IL CRISTALLO, 2009 LI 2-3 [stampa]

LA POESIA DI CESARE PAVESE

di ELIO ANDRIUOLI

Molto noto come narratore per alcuni romanzi di successo, quali Paesi tuoi (1941), Feria d'agosto (1946), La casa in collina (1948), Prima che il gallo canti (1949), La bella estate (1949), La luna e i falò (1950), Cesare Pavese fu anche un poeta che con Lavorare stanca (1936), la sua più famosa raccolta di versi, precorse il Neorealismo e gettò le basi di un modo nuovo di far poesia in Italia.

Noi vogliamo qui parlare del poeta, esaminando la sua produzione quale ci viene offerta dal volume Poesie edite e inedite, pubblicato dalla Casa Editrice Einaudi nel 1969. Iniziamo dal titolo della prima raccolta, Lavorare stanca, che, a prima vista, può apparire un po' strano. Esso è tratto da quello di una poesia del volume, nella quale un giovane e una ragazza trascorrono insieme il loro giorno di riposo, lasciando però l'uomo insoddisfatto e desideroso di altre avventure. L'ambientazione della poesia è agreste e la descrizione della vicenda in essa contenuta molto realistica: "I due, stesi sull'erba, vestiti, si guardano in faccia / tra gli steli sottili: la donna gli morde i capelli / e poi morde nell'erba. Sorride scomposta, tra l'erba... " (Lavorare stanca (1°).

È pertanto, come subito si può constatare, quella che Pavese ci dà in questo libro una poesia-racconto, nella quale si fa avanti una varia umanità, fatta di contadini e di muratori, di meccanici e di carrettieri, di falliti e di possidenti, di meretrici e di soldati, di ragazzi di campagna e di giovani inurbati, ecc. , ciascuno considerato nella sua genuina sostanza umana e portatore di una propria visione del mondo: in genere quello della campagna langarola, con i suoi costumi e la sua forma mentis, le sue credenze e il suo modo di vivere, che viene reso in maniera quanto mai efficace e realistica, lucida e disincantata, e con una pessimistica concezione dell'umana esistenza, considerata più come un castigo che come un dono.

È questa una poesia lontana per lo più da ogni forma di effusione lirica e da ogni estetismo, nella quale il contenuto s'incanala in un verso dall'andamento ampio, di stampo narrativo, che tende pertanto al "parlato" e che si giova della pausa e dell'iterazione per conferire ritmo e musica al testo.

Pavese canta in questi che potrebbero forse definirsi dei brevi poemetti, la sua terra, le Langhe; e lo fa conformandosi al modo di pensare e di essere della sua gente, al quale perfettamente si adegua.

Ne sortisce una maniera per noi inusitata dello scrivere in versi (forse a lui suggerita da opere famose di altre letterature, come l'Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters), che è quella, come già si è osservato, della poesia-racconto, la quale troverà in Italia un seguito presso poeti quali Scotellaro, Pagliarani, Fortini, Roversi, ecc. Nella misura in cui questa poesia rivela le tristi condizioni di vita dei più diseredati, è anche una poesia di carattere sociale. C'è infatti in Lavorare stanca l'espressione di una corale sofferenza e di un disagio esistenziale che sono innanzi tutto dell'autore, il quale ci narra qui un pòla sua storia privata di uomo sradicato dal proprio mondo (le Langhe), per andare a vivere in una città (Torino), dove dovrà crearsi faticosamente una nuova esistenza.

Per parlare di sé Pavese sceglie però non la forma soggettiva della lirica, ma quella di una poesia oggettiva, la quale ci presenta dei personaggi di cui viene raccontata la storia: una storia che è sovente anche la storia di coloro con i quali l'autore è vissuto ed è quindi da lui direttamente conosciuta.

Tale oggettivazione egli la persegue con un linguaggio immediato ed essenziale, che tende ad immetterci subito nell'ambiente e nella psicologia degli uomini e delle donne che descrive e che fa agire, i quali parlano in prima persona con le parole usuali del loro mondo contadino.

Non più quindi l'asciutta raffinatezza verbale degli Ermetici, ma un verseggiare di tipo discorsivo, che in qualche modo imita la maniera di esprimersi della gente comune e che perciò procede lento e diffuso, anche se non privo di alcune ricercatezze stilistiche: "Non abbiamo che questa virtù: cominciare / ogni giorno la vita - davanti alla terra, / sotto un cielo che tace - attendendo un risveglio. / Si stupisce qualcuno che l'alba sia tanta fatica; / di risveglio in risveglio un lavoro è compiuto. / Ma viviamo soltanto per dare in un brivido / al lavoro futuro e svegliare una volta la terra. / E talvolta ci accade. Poi torna a tacere con noi" (Fine della fantasia).

Sono, quelli di Pavese, uomini e donne che cercano sempre qualcosa o qualcuno e che lottano quotidianamente per uscire dal loro stato di emarginazione e dalla loro solitudine.

Cercano la felicità, o quanto meno l'appagamento dei loro più elementari bisogni, ed incontrano il dramma, com'è in Maternità quello dell'uomo che ha perso la moglie ancor giovane e ne rivede le fattezze nei figli: "I tre figli hanno un modo di alzare le spalle / che quell'uomo conosce. Nessuno di loro / sa di avere negli occhi e nel corpo una vita / che a suo tempo era piena e saziava quell'uomo". O come è, in Gelosia (1°), il dramma dell'irrompere della passione amorosa, che scoppia violenta, dando luogo ad un duello rusticano: "I rivali sentivano in bocca un sapore di rabbia / e di sangue; ora sentono il sapore del vino. / Per riempirsi di pugni bisogna esser soli / come a fare l'amore, ma c'è sempre la notte".

Si vedano anche La pace che regna, una poesia in cui è raffigurato il grave peso della vecchiaia, con la sua inquietudine e la sua mancanza di prospettive: "Il mio vecchio comincia all'alba a girare le strade / e nessuno s'accorge che guarda e ci pensa, / lui, che un tempo era giovane, com'è giovane il mondo"; o Luna d'agosto, dove una donna veglia, sola e impotente, il cadavere sfigurato del marito; o ancora Semplicità, in cui è espresso il dramma dell'uomo "che è stato in prigione" e, una volta uscitone, stenta a reinserirsi tra i suoi simili. E così via.

È questo un mondo spesso arcaico, in cui i sentimenti si manifestano esprimendosi in maniera quasi primordiale, come avviene, ad esempio, in Tradimento, Pensieri di Deola, Il dio-caprone, Gente che non capisce, Piaceri notturni, Esterno, Paesaggio VI, La vecchia ubriaca, ecc. Ed è il mondo che Pavese sapientemente descrive in queste poesie-racconto, calandosi totalmente nei suoi personaggi e facendone rivivere l'intimo dramma esistenziale.

Così è per lo studio psicologico di Paternità o per quello di Gelosia (già citate); per la storia infelice de La puttana contadina, che è quasi stupita di sé e del proprio destino e de La vecchia ubriaca, che rievoca il proprio triste passato. Quella che ne emerge è un'umanità diseredata e dolente, che lotta giorno per giorno contro le avversità della vita e che invano cerca di migliorare la propria sorte. L'elemento unificatore di questo mondo sta nella persona dell'autore, che dall'alto lo contempla e lo domina, come una divinità nascosta che tutto vede e che tutto governa.

La poesia che apre il libro, I mari del Sud, è anche la più antica; ed è quella nella quale subito si manifesta l'impianto epico-narrativo della raccolta, che è basata, quanto alla metrica, su di un verso lungo, variamente composto ed ordinato in strofe di diverso respiro; il che conferisce all'insieme un'indubbia originalità. Leggiamone i primi versi: "Camminiamo una sera sul fianco di un colle, / in silenzio. Nell'ombra del tardo crepuscolo / mio cugino è un gigante vestito di bianco, / che si muove pacato, abbronzato nel volto, / taciturno. Tacere è la nostra virtù".

C'è già in nuce in questi versi la stoffa del futuro narratore, che si manifesterà in seguito nelle novelle e nei romanzi; ma l'abilità del narratore si combina qui con le indubbie doti stilistiche proprie del poeta, capace di catturare le più sottili sensazioni e dotato di una grande virtù visiva, come emerge ad ogni passo dai testi della raccolta. Si legga, ad esempio: "Basta un poco di giorno negli occhi chiari / come il fondo di un'acqua, e la invade l'ira, / la scabrezza del fondo che il sole riga" (Paesaggio VII); "Il cavallo s'annoia / posseduto da mosche" (Città in campagna); "Anche l'acqua del fiume ha bevuto le rive / e le macera al fondo, nel cielo" (Grappa di settembre); "Vibra un vento tra gli alberi freschi: le nubi / rosse, in alto, son tiepide e viaggiano lente" (Avventure); "La luce / con un brivido corre i lampioni. Le case / abbagliate traspaiono nel vapore azzurrino" (Poetica); "La muraglia di fronte che accieca il cortile / ha sovente un riflesso di sole bambino" (La puttana contadina); ecc. Efficacissima è in Lavorare stanca l'immediatezza degli incipit, che subito ci introducono nell'ambiente e nell'argomento della poesia: "Questa donna una volta era fatta di carne / fresca e soda" (Una stagione); "I barconi risalgono adagio, sospinti e pesanti" (Crepuscolo dei sabbiatori); "Son vivo e ho sorpreso nell'alba le stelle" (Creazione); "Può accadere ogni cosa nella bruna osteria" (Il figlio della vedova); "Piove senza rumore sul prato del mare" (Tolleranza); "Lo stridore del carro scuote la strada" (Il carrettiere); ecc.

Si veda inoltre l'asciutta perentorietà di taluni versi, quali: "A quei tempi era un grande compagno di sé" (Abitudini); "Ci si sveglia un mattino che è morta l'estate" (Mito); "Son lontani i mattini che avevo vent'anni" (Agonia); "... è un gioco rischioso / prender parte alla vita" (Maternità); "Sono vivo e ho sorpreso nell'alba le stelle" (Creazione); ecc.

Pavese è certamente un poeta dalle sensazioni forti ed intense: "camera calda di odori" (Piaceri notturni); "Le vie fresche di mezza mattina" (Città in campagna); "Le colline gli sanno di pioggia" (Legna verde); ed è pure un poeta dai veloci accostamenti di vocaboli, quali: "sorriso vigliacco" (Tradimento); "strappo di luce" (Fine della fantasia); "sole bambino" (La puttana contadina); "mare... fresco di sonno" (Mediterranea); "brani di nebbia" (Dopo); "case stupite" (Indisciplina); "pollo/ mal strozzato" (Il tempo passa); "gambe / d'anguilla" (Ritratto d'autore); "brividi verdi" (Esterno); ecc.

In Pavese s'incontrano anche movimenti marcatamente espressionistici: "E il clarino si torce, / rompe il chiasso sonoro, s'inoltra, si sfoga / come un'anima sola, in un secco silenzio" (Fumatori di carta); "Quello morto è stravolto e non guarda le stelle: / ha i capelli incollati al selciato. La notte è più fredda. / Quelli vivi ritornano a casa, tremandoci sopra. /... / Su ogni corpo coagula un sudicio buio" (Rivolta); ecc. Notevole è infine nel Pavese di Lavorare stanca la penetrante capacità di osservazione: "L'ubriaco non canta, ma tiene una strada / dove l'unico ostacolo è l'aria" (Indisciplina); "la finestra deserta s'imbeve di freddo / e di cielo" (Risveglio); "Le colline sgranavano punti di luce / sulle coste, avvivati dal vento" (Una generazione); ecc. Abbiamo compiuto questa breve analisi stilistica per dimostrare come la poesia-racconto di Cesare Pavese sia tutt'altro che una semplice prosa in versi. In essa inoltre la descrizione del paesaggio, tanto agreste quanto urbano, occupa un posto molto importante ed è fatta sempre in maniera efficace e con rara sensibilità. Si legga, a titolo di esemplificazione, l'incipit di Paesaggio VI: "Quest'è il giorno che salgono le nebbie dal fiume / nella bella città, in mezzo a prati e colline, / e la sfumano come un ricordo. I vapori confondono / ogni verde, ma ancora le donne dai vivi colori / vi camminano. Vanno nella bianca penombra / sorridenti: per strada può accadere ogni cosa. / Può accadere che l'aria ubriachi". Si tratta, come subito appare da questi versi, di un paesaggio che talora può assumere delle connotazioni lievi e quasi oniriche; il che avviene anche in Poggio Reale, una poesia dall'atmosfera sospesa e magica.

È pure da osservarsi che la natura è particolarmente sentita da Pavese, per il quale diviene anzi essa stessa un personaggio. Si veda, ad esempio, come la morte di una stagione, l'estate, possa diventare per questo poeta il simbolo della morte del dio che è in ogni giovane, necessaria perché questi possa trasformarsi in uomo: "Verrà il giorno che il giovane dio sarà un uomo, / senza pena, col morto sorriso dell'uomo / che ha compreso. Anche il sole trascorre remoto / arrossando le spiagge. Verrà il giorno che il dio / non saprà più dov'erano le spiagge d'un tempo. // Ci si sveglia un mattino che è morta l'estate, / e negli occhi tumultuano ancora splendori / come ieri, e all'orecchio i fragori del sole / fatto sangue. È mutato il colore del mondo" (Mito).

Un libro molto articolato e di indubbio valore Lavorare stanca, che costituisce un'esperienza particolarmente originale della poesia del nostro Novecento; un libro dalle molte sfaccettature e nel quale il sentimento della sconfitta e la pena di vivere ("Sempre compassionare fu tempo perduto, / l'esistenza è tremenda e non muta per questo, / meglio stringere i denti e tacere", Donne perdute) non escludono talune aperture alla vita e al suo bene ("Le vie fresche di mezza mattina eran piene di portici e di gente", Città in campagna; "Le nuvole sono legate alla terra ed al vento. / Fin che ci saranno le nuvole sopra Torino / sarà bella la vita", Canzone), il che dimostra ancora una volta quanto complessa sia la personalità di questo scrittore.

Conclusa l'esperienza poetica di Lavorare stanca, Pavese mutò il suo modo di far poesia, passando dalla forma epica, creatrice di miti e dotata di significati fortemente simbolici propri della sua poesia-racconto, ad un genere di poesia molto diverso, sia per quanto riguarda la metrica, avendo egli adottato un verso breve (per lo più il settenario), sia per quanto riguarda i contenuti, che sono contrassegnati da un acceso lirismo. Parte di queste poesie furono pubblicate dapprima su rivista e poi da Giacinto Spagnoletti nella sua Antologia della poesia italiana 1909-1949. Confluirono successivamente, insieme ad altre, nel volumetto Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, che apparve postumo presso l'Editrice Einaudi di Torino nel 1951.

Emerge da questi testi una figura femminile alla quale il poeta si rivolge con insistenza e con abbandono, passando dallo "stile oggettivo", proprio della sua prima raccolta, ad uno "stile soggettivo", nel quale l'io del poeta si fa prepotentemente avanti, lasciando aperta la porta all'urgere del sentimento.

Benché tendenti all'essenzialità, queste poesie sono però ben lontane dall'Ermetismo, per la limpidità della parola poetica che è loro propria, priva di ogni arcanismo. Neanche qui manca però, come già si è visto per Lavorare stanca, un'alta elaborazione formale. Basterà leggere, per rendersene conto, la poesia eponima, dall'andamento così intenso e segnato da un arreso abbandono: "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi - / questa morte che ci accompagna / dal mattino alla sera, insonne, / sorda, come un vecchio rimorso / o un vizio assurdo. I tuoi occhi / saranno una vana parola, / un grido taciuto, un silenzio. / Così li vedi ogni mattina / quando su te sola ti pieghi / nello specchio. O cara speranza, / quel giorno sapremo anche noi / che sei la vita e sei il nulla. // Per tutti la morte ha uno sguardo. / Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. / Sarà come smettere un vizio, / come vedere nello specchio / riemergere un viso morto, / come ascoltare un labbro chiuso. / Scenderemo nel gorgo muti".

Il tono di queste liriche è altamente evocativo ed esprime un intimo affanno, che non s'acquieta o comunque uno stato di ansia per un amore che si avverte fragilissimo e che si teme di perdere ad ogni istante. "Hai viso di pietra scolpita, / sangue di terra dura, / sei venuta dal mare. /... / Tu non muti. Sei buia" (Hai viso di pietra scolpita); "Sei la terra e la morte. / La tua stagione è il buio / e il silenzio. Non vive / cosa che più di te / sia remota dall'alba" (Sei la terra e la morte); "Anche la notte ti somiglia, / la notte remota che piange / muta dentro il cuore profondo, / e le stelle passano stanche" (The night you slept); ecc.

L'atmosfera è come sospesa, tutta permeata dal ricordo, al quale la mente s'affida e nel quale si perde: "Il mattino / trascorreva lento, era un gorgo / d'immobile luce. Taceva. / Tu viva tacevi; le cose / vivevano sotto i tuoi occhi" (I mattini passano chiari). Sono queste le ultime poesie scritte da Cesare Pavese prima del suicidio, avvenuto tra il 26 e il 27 agosto del 1950, in una camera d'albergo a Torino e il sentimento che trasmettono è quello di una profonda tristezza. Il suo ultimo scritto fu un biglietto contenente queste poche parola: "Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi". Era nato a Santo Stefano Belbo il 9 settembre del 1908.