IL CRISTALLO, 2009 LI 2-3 [stampa]

MARIAROSARIO RICCIO, Al di là della barriera, Napoli, Kairós Edizioni, 2007.

recensione di FRANCO ZANGRILLI

Soprattutto dalla seconda metà del Novecento in Italia s'impone con capacità straordinarie la figura della scrittrice, e si fa sempre più presente arrivando a conquistare tante cose, come certi livelli di "potere" o l'immagine di sentirsi realizzata anche in una professione tradizionalmente maschile. Molte sono le scrittrici contemporanee che mentre coltivano il giardino della scrittura creativa operano nel campo del giornalismo. Basterebbe pensare a Francesca Sanvitale, a Dacia Maraini, a Oriana Fallaci, a Susanna Tamaro, a Claudia Sereni, il cui lavoro di giornalista-scrittrice la aiuta a entrare in politica.

Nelle loro opere narrative spesso il discorso femminista, benchè faccia sentire influenze ed echi del capolavoro, Una donna, di Sibilla Aleramo, si presenta e ed è rinnovato in tanti modi. Come ad esempio mostrano i romanzi Dalla parte di lei di Alba De Céspedes, Ritratto in piedi di Gianna Manzini, Un uomo di Oriana Fallaci. E non mancano quelle che non ignorando tale discorso si cimentano sulla cronaca della famiglia, né quelle in cui l'epos familiare si tinge di atmosfere leggendarie e favolose. Come fa notare anche Lessico Familiare di Natalia Ginzburg.

Il romanzo d'esordio di Mariarosaria Riccio, Al di là della barriera movendosi su queste linee, si cimenta su una intricata matassa di motivi cronotopici. Oltre al prologo e all'epilogo, è composto di dodici capitoli tutti con un titolo e con un'epigrafe che spesso incapsula significati e significanti temporali. Si svolge in un periodo che va dalla fine della seconda guerra mondiale all'inizio del duemila. Benché si ambienti a Napoli, l'azione si sposta in altri luoghi, Roma, Bologna, Venezia, persino in California, registrano felicemente il flusso inarrestabile del tempo e i mutamenti interiori e esteriori della vita dei personaggi.

Si tratta di un romanzo costruito sulla materia autobiografica che delicatamente si eleva a piani universali, tutto imperniato sulle esperienze che si ottengono dal "mestiere di vivere", e sulla scia della narratologia postmoderna, è capace di accogliere componimenti in versi, moduli intertestuali, approcci autoriferenziali, dichiarazioni di poetica: "per ogni filo una casa, eventi, emozioni, sentimenti, io invento i personaggi e so, chissà perché, che la realtà non è molto differente da quello che immagino, che creo con la mia fantasia" (p. 62). In prima persona la narratrice-protagonista, che è Mariarosaria Riccio, racconta se stessa, l'universo della sua famiglia e del suo milieu partenopeo, con sapiente uso di strutture, di spostamenti, di tagli diegetici, soprattutto delle tecniche filmiche che sfruttano anche le nuance del flashback, dei procedimenti ad andirivieni e apparentemente frammentari, di una esposizione che sembra dipanarsi come catena di montaggi e anche descrittivi di foto efficaci a risvegliare ricordi seppelliti o no dalla coltre del tempo, che senza causare stonature va continuamente avanti ed indietro, anche lasciando e riprendendo i personaggi, quasi tutti amici e membri della mitologia familiare (nonni, zii, cugini, sorelle, ecc.), messi in risalti anche con recuperi e riferimenti a una dovizia di immagini della mitologia ora classica ora biblica ora buddista.

In essenza racconta facendo un viaggio a ritroso, con una memoria variopinta. Una memoria che rimpiange il tempo perduto (persino di un'infanzia infelice), che è esplorazione e ricerca, ferma a scavare nelle cose e a ramificarsi in tante direzioni, a spaziare in un passato reale, trasfigurato, inventato, a ricreare eventi e fatti storici (specie quelli che riguardano la miseria e le tragedie seminate dalla guerra: ad esempio, "i nonni uccisi, sepolti dalle bombe […] La sveglia è ferma alle 4. 23 del mattino, è l'ora dell'Apocalise" p. 17; "le macerie della guerra ancora visibili per le strade" p. 19) e sociali (come quelli della scuola che non funziona, con professori sempre assenti, poco professionali, insensibili, egoisti, pp. 11-12), a mitizzare i ritmi della vita quotidiana tanto che trapela l'alone della favola. È una memoria molto inquieta, anche nel senso che dispiega un passato che magicamente diventa presente e futuro, efficace nel recuperare e nell'incidere gli umori, le passioni, gli stati d'animo e psicologici della protagonista, tanti particolari di una vita dolce-amara.

Nell'incipit appare una Mariarosaria anziana che, in una dimensione alquanto onirico, rivede, incontra, e dialoga con se stessa bambina ("dagli occhi tristi" p. 5), un topos della letteratura contemporanea, come avvertano racconti di Pirandello, di Buzzati, di Borges. Come in questi autori, anche qui il ricordo del mondo perduto aggrava il peso della solitudine e della sofferenza, e ha la funzione di impostare il motivo dello sdoppiamento/raddopiamneto dell'io, e nel romanzo si ritorna a enfatizzare come i passi della vita scelti o imposti, come le forze del destino pongono l'individuo nell'ambito della crisi (illustrata anche dall'azione rituale della protagonista di portarsi davanti allo specchio - ad es. p. 13), in situazioni che ne cambiano la personalità, che lo fanno vivere in balia di una perenne metamorfosi, come suggerisce il mitologema dell'acqua che simboleggia lo scorrere inarrestabile delle cose: "vedo la mia immagine riflessa nell'acqua. Mi sorrido. Le immagini sono due poi tre, cinque, tante. Le riconosco, sono tutte le mie dei tanti momenti della mia vita. Non mi meraviglia vederle" (p. 7), e che diventa una sorte di specchio magico in cui si annullano i segni del tempo (cfr. ad es. p. 8). Le metamorfosi spesso sono accompagnate dalla delusione, dalla disperazione, dal dolore. Ma nella chiusura a sorpresa, dove culmina il ricordo nostalgico e malinconico, appare una Mariarosaria che riabbraccia quella se stessa fanciulla che crescendo ha compiuto tante scelte per ritrovarsi, facendo trasparire un senso di ottimismo, un forte sentimento di pace interiore che si apre alla speranza, all'amore, alla fratellanza, ai valori evangelici: "Credo che possiamo sempre rialzarci, che possiamo sempre abbracciarci e sostenerci" (p. 152).

La scrittura dispiega la forza di un parlare che si traduce in confessione molto sentita, la volontà ferrea della protagonista di stabilire un dialogo schietto e diretto con i sui cari, amici e parenti, scomparsi o in vita, e nella narrazione questi dialoghi mancati, inseriti tra le virgolette, si fanno delicatamente immaginosi, sono animati da toni strazianti e tendono a fugare rimorsi e sensi di colpa, a chiarire incomprensione e infraintendimenti, a comunicare cose che non si sono mai dette, a scavalcare la barriera dell'incomunicabilità. In certe scene si impone il tono drammatico o sentimentale. La pagina a volte si colora di surrealismo, altre volte di onirismo, e un persino dell'atmosfera mitico-cosmica: "tutto è Armonia, io sono Armonia. Ora davanti a me ci sono tutti quelli che ho incontrato, anche se solo una volta nella mia vita. Sembrano schierati come in una parata, come chiamati ad un appuntamento importante. Li guardo, uno per uno, e nei loro occhi ritrovo le emozioni che ognuno di loro mi ha regalato. Sento la loro accoglienza, il loro invito a lasciarmi abbracciare" (p. 17).

Il realismo si fa sentire quando la scrittrice rivista con occhi di bambina e di adulta la realtà, scatta una fotografia accattivante della propria esistenza. Fin dall'infanzia Mariarosaria si rivela una creatura molto inquieta, determinata, orgogliosa, coraggiosa al punto che non teme né di contrastare né di sfidare i suoi capi corrotti del mondo lavorativo, che si ribella alle tradizioni, alle abitudini, e ai costumi millenari della cultura partenopea, che sogna cose irraggiungibili e sempre alla ricerca di qualcosa, come mostra il suo amore per la lettura di testi letterari, spesso rievocati con cura e delicatezza, o la decisione di iscriversi all'università di Roma che al tempo stesso è frequentata dai figli ("Mi sentivo Cristoforo Colombo alla guida delle caravelle, alla ricerca di una terra sconosciuta" p. 9); si rivela scissa tra il lavoro casalingo e quello universitario, l'uno odiato e l'altro amato; questa decisione di migliorare se stessa aggrava la situazione del suo matrimonio già in crisi. In tutti ricerca il filo della comunicazione, un rapporto idillico-spirituale, basato sulla compressione e simpatia, sulla tenerezza, sul calore, sull'affetto, e specialmente per gli amici e per i membri del clan familiare è pronta a sacrificarsi, ad annullarsi.

Fin dall'infanzia il suo carattere è segnato dall'ambiente domestico disarmonico problematico, infernale, in cui si vive rinchiusi nel silenzio e nel dolore, per la presenza di un padre padrone violento, che picchia duramente la moglie e i figli, che terrorizza e impone a tutti anche di indossare la maschera dell'ipocrisia sociale:

«Il primo ricordo che ho di lui è il terrore che mi gelava quando sentivo, la sera, il suo rientro, girare la chiave nella toppa.
Questione di minuti e ci sarebbero state mazzate selvagge per tutti. Anche per Mamma, dietro cui andavamo in fila a nasconderci. Si faceva il girotondo intorno al tavolo per un po', poi Babbo esasperato lo buttava per aria e allora era sotto a chi tocca […]
A casa mia non si parlava, ci si lamentava, si gridava, si piangeva. Con gli estranei però, Mamma e Babbo erano altre persone, allegre, sorridenti, divertenti. (p. 18)»

 

Le scene della violenza dentro e fuori le mura domestiche ritornano come in incubo nella memoria della protagonista. Da bambina non accetta l'idea di una società gretta e maschilista che considera la donna un oggetto dell'uomo, sente il vivo bisogno di emanciparsi, di sganciarsi e liberarsi da una realtà molto soffocante, come era capitato alla narratrice-protagonista Sibilla Alermo di Una donna, e infatti molti sono i punti di contanti di questo romanzo autobiografico con quello della Riccio. Dall'azione di sfidare il padre dispotico e di reagire a un marito incurante, assente, opprimente, quasi della stessa pasta del padre, si scatena il discorso femminista, una intricata rappresentazione di rapporti in cui Mariarosaria, da ragazza a donna matura, sogna un principe azzurro con cui condividere la vita, ma i suoi sogni, per un motivo o per un altro, fanno subito sbocciare profonde delusioni, disperazioni e pene, come avvertano le storie d'amore avute con uomini che la tradiscono dagli anni adolescenziali in poi o i suoi tentativi di fuga dai labirinti della quotidianità, talvolta enfatizzati con tocchi iperbolici (cfr. ad es. p. 68), Anche nei riguardi del padre nutre un logorante sentimento d'amore-odio, un sentimento che ingloba l'affabulazione del complesso edipico, e del carattere di una donna che non viene meno alle sue responsabilità di accudire il padre una volta invecchiato. Nella narrazione l'odio paterno, che da vita anche alla rievocazione del carattere folle e brutale del nonno paterno che riduce la moglie a guadagnarsi "da vivere col mestiere più antico del mondo" (p. 22), contrasta con l'amore per la madre, dipinta come una donna mite, buona, generosa, un simbolo sacro di madre cosmica. Il suo amore diventa un sostegno morale e psicologico per Mariarosaria, la sostiene nelle tempestose bufere della vita; la stessa cosa farà per i propri figli, anche lei vivrà in funzione di loro, e nei momenti difficili li sostiene realizzando ogni tipo di sforzo e ogni tipo di sacrificio. La madre qui è simbolo dell'amore elevato e viscerale. Il rapporto felicissimo tra Mariarosaria e la madre illumina quello tra Mariarosaria e la figlia Francesca: essi si rispecchiano, si intrecciano e si fondono sviluppandosi in misura parallela.

Più passa il tempo, più si acuiscono i ripiegamenti della protagonista, e perciò viene a sentirsi sempre più in balia del rimorso, del senso di colpa, di aver sbagliato tante cose, non solo verso i figli ma anche per essersi comportata una signorina molto fredda verso un padre che non accettando certe sue relazioni, non solo aggredisce il fidanzato, ma la picchia con "furore" e "furia selvaggia" anche "davanti alla gente" e la chiude in casa come una suora di "clausura" (p. 25).

Il marito che abbandona la casa per costruirsi con l'amante un'altra famiglia, il ritrovarsi tradita anche dagli amici più amati e una madre solo che si dedica allo sviluppo e alla guida di quattro figli, la morte del padre, della madre, e di una sorella, sono momenti raffigurati e rievocati con andamenti icastici, che fanno scoprire dolori e gioie della vita, la fragilità delle cose, i tanti misteri che compongono la nostra esistenza, a cui si tessono quelli di natura metafisica, come la morte che dal mezzo del romanzo alla fine diventa un'ossessione patologica, un incubo che tortura a vari livelli.

La prosa di questo romanzo sembra attenersi alla poetica post-moderna soprattutto per l'abbondante citazionismo di opere di autori antichi e moderni (ad es. Dante, Proust, Montale), per la venatura saggistica di certe pagine che raffigurano anche le sedute spiritiche in cui si cerca di contattare gli antenati, per enfatizzare questioni temporali con immagine antropomorfiche (come quella del portone-tempo testimone e osservatore delle storie d'amore che nascono e muoiono, p. 59). È in essenza una prosa essenziale, nitida, chiara, che si snoda su un periodo breve, che si rivale musicale, ritmica, cadenzata, grazie anche all'uso calibrato dell'anafora, dell'allitterazione, dei mezzi dell'iterazione, a volte costellata da espressioni e detti del dialetto napoletano, da pizzichi di ironia, ricca di aforismi e di toni poetici non solo quando focalizza ripiegamenti di vario tipo ma anche quando descrive in misura dettagliata gli spazzi paesistici e quelli interni dell'abitazione. Al di là della barriera mostra una scrittrice che possiede il talento di raccontare le cose per niente semplici.