IL CRISTALLO, 2010 LII 1 [stampa]

ONORA IL PADRE: IL CONFLITTO GENERAZIONALE NELLE OPERE DI GIORGIO BASSANI E DI ALCUNI SCRITTORI D'ORIGINE EBRAICA DI INIZIO NOVECENTO

di GIULIA GALASSI

Nell'opera di alcuni scrittori il sentimento di legame con una figura paterna amata ma autoritaria, distante ed irraggiungibile, sembra essere il motore dell'intera esistenza dei protagonisti delle narrazioni, arrivando a castrarne la volontà di affermazione professionale, sentimentale, umana, lo stesso slancio vitale.

In maniera particolare ed unica il rapporto tra padri e figli sembra venire scandagliato da alcuni autori di origine ebraica, italiani ed europei, di inizio Novecento: nelle loro opere viene sottolineato in maniera forte un rapporto generazionale conflittuale, che diventa talvolta di per sé il protagonista di alcune vicende.

Giorgio Bassani è stato un autore di fondamentale importanza nel panorama letterario dello scorso secolo: nato a Ferrara nel 1919 da famiglia appartenente alla «buona borghesia ebraica cittadina»1, trovò il modo di far emergere nei suoi scritti, in maniera evidente, il proprio viscerale modo di vivere il legame con la figura paterna. Questo sembra aver avuto un peso fondamentale nella sua stessa vicenda umana, oltreché in quella dei personaggi maschili dei suoi romanzi.

In altri autori, come Italo Svevo e Franz Kafka, il padre viene apertamente aggredito, aspramente criticato, mediante l'uso di vocaboli espressivi, forti, graffianti, carichi di quell'odio-amore che ha caratterizzato la frustrazione di un'intera esistenza. In Bassani, al contrario, è dato modo ancora una volta di apprezzare una delicatezza fuori del comune, un tocco leggero che, tuttavia, nulla toglie alla forza della verità.

Così sul conflitto generazionale, vissuto e sentito certamente con passione ed ardore dallo scrittore in primis, tuttavia descritto e narrato con rispetto e con quella difficile arte del contemplare anche realtà scabrose lasciando sempre aperto uno spiraglio di speranza, un'alternativa di riscatto.

Tra le pagine di due tra i più conosciuti romanzi dello scrittore ferrarese, Il giardino dei Finzi Contini e Gli occhiali d'oro, la presenza della figura del padre si impone pur restando in sottofondo, punteggiando entrambi i racconti con comparse a cadenze irregolari le quali lasciano però intuire il suo spessore in fatto di importanza, dignità e grandezza.

Quella del pater familias è un'immagine che in Bassani "esce" dalla pagina scritta, portando ad istituire corrispondenze precise con la vita dell'uomo e dell'artista, in particolare in relazione alle sue origini ebraiche.

I rapporti familiari sono, nell'opera di questo autore, lo specchio di un particolare modo di vivere l'esperienza dell'essere figlio sperimentabile all'interno di un sistema di valori tipico di una cultura, quella ebraica, che è sì una religione ma, contemporaneamente a questo, si trova ad essere, anche, «[…] un corpus di norme che investe tutta l'intera vita e le azioni di un individuo e, promovendo il conformismo e favorendo le tendenze conservatrici, ha una sua precisa e inestimabile funzione di mantenimento di caratteristiche culturali e di potenziamento dello spirito di coesione del gruppo.»2.

Il confronto tra Giorgio Bassani figlio ed il proprio padre, o quello tra gli adolescenti dei suoi romanzi ed i loro genitori, è più del conflitto psicologico che l'autore visse nel proprio intimo, prima, ed in seguito romanzò nei libri: è l'emblema di un attrito all'interno di una società, il portato di un'epoca testimone e vittima di importanti, numerosi e decisivi cambiamenti dei quali fecero esperienza varie generazioni.

Secondo Paola Frandini il 1938 (l'anno dell' entrata in vigore delle leggi razziali) segna uno spartiacque importante, per il romanziere ferrarese, anche riguardo al rapporto con il proprio padre:

Un rapporto armonioso, inalterato fino al sovvertimento del '38. […]3

Al di là, però, della visione soggettiva del rapporto filiale l'argomento viene affrontato, nella scrittura, in relazione all'ebraismo ed all'antisemitismo:

Bassani affronta un argomento di norma tenuto in sottordine parlando della persecuzione antisemita. L'argomento è appunto il padre e la perdita della sua autorità. Non più in grado di provvedere la famiglia e difenderla, cessa di esserne il centro. Nei suoi riguardi si conserva il rispetto ma il rispetto si mescola alla confidenza, regredisce quindi nella parità. In più: il comportamento del padre può essere soppesato, giudicato, compatito. "Mi scrutava coi suoi occhi azzurri, smarriti, che da molto tempo avevano perduto la speranza di impormi qualcosa. Credo queste due righe sufficienti. La diminuzione della figura paterna, cardine della struttura familiare e della educazione ebraiche, è un crampo dell'anima destinato a durare.4

Nell'ebraismo l'onorare i propri genitori è un obbligo religioso, una mitzvà fondamentale. Si legge nel Talmùd:

Queste sono le cose di cui si godono i frutti in questo mondo, mentre il capitale rimane per il Mondo Avvenire: l'onore tributato ai genitori, la beneficenza, il ristabilire la pace tra l'uomo e il suo compagno e lo studio della Torah, che equivale a tutte le altre. (Peah, I, I)5

Il dovere di «onorare il padre e la madre» viene considerato ed accolto nella religione ebraica (così come in quella cristiana, ma in maniera più radicale) come un precetto: è posto sullo stesso piano di quello dovuto a Dio, «l'Onnipresente».

È Dio in persona, addirittura, ad attribuirgli un'importanza ancora maggiore dell'onore da tributare ad Egli stesso in quanto, sempre nel Talmùd, si legge:

È scritto: 'Onora tuo padre e tua madre' ed è scritto pure: 'Onora il Signore con le tue sostanze'. Con che cosa onori Iddio? Con ciò che egli ti ha concesso, come quando adempi precetti quali il covone dimenticato, l'angolo del campo, le decime, la carità ai poveri, ecc. Se hai i mezzi di conformarti a questi precetti, fallo; ma se non li hai, sei libero dall'obbligo. Per l'onore dovuto ai genitori, invece, non esiste tale condizione. Che tu abbia mezzi o no, devi eseguire il comandamento, anche nel caso che tu sia costretto a mendicare di porta in porta. (Peah, 15 d)6

Nella religione ebraica, dunque, la famiglia ha un ruolo importantissimo e, all'interno di questa, il timore filiale per il proprio padre ed il rispetto a lui dovuto hanno valore di comandamenti non trasgredibili. Cosa significhi per un figlio essere timorato del proprio padre lo spiega sempre il Talmùd:

Per timore si intende che non deve occupare il posto di suo padre, sedersi sulla sua seggiola, contraddire le sue parole o decidere contro la sua opinione. Per onore si intende che deve fornirgli da mangiare, da bere, da vestirsi, da ripararsi, dargli la precedenza nell'entrare e nell'uscire. (Kid., 31 b)7

La casa ove dimora una famiglia nella quale tali mitzvoth vengono rispettate diventa luogo sacro, al quale Dio stesso fa visita onorando a Sua volta il focolare pregno d'amore con la propria presenza:

La casa in cui si onorano i genitori riceve la grazia della Divina Presenza. "Quando un uomo onora suo padre e sua madre, il Santo che benedetto sia, dice: 'Lo considero come se abitassi con loro ed Io stesso fossi onorato'. E quando un uomo affligge i suoi genitori, il Santo che benedetto sia, dice: 'Ho fatto bene a non abitar con loro, perché, se avessi abitato con loro, Io stesso sarei stato afflitto." (Kid, 30 b e sg.)8

Da sempre molto intenso è sentito il legame tra il popolo ebraico ed il proprio Dio Padre, simbolicamente sperimentato e proiettato innanzitutto in un rapporto di tipo filiale con Mosè, padre spirituale delle genti a lui affidate, e, in seguito, all'interno del nucleo familiare, nel binomio padre-figlio.

Molti scrittori ebrei trasferiscono nelle pagine dei loro romanzi il loro vissuto rispetto ad una figura paterna in qualche modo sempre condizionante, nelle storie dei personaggi da loro creati o anche, nel caso di Franz Kafka, nell' esperienza personale. Egli l'ha raccontata in accorate parole nell'epistola diretta al proprio padre, uno scritto commovente, quasi straziante: Lettera al padre.

Curioso, e legato «[…] all'indefettibile sentimento di lealtà degli ebrei verso il proprio patrimonio culturale»9 è anche il fatto che fu proprio un ebreo, Sigmund Freud10, a fondare la psicoanalisi e a dare una forte importanza alle figure parentali nello sviluppo dell'individuo, a quella del padre un peso non minore che alla materna. Egli nelle sue opere analizza i ruolo maschile nella coppia genitoriale e si occupa per primo del rapporto tra padre e figlio applicandovi il metodo dell'indagine psicoanalitica.

Freud affrontò certamente un tema non nuovo, perché da sempre i rapporti filiali sono un argomento ricorrente in tutte le manifestazioni dell'arte secondo la forma che ad ognuna di esse si confà (basti pensare agli illustri antecedenti nella tragedia greca) in quanto esperienza che fa naturalmente parte del bagaglio esistenziale di ciascun essere umano (junghianamente si potrebbe parlare di archetipo), ma mai nessuno prima del medico viennese l'aveva indagato con sistematicità e scientificità, studiandolo nel suo significato fondamentale per la crescita armonica della personalità.


Il punto di vista del "padre della psicanalisi", completamente innovatore, porterà ad una rivoluzione del concetto stesso di uomo. La teoria edipica, oltre a tutte le intuizioni che costituiscono il nerbo del suo pensiero, venne continuamente rielaborata ed aggiornata e fa ancora da sfondo al moderno impianto psicoanalitico. Rimane molto curioso il fatto che Sigmund Freud fosse ebreo. Come afferma

La casualità del genio non è da sola sufficiente a spiegare il fatto che sia stato a Vienna, allora centro di uno Stato che era il melting-pot delle forme familiari più diverse, dalle più arcaiche alle più evolute, dagli ultimi raggruppamenti agnatizi dei contadini slavi alle forme più ridotte del focolare piccolo-borghese e alle forme più decadenti della coppia instabile, […] che un figlio del patriarcato ebraico abbia immaginato il complesso di Edipo.11

Non sembra essere un caso nemmeno il fatto che, anche nella vita di questo personaggio rivoluzionario, la morte del padre abbia rappresentato un momento di svolta, un passaggio esistenziale cruciale:

A quei tempi [siamo nel 1895] egli era marito e padre – apparentemente – felice, e già neurologo, di un certo successo.
In questa situazione di ambivalenza scoppiò, nel '96, il fulmine della morte del padre, che egli definì come "l'avvenimento più importante, la perdita più straziante della vita di un uomo". Ma la crisi che ne seguì non era sofferenza pura; i suoi sogni di allora gli rivelarono quei conflitti interiori, quell'inevitabile violenta ostilità del figlio contro il padre, pure amato, che sono propri di ogni uomo, e che, per lui, erano alla base dei sentimenti di colpa già dedotti […]: egli stava sperimentando su di sé quel "ritorno del rimosso" e quell'"ambivalenza affettiva" che ebbero tanta parte nella sua impostazione di pensiero.12

Secondo lo psicologo Matteo Mugnani13, che a questi temi ha dedicato alcuni saggi clinici, in Freud c'è stata, oltretutto, sempre:

[una] sorta di "strabismo" clinico: un occhio rivolto al paziente, che gli fornisce il sostegno dell'esperienza, della verifica delle teorie; l'altro puntato all'indietro nella storia, per dedicarsi alla pura speculazione. […] Tutte le indagini di Freud alla ricerca del sopra citato "comun denominatore", nell'ambito della famiglia, della civiltà, delle religioni, finiscono sul ruolo del padre. […] [e, anche se] […] la prima psicoanalisi fu incentrata più sul ruolo materno, sul versante materiale del desiderio incestuoso dell'Edipo, e solo più tardi a partire da alcune osservazioni di Jung spostò l'attenzione sul ruolo del padre, ruolo che diventa centrale, focale, nell'Edipo, come colui che porta la legge e stabilisce un ordine, ponendosi a fondamento delle identificazioni (alla base dell'ideale dell'Io) e delle interiorizzazioni della legge (alla base del Super – Io) […]. Mi sento di dire che la psicoanalisi è una disciplina del padre, una lunga indagine sulla funzione del ruolo paterno nello sviluppo della civiltà […], nella famiglia […], nella religione […].14

Secondo la teoria edipica freudiana la figura paterna è «portatrice di legge» perché ad essa spetta la regolamentazione della fusione primordiale del figlio con la madre, fusione che, se prolungata, porterebbe alla nevrosi e ad uno sviluppo disarmonico della personalità: è il padre che interviene a provocare l'allontanamento di questi due soggetti, ponendo la base dall'interiorizzazione della norma, a salvaguardia del funzionamento del sistema di riferimento, sociale o singolare15.

Oggi il ruolo del padre ha assunto grande importanza, ed è molto considerato nello sviluppo del bambino e dell'adolescente.

La teoria freudiana rimane un'asse portante del pensiero di psicoanalisti e psicologi moderni. Ce ne offre un esempio il testo di Gustavo Pietropolli Charmet16, Un nuovo padre. Il rapporto padre-figlio nell'adolescenza, nel quale si riprendono le tesi di Freud calate in un'esperienza terapeutica e preventiva di moderni adolescenti problematici:

All'interno della famiglia, e più in generale dell'attuale contesto socioculturale, il nuovo padre interpreta un ruolo radicalmente diverso da quello del genitore autoritario a cui la tradizione ci ha abituati, ha un potere che potremmo definire "contrattuale". È quindi molto importante ridisegnarne i compiti partendo dalla consapevolezza che la sua funzione, in questo periodo della vita dei figli, è promuovere e garantire il processo di separazione dalla madre. All'incapacità di elaborare in modo corretto tale distacco è imputabile la maggior parte delle crisi adolescenziali […]17

La figura del padre sembrerebbe dunque aver subito, nel corso del tempo, notevoli stravolgimenti del proprio significato sociale all'interno di contesti che, dettati dalle condizioni storiche ed ideologiche, l'hanno dapprima stigmatizzata nell'autoritarismo, in seguito bistrattata e resa irraggiungibile nell'incarnazione dell'uomo ideale borghese, poi fatta precipitare dal piedistallo sul quale prima era stata eretta, portando le generazioni moderne alla cosiddetta necessità di «uccidere il padre», decretata conditio sine qua non è impossibile garantirsi, in qualità di figli, una crescita ed un posto nel mondo:

Lo schema classico della crescita prevede […] uno scontro classico e definitivo tra l'immagine del padre e il figlio: un caso tipico e simbolicamente "collettivo" di questa lotta è stata la contestazione giovanile degli anni Sessanta. 18

Ad oggi la figura paterna è trattata con molta ambivalenza. Da un lato ne viene esaltata la funzione, rivalutata l'incidenza ed, appunto, il ruolo fondamentale. Come ulteriore, nuovo passaggio oggi succede che:

[…] non esiste quasi più la possibilità che un adolescente trovi sulla scena familiare un padre ancora disposto a farsi uccidere: Oggi il padre gira per casa disarmato, non ha più la cinghia in mano e il colletto della camicia inamidato. Piuttosto, è un padre che se ne sta fuori della porta della camera del figlio in paziente attesa di ottenere udienza. […].19

I padri di oggi, abbandonato ogni autoritarismo, sembrano aver contemporaneamente perso anche in autorevolezza. Il loro rapporto con i figli è diventato di tipo quasi paritario, come descrive Frandini, e questo processo ha avuto inizio nel dopoguerra20.

La frattura più lacerante nell'immagine tradizionale del padre-capofamiglia, capace di farsi temere, rispettare (ma nello stesso tempo odiare) dai figli viene storicamente rintracciata nell'epoca che seguì la Seconda Guerra Mondiale, quando caddero alcune delle autorità simboliche per eccellenza, i grandi miti, che i giovani, in precedenza, si erano affrettati ad emulare.

Nella loro caduta trascinarono con sé, nel baratro, anche l'idea di un'autorevolezza in qualche modo legata alla maturità, all'anzianità, prima sinonimo di una stimabile saggezza.

Nel dopoguerra, come rilevò acutamente Italo Svevo, il concetto di vecchiaia si trasfigura e da sinonimo di saggezza degenera in metafora di «patologia», «decadimento».21

La scomparsa della figura del «grande burocrate» esistente nei vecchi imperi, in particolare nella Mitteleuropa ed in quel periodo storico, implicò il declino del concetto stesso di anziano nella sua accezione positiva, visto come colui che ha più esperienza e per questo è maggiormente degno di rispetto. La trasformò in un'idea di senilità totalmente denigratoria ed irriverente. La figura paterna ne uscì tremendamente umiliata, quasi ridotta a un feticcio da eliminare, ad un'immagine di pura decadenza;

[…] era il primo burocrate dell'Impero, Francesco Giuseppe, che nella sua persona richiamava l'idea di vecchiaia come indissolubile dall'Autorità stessa. Autorità politica perché autorità morale: e tutta la società austroungarica vedeva nella dipendenza tra le generazioni, nella continuità del modo di pensare e di vivere, una costante della sua storia immutabile. Sicché la rottura di questa continuità, la fine di questo mito, sarà uno dei sintomi che precipiterà in un totale disorientamento l'unità più spirituale che politica dell'eterogenea monarchia danubiana (le varie "stirpi" austriache).
La guerra, allora, si abbatterà come un destino senza rimedio alle illusorie costruzioni del vecchio mondo, a prescindere dalla responsabilità dei singoli e contro di essa. Di tale disorientamento si faranno interpreti scrittori della crisi mitteleuropea: Svevo, Musil, Roth, Zweig, Doderer e così via. Scrittori dai risultati e dai temperamenti diversi, ma che seppero individuare nella crisi di un mondo storicamente definito il motivo assai più vasto e universale della crisi dello spirito europeo alla viglia di una difficile epoca di transizione. I mutati rapporti generazionali sono il sintomo più appariscente di un più generale mutamento storico e morale: Nella nuova borghesia si affermava infatti l'etica dell'efficienza, il mito della novità ad ogni costo, l'orgoglio per quelle nuove dottrine che promettevano di sconfiggere la malattia e il dolore […]. Così il personaggio di una commedia sveviana, incapace di vivere da vecchio in un mondo divenuto assai diverso in un breve volger di tempo osserva:
Certo sarebbe una bella cosa di diventare giovine: perché è vero che in questa epoca non è permesso essere vecchi.22

La trasformazione subita dall'immagine autoritaria del padre sembra dunque, in un primo momento, avvenire in direzione di qualcosa che potesse rispecchiare il modello dell' uomo ideale per l'epoca: il borghese attivo, aggressivo, dinamico, vincente, artefice della propria fortuna.

Se il conflitto generazionale è uno dei temi ricorrenti e costituenti buona parte della letteratura mitteleuropea dell'epoca («austriaca in particolare», scrive Camerino, in una società profondamente strutturata sulla figura dell'imperatore, il quale veniva «non meno riverito di quanto non lo fosse il padre dai suoi figli»23), le stesse tematiche vennero sentite ed affrontate anche nel resto d'Europa da alcuni scrittori che, come Bassani, visse intensamente e profondamente il rapporto con il proprio padre, pur venendo a mancargli l'esempio di un sovrano assurto a «mito politico e religioso per tutti i sudditi (ciò che storicamente è chiamato cesaropapismo politico)»24.

Anche dalle sue parole traspaiono un grande attaccamento ed un amore sincero per la propria famiglia e per il proprio genitore in particolare. Un attaccamento, tuttavia, anche in questo caso non privo di contraddizioni e di conflittualità.

Il rapporto di Bassani con il proprio padre, prima di rivelarsi nelle pagine dei romanzi attraverso le vicende dei personaggi, rimane nelle interviste meno esposto, meno esibito. Può essere però ugualmente interpretato e recuperato attraverso le parole delle lettere spedite dalla prigione di via Frangipane ai propri familiari, epistole cariche di emozioni e di tutti quei non detti che ci perseguitano mentre viviamo fianco a fianco con i nostri cari ed irrompono, in questo caso nella scrittura, quando ci troviamo da loro lontani. Quando la sincerità ha la meglio sull' ipocrisia del quotidiano.

Al padre, dal carcere, scrive:

Come stai? Quand'eri qui, io stavo molto in pensiero per il tuo stomaco. Quando sei andato via, quella sera famosa […], non ti nascondo che insieme a molta gioia ho sentito un po' di pena. L'idea che eri qui mi faceva compagnia. Che tu adesso fossi a casa destava in me una punta di invidia. Certo è, in ogni caso, che nemmeno questa volta potrò dire di aver provato qualcosa che tu non abbia provato. Non potrò nemmeno questa volta farti star zitto. Non ho fortuna, devi riconoscerlo…25

Da queste parole traspare già una sorta di attrito dello scrittore con il proprio genitore, lo stesso conflitto che poi tornerà, esplicitato, nei dialoghi degli ultimi due romanzi del ciclo di Ferrara, e con molta più schiettezza, tra i deuteragonisti delle vicende, i narratori, e i propri padri.

In questi dialoghi a volte aspri, amari, ai tormenti dell'adolescenza vengono ad aggiungersi le tensioni e le divergenze di idee sul regime, fomentate dalla difficile situazione storica e politica presente.

Le radici della tensione, oltre ad avere una spiegazione immediata nella "lotta" che ogni figlio si trova a condurre per liberarsi della figura a volte ingombrante del proprio padre, devono essere ricercate dunque in quella che Baldi definisce «[…] una crisi generale della nozione di uomo e dell'identità maschile che caratterizza la fine secolo, e che la letteratura non manca di registrare ampiamente […]»26.

In L'immagine dell'uomo. Lo stereotipo maschile nell'epoca moderna, Mosse fa risalire temporalmente l'edificazione dell'idea di mascolinità moderna alla fine del Settecento, quando agli «[…] antichi ideali della virilità, limitati all'aristocrazia, [che] si basavano in larga misura su quelli di una casta guerriera […]» se ne sostituirono altri, più temperati, «[…] dopo che forme di governo più forti ebbero imposto limiti precisi alla violenza.»27.

Vennero quindi a mancare gradualmente manifestazioni tipiche della società cavalleresca ed aristocratica, quali i tornei, sostituite dal duello (maggiormente controllato nella manifestazione della violenza) fino ad arrivare ad un ideale di mascolinità che nella società ottocentesca contemplava virtù come la forza di volontà, l'onore, il coraggio, tutte caratteristiche che l'ideologia fascista e nazista del Novecento stigmatizzarono nella figura dell' «uomo nuovo»:

nazionalista, […] squadrista, […] si ispirava all'esperienza bellica, e anzi viveva in uno stato di guerra permanente: sempre in divisa, sempre in marcia, votato all'esercizio fisico e allo sfoggio di virilità, [con] un adeguato tono morale.28

Sembra essere stato davvero irrealizzabile, per giovani figli dotati di spirito contemplativo, sensibilità ed attitudine alla bellezza fine a se stessa, i cosiddetti individui svevianamente dotati di ali, sì, ma adatte solo ai «voli poetici» (non al «piombare a tempo debito sulla preda»29) raggiungere, eguagliare, identificarsi anche in minima parte in immagini di padri cresciuti prima nel culto dell'immagine dell'uomo attivista e affarista scaltro e prepotente, tipicamente borghese e moderno poi in quello dell'uomo nuovo nazifascista.

Nelle tormentate relazioni tra figli e padri di molti romanzi del Novecento il naturale decorso del rapporto padre-figlio è stravolto e viene a definirsi in termini ben più aspri, proprio perché coinvolge una problematica di più ampio raggio: sociale ed antropologica.

In Giacomo G. Cives leggiamo:

[…] numerosi effetti psicologici ci sembrano derivare da un declino sociale dell'imago paterna. Declino condizionato dal ritorno sull'individuo di effetti estremi del progresso sociale, declino che si nota soprattutto ai nostri giorni nelle collettività più provate da questi effetti: concentrazione economica, catastrofi politiche […] sono proprio le forme di nevrosi dominanti alla fine dell'ultimo secolo che hanno mostrato d'essere profondamente legate alle condizioni della famiglia […] fino a farsi un "complesso caratteriale" nel quale si può riconoscere la grande nevrosi contemporanea. La nostra esperienza […] ci porta a individuarne la determinazione principale nella figura del padre, in qualche modo sempre assente, umiliata, divisa o posticcia. […].30

Il senso di inferiorità nei confronti di un padre ritenuto superiore, realizzato, ma soprattutto rappresentante l'ideale di una classe sociale, quella borghese, in netta antitesi con l'indole contemplativa e sensibile di un figlio scrittore (contemplatore, in generale) rende le figure filiali di alcuni romanzi dell'epoca immagini di "inetti".

Nella «massa anonima e appiattita» della nuova società capitalista e borghese dell'epoca «l'individuo nella sua particolarità personale non conta più, ma appare solo come una funzione insignificante in un meccanismo» [e gli] «intellettuali si trovano anch'essi […] declassati rispetto al ruolo ben più prestigioso di cui godevano in altre formazioni sociali precedenti […] costretti a vendere i prodotti del loro ingegno come merci, ad operare in un contesto dominato da principi opposti e inconciliabili con il loro culto della bellezza disinteressata.»31.

Così lo stesso sentimento di inadeguatezza rende la relazione tra le generazioni violenta, per il tentativo male o mai riuscito di eguagliare un eroe, il padre, che nello stesso tempo «non è altro che il modello di uomo proposto dalla società borghese ottocentesca […] è l'individuo borghese, libero, energico, sicuro di sé e delle sue forze, capace di crearsi il suo mondo con la sua iniziativa e la sua volontà, entro la sua sfera d'azione che è costituita dalla famiglia e dall'attività produttiva.»32.

Il rapporto tra i personaggi maschili ed adolescenti bassaniani ed il proprio padre non è che uno degli esempi, nemmeno troppo violento, di quell'opposizione generazionale che compare sovente nei romanzi dell'epoca.

Tra questi, forse, la rivelazione più estrema del conflitto si dà in quella Lettera al padre che Kafka, nel 1919 scrisse, in prima persona, precedendo di alcuni anni le narrazioni bassaniane.

Quest'opera risulta essere così intima, così rivelatoria, irriverente e commovente, perché scritta dall'uomo Kafka al proprio padre in occasione dell'ennesimo tentativo fallito di matrimonio. Essa è priva dell'infingimento che inevitabilmente deriva dall'ideazione di personaggi romanzeschi: il figlio (che si firma, a fine lettera, proprio «Franz», nome dello scrittore Kafka) riversa sulla figura autoritaria, altamente imperfetta eppure tragicamente irraggiungibile del proprio padre, tutto il sentimento di frustrazione che tale figura, perché sacralizzata, suscita in lui ed in lui convive con una sensazione di frustrante impotenza.

Nella stessa accusa emerge la violenza diretta al padre stesso: l'accusa è, oltreché di aver inflitto infinite ingiustizie e violenze psicologiche33, di essere, oltretutto, in grandezza e prepotenza, causa della personale mancata realizzazione come uomo e padre, a propria volta.

Molto toccante il passo nel quale, attraverso un'immagine commovente, Kafka rende l'idea dell'invadenza insopportabile del genitore anche dal punto di vista fisico, spaziale. Non sembra esserci spazio per entrambi, padre e figlio, sul solo globo terrestre.

Talvolta mi immagino la mappa della Terra dispiegata e te disteso sopra di traverso. Allora è come se potessi prendere in considerazione per la mia vita solo quei territori che tu non copri o non puoi raggiungere. Ma questi, in base all'idea che ho della tua grandezza, non sono molti e danno poco conforto;34.

Un altro autore dell'epoca affronta il tema del conflitto con la figura paterna: ne La coscienza di Zeno Italo Svevo, presenta il protagonista della vicenda, Zeno Cosini, come un "inetto" per eccellenza.

Egli è arrabbiato col proprio padre come molti personaggi sveviani e nel capitolo intitolato proprio La morte di mio padre vive una profonda disperazione per il decesso di colui che aveva inizialmente definito, senza troppe remore, «vecchio Silva manda denari»35.

Anche questa figura è una presenza forte, schiacciante, determinante tutta la vicenda umana del protagonista.

In questo caso la sua influenza agisce persistentemente fino all'età adulta, un conflitto mai risolto che alimenta addirittura una delle caratteristiche malate del protagonista: Zeno fa suo un «bisogno insopprimibile dell'autoinganno»36, che si potrebbe riassumere nel concetto di abitudine a mentire a se stessi circa il proprio stato di incapacità ad agire nella vita. Un meccanismo quasi psicotico di negazione della realtà del quale egli è tuttavia consapevole.

Ancora più netta e radicata sarà la patologia nell' Emilio Brentani di Senilità, ma l'attitudine all'imbroglio della propria coscienza è, in Zeno, abbastanza forte da spingerlo addirittura ad immaginare, come in un delirio, il padre debole, se stesso forte, in un rovesciamento di ruoli che rende più netta la sensazione di un complesso di inferiorità profondissimo:

«[…] posso dire che, fra noi due, io rappresentavo la forza e lui la debolezza…in me c'è e c'è sempre stato […] un impetuoso conato al meglio […]. Mio padre non conosceva niente di tutto ciò. Egli viveva perfettamente d'accordo col modo come l'avevano fatto e io devo ritenere ch'egli mai abbia compiuto degli sforzi per migliorarsi […]», [ma, aggiunge Zeno], «Mio padre sapeva difendere la sua quiete da vero pater familias. L'aveva questa quiete nella sua casa e nell'animo suo.»37

Questa ultima notazione sembrerebbe essere più un ammirato complimento che una nota denigratoria. Nello stesso momento il giovane disprezza il proprio padre per la sua tranquillità interpretandola come passività, emerge, infine, un gioco di patologiche proiezioni: l'inerzia tanto denigrata è la propria.

Non riuscendo, per inettitudine, a dare seguito alle proprie aspirazioni fa ricadere la colpa sul genitore, accusandolo dei difetti propri: in realtà è egli stesso ad essere incapace di azione.

Vi è sempre questa oscillazione tra l'ammirazione e il biasimo, nelle parole dei figli inetti, che può essere interpretata come rabbia verso un ideale vissuto come irraggiungibile.

Nel Bassani del Giardino dei Finzi-Contini traspare, invece, un'immagine paterna fatta di continue notazioni in contrasto fra di loro in bilico tra l'affetto ed il disprezzo, la compassione e la rabbia.

Il padre del protagonista è un uomo buono, candido ma ingenuo, ed è questo suo ultimo aspetto a suscitare nel figlio un'indignazione strisciante:

Famoso per il suo candore, mio padre non si rendeva conto delle "cosiddette" situazioni prima di trovarcisi immerso fino al collo.38

Romantico, patriota, politicamente ingenuo e inesperto come tanti altri ebrei italiani della sua generazione, anche mio padre, tornando dal fronte nel '19, aveva preso la tessera del Fascio.39

In Bassani emerge anche un'inattesa solitudine: il figlio si sente abbandonato a se stesso dal proprio padre per ragioni di divario generazionale, non per mancanza di affetto. Egli si sente solo nella lotta contro gli errori del proprio tempo, primo fra tutti l'instaurarsi del regime fascista, lasciato al suo destino da un padre che ha rinunciato a combattere. Non sappiamo se lo abbia fatto per stanchezza o per incapacità costituzionale, ma, quale che sia stata la motivazione, nel figlio si è generato un sentimento di sottile disprezzo:

La gioia di mio padre – pensavo – era quella dello scolaretto ingiustamente espulso, il quale, richiamato indietro per ordine del maestro dal corridoio deserto dove rimase per un poco di tempo in esilio, si trovi, ad un tratto, contro ogni sua aspettativa, riammesso in aula fra i cari compagni: non soltanto assolto, ma riconosciuto innocente e riabilitato in pieno. Ebbene, non era giusto, in fondo, che mio padre gioisse come quel bambino? Io però no. Il senso di solitudine che mi aveva accompagnato in quei due ultimi mesi diventava, se mai, proprio adesso, ancora più atroce: totale e definitivo. Dal mio esilio non sarei mai tornato, io. Mai più.

Sembra quasi che i padri, fatto il loro tempo, combattute le proprie battaglie, si ritirino infine, ingiustamente, in una quiete immobile ed incomprensibile allo spirito battagliero delle nuove generazioni, lasciando il mondo allo sfascio per godere una quiete in fondo inammissibile:

Quando avesse finito di mangiare, mio padre si sarebbe ritirato di là, a dormire steso sopra il divano di pelle. Lo vedevo. Separato, là, chiuso, protetto. Come dentro un roseo bozzolo luminoso. Col viso ingenuo offerto alla luce, dormiva avvolto nella sua mantella…. 40

Nemmeno i padri di Bassani, oltretutto, comprendono l'indole contemplativa dei propri figli: il loro amore per la letteratura, l'arte, la poesia. Le considerano faccende da "femminucce" o da "inetti", nel senso sveviano del termine.

Gli occhiali d'oro precede cronologicamente Il giardino dei Finzi-Contini, sia in termini di data di pubblicazione, sia di racconto. Di questo ultimo particolare ci si rende facilmente conto grazie ad un accenno che nell'ultimo romanzo si fa al precedente. Lo si trova nel corso di un dialogo tra il ragazzo ed il proprio padre quando questi, discorrendo attorno all'esasperata sensibilità del figlio, afferma:

"Mi rendo anche conto che il tuo è un carattere un po' speciale […] e non credere che due anni fa, quando quel disgraziato del dottor Fadigati…"
Da quando Fadigati era morto, in casa non l'avevamo più nominato. Che cosa c'entrava Fadigati, adesso?»41


L'io narrante delle due vicende è dunque la stessa persona, lo stesso giovane judì, che nel primo romanzo inizia a frequentare l'università (la Facoltà di Lettere, a Bologna) e stringe amicizia con il "famigerato" dottore omosessuale, Fadigati. Nel secondo racconto, a seguire, termina gli studi con una tesi «sul Panzacchi». Egli ci dà modo di rivedere alla moviola, insieme a lui, quasi tutta la propria infanzia ed adolescenza nella rimembranza dolce e nostalgica del suo amore per la bionda Micòl Finzi Contini.

Il rapporto con il padre fa da sfondo discreto ma persistente alla narrazione e può così essere compreso nel suo evolversi, da quando il personaggio appare, all'incirca a metà del primo romanzo, Gli occhiali d'oro: siamo sulla costa Adriatica, teatro dello scandalo destato dalla relazione tra il dottore ed il giovane Eraldo Deliliers, suo giovanissimo e spregiudicato amante.

Le descrizioni che l'adolescente porge del proprio genitore fanno subito capolino: irriverenti, fulminee, pungenti, sconsolate, a volte, altre volte quasi ciniche ed intrise di una certa amarezza per una personalità che, nonostante l'affetto, lo ha deluso un poco, a posteriori.

Nel romanzo anche la figura del figlio è in parte ambivalente: questo inetto non è un perdente fino in fondo. Il suo bagaglio di vitalità emerge più chiaramente in contrasto con la personalità ben più passiva e remissiva del protagonista della vicenda, il suo compagno nell'isolamento, il dottor Fadigati, ed emerge anche nel confronto con una figura paterna un po' debole, un po' arresa, quella che Bassani-uomo sembra aver vissuto in prima persona.

Il padre bassaniano è, come quelli sveviano e kafkiano, un uomo che non comprende l'intima sensibilità e la natura del figlio, ma nello stesso tempo è un vecchio, entrato già a pieno titolo in quella schiera di senescenti (nel senso deteriore del termine) che una società post-bellica ha coniato senza più concedere spazio alle debolezze e all'improduttività.

Il figlio bassaniano ne è in parte deluso: dal punto di vista umano ed anche politico confronta quell'immagine con la propria, con la carica di energia che egli sente di voler impiegare per cambiare il proprio destino e una situazione storica insopportabile.

Il padre è invece debole, inerte, rilassato e rassegnao, appartenente ad una generazione passata e in un certo qual modo sbagliata. Si arrenderà al proprio destino come in parte farà lo stesso Fadigati decidendo di autoescludersi dal consorzio umano, per togliere il disturbo arrecato dalla propria presenza scomoda.

Nelle brevi descrizioni del padre porte dal figlio però, in Bassani, qualcosa risulta essere anche oggetto di pietà, di comprensione. Qualcosa viene salvato, pur persistendo il sentimento di svalutazione, di delusione, non certo l'idea di un padre-eroe da ammirare, denigrato anche perché in fondo irraggiungibile, come era stato soprattutto in Kafka, in parte in Svevo.

Nel Giardino dei Finzi-Contini l'io narrante ha con il padre un rapporto più apertamente conflittuale, di figlio mai veramente affrancatosi da una tutela che con l'età diventa un vincolo pesante.

Ad essere fallimentare, in questo racconto, è soprattutto la vita amorosa del giovane. Quando, verso il termine del romanzo, i rapporti tra il giovane ebreo e Micòl, la bella coetanea della quale egli è profondamente innamorato, giungono oramai all'esaurirsi d'ogni speranza di conquista perché egli è incapace di essere essere sanamente aggressivo e determinato.

La sua forma particolare di inettitudine (sempre una forma di incapacità d'azione) gli farà perdere la faccia davanti alla ragazza ed ai suoi amici.

Quando egli, infine, trova il coraggio di confidarsi con il padre l'altro lo incalza di domande che vorrebbero essere complici, di consigli che vorrebbero colmare una distanza emotiva tra i due durata troppi anni, ed invece che confortarlo o consigliarlo lo critica:

Benché fosse così tardi, mio padre non aveva ancora spento la luce. […] Se rientravo dopo l'una era difficile che mi riuscisse di superare il corridoio lungo il quale si susseguivano una dopo l'altra le camere da letto […] senza che lui se ne accorgesse. […] Come era da prevedersi, anche quella notte non ero sfuggito al suo controllo. […] stava seduto in camicia da notte […]. Mi colpì come tutto, di lui e attorno a lui, fosse bianco: argentei i capelli, pallido e smunto il viso, candidi la camicia da notte, il guanciale dietro le reni, il lenzuolo, il libro posato aperto sul ventre; e come quella bianchezza (una bianchezza da clinica, pensavo) si accordasse alla serenità sorprendente, straordinaria, all'inedita espressione di bontà piena di saggezza che gli illuminava gli occhi chiari […]
Lo guardavo, così bianco, così fragile, così vecchio, e intanto era come se qualcosa dentro di me, una specie di nodo, di annoso groppo segreto, venisse adagio sciogliendosi. […] "Il tuo temperamento […], il tuo temperamento…sei troppo sensibile, ecco, e così non ti accontenti…vai sempre a cercare…"
Non finì. Accennava con la mano a mondi ideali, popolati da pure chimere. […]
Non andarci più, a casa loro. […] È più da uomo, fra l'altro."
Aveva ragione. Fra l'altro era più da uomo.42


Traspare ancora, da queste parole, una crescente pietà per un «vecchio», «bianco e fragile». La tensione si stempera in una sorta di arresa a ciò che non è più possibile cambiare:

Mi levai, mi chinai su di lui per baciarlo, ma il bacio che ci scambiammo si trasformò in un abbraccio lungo, silenzioso, tenerissimo.43

In secondo luogo, si avverte una sorta di sentimento, da parte del figlio ribelle: la sensazione di essere sempre, in qualche modo, nella posizione sbagliata di fronte agli occhi chiari del vecchio.

Lungo tutta la vicenda suona, in sottofondo, un ritornello che il padre ripete spesso, con parole sempre diverse ad esprimere un medesimo concetto: sei così, lo vedo, ma così come sei non vai bene;

"[…] Inoltre, io avevo studiato da medico, mentre tu…"
"Mentre io?"
"Sicuro. Tu, invece di medicina, hai preferito prendere Belle Lettere, e sai che quando è venuto il momento di decidere io non ti ho ostacolato in nessuno modo. […] Ma adesso? Anche se, come professore, tu avessi aspirato alla carriera universitaria…"
Accennai di no con il capo.
"Peggio" riprese lui,"peggio! È ben vero che niente, anche adesso può impedirti di […] tentare, un giorno, se sarà possibile, la carriera ben più difficile ed aleatoria dello scrittore, del critico militante […] oppure, perché no? , del romanziere, del…", e sorrise,"…del poeta…Ma appunto per questo: come potevi alla tua età, che hai appena ventitrè anni, e davanti a te tutto ancora da fare…come pensavi di prendere moglie, di mettere su famiglia?".
Parlava del mio futuro letterario – mi dicevo – come di un sogno bello e seducente, ma non traducibile in qualcosa di concreto, di reale. Ne parlava come se io e lui fossimo già morti, ed ora, da un punto fuori dello spazio e del tempo, discorressimo insieme della vita, di tutto ciò che nel corso delle nostre vite sarebbe potuto essere e non era stato.»44

Come accennato prima, nelle interviste e negli scritti lasciati da Bassani, nei quali parla di sé in prima persona, gli accenni al rapporto con il padre sono poco diretti, poco espliciti. Nonostante questo, la figura paterna è spesso rievocata, e con accenti che riportano alle pagine dei romanzi.

Traspare da quegli scritti l'immagine dello scrittore anch'egli giovane e ribelle, in antagonismo con la generazione del proprio padre e degli uomini che lo avevano preceduto. Dentro di lui la voglia e la forza di cambiare un regime odiato fino all'esito estremo.

L'occasione di rivalsa, per lui, venne a presentarsi nella veste scomoda di una vita da trascorrere nella militanza antifascista, scelta che egli abbracciò fino a scontare l'incarcerazione, con una determinazione fuori del comune nell'affermare se stesso e la propria diversità rispetto a ciò che ci si poteva aspettare da un ragazzo di buona famiglia borghese, anche se ebrea:

Per ciò che riguarda esclusivamente me, gli anni dal '37 al '43, che dedicai quasi del tutto all'attività antifascista clandestina […] furono tra i più belli ed intensi dell'intera mia esistenza. Mi salvarono dalla disperazione cui andarono incontro tanti ebrei italiani, mio padre compreso.45

La mia famiglia non mi ha affatto aiutato a diventare uno scrittore. Come avrebbero potuto? […] Può darsi che io nonno paterno, mio padre, e mio zio materno, Giacomo, tutti e tre medici, desiderassero che prendessi anch'io medicina. Comunque sia, non appena arrivato all'università, mi sono iscritto a Lettere […] per passione, per affinità intellettuale.46

Questi stralci possono dare un'idea, ancora una volta, di quanto di autobiografico si trovi nelle pagine dei romanzi di Giorgio Bassani.

Il rapporto con il padre è nella letteratura ebraica del Novecento determinante anche per un particolare aspetto della personalità dei protagonisti dei romanzi dell'epoca, aspetto che è impossibile scindere da altrettante caratteristiche attribuibili alla figura dell' ebreo, anche moderno: svalutando la figura paterna, cercando in qualche modo di differenziarsi da essa o nascendo sbagliati, diversi, alcuni figli si sentono, consapevoli «[…] di non saper pensare che con la penna in mano […]»47, ovvero, inequivocabilmente degli inetti. Ma questo è un altro racconto.

 


NOTE


1 G. BASSANI, Opere, Mondadori, Milano, 2004, a cura di R. Cotroneo, p. LXI.

2 A. NEIGER, Bassani e il mondo ebraico, Loffredo Editore, Napoli, 1983, p. 79

3 P. FRANDINI, Giorgio Bassani e il fantasma di Ferrara, Manni, Lecce, 2004, p. 55.

4 Ibidem, p. 56.

5 A. COHEN, Il Talmud, Laterza, Bari, 2005, p. 174.

6 Ibidem, p. 223.

7 Ibidem, p. 223.

8 Ibidem, p. 224.

9 A. NEIGER, Op. Cit., p. 79.

10 «Nato il 6 maggio 1856 da modesta famiglia israelitica, a Freiberg (Moravia), Freud attribuiva a questa sua condizione – l'essere ebreo e austriaco – la propria capacità di sopportare il peso di una posizione impopolare, il misconoscimento, la solitudine, le accuse, le calunnie che gliene derivavano: quasi una predestinazione.» da S. FREUD, Opere, Newton, Roma, 1992, Nota Bibliografica, p. 7.

11 J. LACAN, Il complesso familiare, in G. CIVES, La sfida difficile. Famiglia ed educazione familiare, Vallardi, Padova, 1990, p. 79.

12 S. FREUD, Opere, Newton, Roma, 1992, p. 8.

13 MATTEO MUGNANI è psicologo ed attualmente esercita a Rimini, dove si occupa in particolare dei problemi legati ai disturbi alimentari nel centro diurno MondoSole. Ha fondato la casa editrice La Bottega dell'Es nel 1988 e pubblicato diversi saggi online tra cui Contradditorietà del ruolo paterno in Freud (dal quale è tratta la citazione) e Il padre come sintomo collettivo. Dell'impossibilità della condizione di figlio. Il suo sito personale,http://www.matteomugnani.com/, ha ottenuto il riconoscimento dell' Ordine degli Psicologi della regione Emilia Romagna.

14 M. MUGNANI, Op. Cit.

15 […] nella triangolazione edipica, infatti, il padre si trova come detto nella posizione ambivalente di rivale, di contendente al corpo della madre ed al tempo stesso di modello-ideale […] a cui conformarsi, e da quella posizione ha la facoltà di offrire come risarcimento alla rinuncia pulsionale imposta con la castrazione un ideale dell'Io che diventa il passepartout del figlio verso la possibilità di sublimare il desiderio incestuoso, identificandosi a lui […], M. MUGNANI, Contraddittorietà del ruolo paterno in Freud, in http://www.matteomugnani.com/.

16 G. PIETROPOLLI CHARMET (Venezia, 1938) è docente di psicologia dinamica presso la facoltà di Psicologia dell'Università Statale di Milano, è giudice onorario del Tribunale per i minori e presidente dell'Istituto di analisi dei codici affettivi Minotauro: i suoi scritti riguardano principalmente studi sull'adolescenza, ed in essi analizza profondamente i rapporti generazionali rivolgendosi ai genitori in un'opera di accorato appello alla prevenzione del disagio giovanile.

17 G. PIETROPOLLI CHARMET, Un nuovo padre. Il rapporto padre-figlio nell'adolescenza, Mondadori, Milano, 1995, p. 4.

18 Ibidem, p. 15.

19 Ibidem, p. 76.

20 Vedi la nota 2 del presente capitolo.

21 G. A. CAMERINO, Italo Svevo e la crisi della Mitteleuropa, Le Monnier, Firenze, 1974.

22 G. A. CAMERINO, Op. Cit., pp. 77-79.

23 Ibidem, p. 84.

24 Ibidem, p. 78.

25 G. BASSANI, Opere, Mondadori, Milano, 2004, p. 954.

26 G: BALDI, Le maschere dell'inetto: lettura di Senilità, Paravia Scriptorium, Torino, 1998, p. 18.

27 G. L. MOSSE, L'immagine dell'uomo. Lo stereotipo maschile nell'epoca moderna, Einaudi, Torino, 1997, p. 21

28 G. L. MOSSE, Ibidem, pp. 208-210.

29 In Una vita uno dei personaggi sveviani, Alfonso, osserva il volo dei gabbiani e chiede all'amico Macario, che sta osservando con lui la precisione degli uccelli nel catturare il pesce grazie ad ampie ali ampie: «[…] "Ed io ho le ali?" […] "Per fare dei voli poetici sì!", rispose Macario, e arrotondò la mano […].» in I. SVEVO, Una vita, Garzanti, Milano, 2003, p. 92.

30 G. CIVES, Op. Cit., p. 79.

31 Ibidem, p. 19.

32 Ibidem, p. 18.

33 Molto significativa in relazione a tutte le sofferenze accusate dal bambino Franz una scena descritta nella lettera: «Direttamente ricordo solo un episodio dei primi anni…Una notte, continuavo a piagnucolare chiedendo dell'acqua […] Dopo che alcune pesanti minacce non erano servite, mi sollevasti dal letto e mi portasti sul ballatoio, dove mi lasciasti per un po' da solo, in camicia, davanti alla porta chiusa […] In seguito fui ubbidiente, è vero, ma ne riportai un danno interiore. Quella sciocca ma per me naturale richiesta di acqua e il fatto tremendo di venire chiuso fuori, all'aperto, non riuscii mai a porli nella giusta connessione. Ancora dopo anni soffrivo per il pensiero angoscioso che il gigante, mio padre, l'istanza suprema, potesse quasi senza motivo arrivare di notte per tirarmi fuori dal letto e portarmi sul ballatoio, e che quindi per lui non ero che una nullità.», F. KAFKA, Lettera al padre, Giunti Editore, Firenze, 2007, p. 93.

34 Ibidem, p. 239.

35 I. SVEVO, La coscienza di Zeno, Mondadori, Milano, 2008, p. 30.

36 G. BALDI, Op. cit., p. 105.

37 I. SVEVO, Op. cit., p. 31.

38 G. BASSANI, Gli occhiali d'oro, Mondadori, Milano, 2004, p. 51.

39 Ibidem, p. 55.

40 Ibidem, p. 111.

41 G. BASSANI, Il giardino dei Finzi-Contini, Mondadori, Milano, 1997, p. 230.

42 G. BASSANI, Il giardino dei Finzi-Contini, Mondadori, Milano, 1980, pp. 224-231.

43 Ibidem, p. 231.

44 Ibidem, p. 229.

45 G. BASSANI, Opere, Mondadori, Milano, 2004, p. 1320.

46 Ibidem, p. 1324.

47 I. SVEVO in G. A. CAMERINO, Op. Cit., p. 91.