ogni giorno, per forza si diventa un diarista"2) e nel disquisire del suo romanzo Ravenna (che poi Pizzuto pubblicherà nel 1962), costituisce un ritratto d'artista sviluppato sulla materia autobiografica, muove un discorso di metacreazione molto autoreferenziale e autocitazionistico, e si modella una voce critica ed autocritica di Pizzuto:

Bibi parlò del suo libro. Era intitolato Ravenna. Storico forse? No. Una guida della città? Neanche. Perché mai quei nomi, dunque. Così. Come uno può essere chiamato Giacomo o Carlo. Secondo il gusto, quello era il titolo: libro e titolo erano nati insieme, l'uno per l'altro. Di che si trattava insomma? A quell'incalzare di domande l'autore trasse dalla sua valigetta il voluminoso manoscritto e sfogliatolo un po' sembrava volesse leggerne più per minaccia che con vera intenzione qualche pagina, proponimento che dà sempre un assoluto. Invece continuò a percorrerne i tagli col polpastrello come fossero corde di una chitarra, e gli raccontava frattanto i lunghi anni occorsi per la composizione, i disinganni. L'unico che lo avesse compreso, in gioventù, era un industriale, il signor Karlebach […] Senza trattenersi più gli lesse una descrizione di agnelli, vivi ancora, stipati in due piani entro il gran furgone metallico. (p. 30)

Bici(-Pizzuto) sottopone il manoscritto del romanzo Ravenna al vaglio della lettura di amici e conoscenti preparati: "teneva in serbo certi amici autorevoli cui far leggere il libro […] Se fosse piaciuto all'uno e all'altro, meglio poi a tutti e due, fortuna era fatta. Bibi gli consegnò Ravenna" (p. 3). Assiduamente ne chiede commenti e pareri. L'attesa dei giudizi si impregna di ansia, di affanno, di nervosismo. Questo manifesta un Pizzuto insicuro della propria attività di scrittore, che nutre profonde preoccupazioni e incertezze nei riguardi della sua arte. I giochi ermeneutici ed esegetici che si combinano tendono a volte a fugare questi ripiegamenti altre volte ad accentuarli. Inoltre tendono a forgiare certi personaggi minori sia come immagini camuffate ed umorali dell'autore Pizzuto(-Bici) che chiosa la propria creazione al punto che fa un'analisi apologetica di Ravenna, sia come immagini di un Pizzuto(-Bici) artista discordante, contraddittorio, profondamente insoddisfatto del proprio lavoro, anche perché P consapevole di non aver raggiunto l'"assoluto" della "forma". Ne è rivelatrice la valutazione data a Ravenna da due illustri lettori, trasformati in emblemi di critici ideali che dialogano apertamente: "Diceva su per giù così: <Chthés a Tumò: 'Bel lavoro, denso e sostanzioso. Ma la forma. La forma. Lo vorrei più aereo. Terminerei a pagina 7'. Tumò a Chthés: 'Nulla da eccepire quanto alla forma. Però io lo vorrei più concreto. Potrebbe considerarsi in breve elegia'" (p. 33). Sul ponte di Avignone possiede una prosa asciutta, densa, cristallina, fondata sul periodo breve. Spesso è ornata dagli strumenti dell'allusione; dalle movenze del discorso indiretto libero; dall'eufemismo e dall'aforisma che utilizza anche i moduli dell'ellissi e dell'ossimoro (ad esempio, "La mia vita si svolgeva ormai in un dolce abbrutimento" p. 63); dalla similitudine che sovente elimina il tradizionale "come" (ad es. "Sono un cane randagio" p. 17), che talvolta attinge o dispiega il sapore del proverbio anche della cultura contadina (ad esempio, "la donna è come l'uovo: più si batte meglio diviene" p. 16), che si costruisce sui mezzi dell'esagerazione, come si nota quando il Narratore e l'amante vanno in cerca di una casa in un povero quartiere e i padroni li considerano ricchi signori: "Ci accolsero come se fossimo dei turisti che visitano un antico castello" (p. 29), e anche per incidere stati traumatici o psicologici: "restai senza far rumore sul pianerottolo buio, un poco stordito, come i polli della cesta al mercato" (p. 44). Vuol essere una prosa caratterizzata da un linguaggio terso e alquanto ricercato, e capace di elevarsi a squarci poetici. Ma raggiungerà arricchimento degli strumenti rappresentativi ed espressivi, raffinatezza e perfezione nelle opere mature di Pizzuto.



NOTE



1 A. Pizzuto, Sul ponte di Avignone, Firenze, Edizioni Polistampa, 2008, p. 266. D'ora in poi il numero della pagina nel testo rimanderà a questa edizione.

2 A. Pizzuto, Signorina Rosina, Firenze, Edizioni Polistampa, 2004, p. 55. D'ora in poi la pagina nel testo rimanderà a questa edizione.