IL CRISTALLO, 2010 LII 1 [stampa]

GLI ARTISTI MEDIALI

di VITTORIO SELLERI

Premessa


Dopo la storia del Medialismo analizzata sia nella successione degli eventi sia nelle sue teorie principali, nel saggio Il medialismo nell'arte (pubblicato nel N° 2-3 del Cristallo, Dicembre 2009), vorrei ora delineare il profilo di alcuni fra i più importanti artisti mediali.

Fra tutti gli artisti mediali la figura di maggior spicco e più affermata internazionalmente, è quella di Maurizio Cattelan. Egli fa parte di quella ristretta cerchia di artisti internazionali che vendono le loro opere a prezzi altissimi e appartengono allo star system dell'arte.

Tutti possono ricordare il suo intervento alla 49° Biennale di Venezia del 2001.

L'installazione Hollywood, ben 170 m di lunghezza e 23 m di altezza, non era situata ai Giardini, nella sede della Biennale, ma su una grande discarica di rifiuti a Palermo. Era visibile solo ad una ristretta cerchia di galleristi, critici e collezionisti internazionali condotti in elicottero sopra la collina di rifiuti su cui era posizionata la scritta. In altri termini un'operazione non solo d'arte ma di public relations.

Come tante sono le forme di comunicazione nella vita sociale così molteplici sono le forme espressive e quindi gli stili degli artist mediali. Il medialismo è anche un po' questo: il proliferare incessante di forme stilistiche che nascono per un processo di azione-reazione-critica dei processi comunicativi stessi anche attraverso media nuovi. Tozzi si esprime, ad esempio attraverso la net art, le net criticalzine, la BBS (Broadcasting Board System) i dischetti e altro. Invece Marco Montesano dipinge quadri ad olio in maniera apparentemente tradizionale in realtà, come nelle opere del ciclo Berlin-1936, si ispira a foto originali d'epoca, compiendo un'analisi critico-storica del periodo, un'operazione medialista che nasce dal reperto del giornale d'epoca ritrovato, e nel far diventare le immagini tanti ready-made da consegnare poi nelle mani dei galleristi.

Gli artisti e i gruppi mediali hanno tutti contribuito, in modo differente e secondo la loro personalità, allo sviluppo di questo movimento, dalla fine degli anni '80 ad oggi, uniti da una stessa strategia creativa e da uno stesso spirito critico verso i media e la società contemporanea. Si può dire inoltre che molti altri artisti nazionali o internazionali possono essere considerati potenzialmente medialisti anche senza aver partecipato alle mostre ufficiali del Medialismo in Italia o all'estero perché nelle loro opere mostrano delle affinità e un interesse comune verso le problematiche comunicazionali.

In generale si può osservare che il Medialismo si differenzia dall'uniformità stilistica caratterizzante altri movimenti, come la transavanguardia o la pop art. Essendo un movimento critico e analitico delle forme comunicative, ed essendo queste forme molteplici, anche gli artisti mediali hanno varie forme di espressione e di contenuto.

Il Medialismo infatti non è solo arte ma un movimento allargato che implica un certo atteggiamento verso la vita, un saper vedere la società nei suoi meccanismi mediologici con un'attenzione particolare verso lo sviluppo tecnologico e le trasformazioni dei mass media in modo critico-destrutturante da cui nasce un certo tipo di immagine che è, come già osservato, "visivamente esasperata e parossistica" pur partendo dall'osservazione della realtà sociale o di altro tipo che ci circonda.

Gli artisti mediali sono molti e si sono accresciuti man mano col procedere delle mostre, ne indico una lista sicuramente incompleta in considerazione delle tante mostre allestite, sapendo che anche i non menzionati possono essere altrettanto importanti:


Artisti singoli:

Kate Burkart, Sergio Cascavilla, Maurizio Cattelan, Philippe Cazal, Daniela Cignini, Santolo De Luca, Enrico De Paris, Dormice, Emilio Fantin, Roberta Fiorentini, Formento-Sossella, Ronald Victor Kastelic, Mark Kostabi, Gabriele Lamberti, Luigi Mastrangelo, Antonello Mattarazzo, Gian Marco Montesano, Marco Moschini, Manuel Ocampo, Fabrizio Passarella, Chéri Samba, Ivano Sossella, Tommaso Tozzi, Cesare Viel, Luca Vitone.

Le mostre Medialismi (Tivoli, 1992) e Medialismo (Perugia 1993, Trevi Flash Art Museum), di cui si parla anche nel volume Medialismo (saggi e articoli di Gabriele Perretta pubblicata nel 1993 da Politi Editore, Milano) sono state precedute dalla prima mostra Metessi1 (Roma, 1989) e ancor prima dalla mostra pre-medialista Città senza confine (Napoli, 1984).

Nella mostra Metessi Perretta allinea due gruppi di artisti medialisti ben distinti fra loro e ciò ci introduce su un elemento caratteristico del Medialismo: la complessità dei temi e dei modi espressivi degli artisti nel loro intento di comunicare con estrema varietà i temi affrontati.


Scrive Perretta sulla mostra Metessi:

"Metessi ha il compito di mostrare due di queste voci, di cui l'una è costituita dall'area di ricerca dove viaggiano: Emilio Fantin, Premiata Ditta, Enrico Bentivoglio, Carlo Ferraris, Maurizio Cattelan, Maurizio Arcangeli, l'altra dal gruppo profondamente staccato dall'idea dell'oggetto, dei genovesi e dei toscani: Ivano Sossella, Cesare Viel, Marco Formento, Tommaso Tozzi e Luca Vitone."

In sintesi Perretta osserva che mentre il primo gruppo dimostra che si può far arte in Italia distaccandosi dalla tradizione pop e minimal americana, ispirandosi all'universo della società dei consumi e al recupero dell'oggetto e partendo anche da riferimenti diversi che possono essere la fotografia, la scrittura, la ridefinizione di un'azienda, il secondo gruppo si riallaccia alla tradizione del futurismo, del suprematismo, del dadaismo, happening & fluxus, conceptual-art per un'arte che parla della sua stessa idea, quindi più concettuale.

Loredana Parmesani, che con il teorizzatore e fondatore Gabriele Perretta è stata protagonista della scena mediale fin dalla fine degli anni '80, scrive2 questo testo sugli artisti mediali:

"Anche la pittura mediale (Medialismo), che inizia a delinearsi intorno al 1989, teorizzata da Gabriele Perretta, è rappresentata da un folto gruppo di pittori, fra cui Gian Marco Montesano, Kathe Burkhart, Sergio Cascavilla, Santolo De Luca, Enrico De Paris, Mark Kostabi, Gabriele Lamberti. Le loro opere propongono immagini della complessità della cultura e della realtà attraverso tutte le interferenze e le interazioni che avvengono a livello comunicativo. Gli artisti mediali lavorano su immagini fluttuanti da un territorio all'altro, da un tempo all'altro, risolvendo nell'istante dell'ideazione dell'opera il problema delle molteplici interferenze fra un medium e l'altro e fra il medium e la realtà. Accanto ai pittori mediali si collocano artisti come Cesare Viel, Emilio Fantin, Formento-Sossella, TommasoTozzi, Luca Vitone, Nello Teodori e innumerevoli stranieri, soprattutto americani, che operano attraverso l'utilizzo di strumeni tecnologici quali i sistemi di comunicazione e organizzazione, fino ad arrivare al linguaggio informatico e alla rete di internet."


Gli artisti mediali e le loro opere


Vista la notevole mole di artisti mediali e la mancanza di spazio sufficiente nel saggio, ho scelto una selezione esemplificativa, fornendo di ciascun artista i dati principali della biografia nonché note critiche e interviste.


Sergio Cascavilla


Sergio Cascavilla (Torino, 1966) opera a Torino ed esordisce insieme a De Paris prima nella Mostra "Italia '90" e poi nella mostra Medialismo del 1993, curata da Perretta.

Sempre nel '93 ha una personale chiamata "Intrepide avventure" presso la "Galleria in Arco" di Torino. In questa mostra a cura di Gabriele Perretta e Luca Beatrice, espone delle tavolette di legno sagomate, che come forma sembrano tratte da un mobilio borghese ormai desueto, ma acquistano una grande vitalità e freschezza perché dipinte con colori piatti e pastellati tutti sul giallo, sul verde, sul rosa e celeste. I temi raccontano storie familiari tra il favolistico, l'assurdo e l'ironico in stile cartoon, non a caso ama anche farsi chiamare Serginho e il suo studio Serginho Cartoons Inc. Usa il fumetto ma che tipo di fumetto? Non quello drammatico di Pazienza ma quello popolare comico di Jacovitti: ha partecipato a due mostre il cui tema era Jacovitti (Omaggio a Jacovitti, Galleria Roberta Lietti, Como 1993 e Jacovittittitti, Little nemo, Torino 1993).

Si ricorderà che Benito Jacovitti3 (1923-1927) è un famoso autore italiano di fumetti che ha lavorato per Il Vittorioso (settimanale cattolico per ragazzi fondato nel 1937), Il giornalino (storica rivista italiana a fumetti per ragazzi), ha illustrato Pinocchio di Carlo Collodi e ha creato molti famosi personaggi come Cocco Bill, inoltre ha lavorato molto per la pubblicità, ed è l'autore dell'opera per adulti Kamasultra.

In generale le sue tematiche si rapportano al mondo esterno, alla pubblicità e alla cultura rock più che al mondo dell'arte.

Nel '94 partecipa alla mostra "ICASTICA" (Bologna, 1994) sempre curata da Perretta, con artisti come Enrico De Paris, Ronald Victor Kastelic, Santolo De Luca, Wim Delvoye, Luigi Mastrangelo, Gian Marco Montesano, Manuel Ocampo, Fabrizio Passarella, Rob Scholte, Michele Zalopany e altri.

Questa rassegna vuole testimoniare la forte ripresa anche internazionale dell'iconismo e dei territori dell'immagine.


Scrive Gabriele Perretta4:

"I due artisti piemontesi, Enrico de Paris e Sergio Cascavilla, lavorano su un paradosso grafico e su una medicina dal bordo pittorico o dalla iconografia fumettistica. In particolare Sergio Cascavilla partendo dal fondo di una guantiera per dolci disegna e dipinge una piccola tela tonda che illustra l'interno di una casa con tavoli, poltrone e seggiole. Non a caso Sergio Cascavilla inizia la sua attività con la sperimentazione di tecniche fotografiche eseguendo disegni in bianco e nero su negativi sovraesposti. La sua attività ha come precedenti la progettazione per arredamenti di interni, la musica, la pubblicità e la decorazione. La pittura nella sua inattualità non rivendica la possibilità di essere solo carne, ma desiderio, ciò a cui tende non è l'eieculazione dei media ma la sua ironia, il suo incontro, la distinzione fra la fantasia e l'assurdità, la lucidità e l'immaginazione."


Maurizio Cattelan


Maurizio Cattelan (Padova 1960) è fra gli artisti italiani più noti internazionalmente e colui che raggiunge le più alte quotazioni; ha aderito al Medialismo fin dalle prime mostre ed è un medialista analitico, non un concettuale puro, che fa un uso molto rilevante dei mass media in tutte le sue opere. Egli eccelle nella tecnica della provocazione e della trasgressione in stile post-duchampiano. Ha partecipato alla prima grande rassegna del movimento nel 1993: Medialismo, Perugia 1993 (Trevi Flash Art Museum) e successivamente in molte delle rassegne curate da Perretta. Cattelan ha sempre vissuto in simbiosi col Medialismo, fin dall'inizio della sua carriera e ha lavorato in pubblicità, dove ha potuto apprendere e mettere in pratica le varie tecniche pubblicitarie per vendere un prodotto. Poi è passato definitivamente all'arte, dove però ha mantenuto quello spirito di stupore e sorpresa verso il pubblico dei consumatori, tipico della pubblicità.

Ogni sua installazione, ogni sua opera è concepita per creare la massima quantità di reazioni da parte del pubblico e dei critici e finora ci è sempre riuscito. Cattelan, sotto le apparenze dell'artista burlone, come nella Biennale di Venezia del 2003 dove si è autorappresentato come un bambino scorazzante su un gokart telecomandato, è il prototipo dell'artista contemporaneo di gran successo, senza limiti, che a volta a volta sceglie la forma espressiva più idonea ad esprimersi in un certo momento: un happening, un gesto neo-dada, un'installazione, un ready-made post-duchampiano, compreso l'aprire a New York la galleria più piccola del mondo, fare il curatore di un'importante mostra a Berlino o curare la veste editoriale di una grande rivista di moda. Inoltre la sua maggior abilità è far parlare di sé, attraverso giornali e mass media, come quella volta che ha finto di rubare delle opere da una galleria vicina a quella in cui esponeva oppure quell'altra volta in cui ha affittato il suo spazio espositivo a un commerciante che voleva pubblicizzare il suo prodotto.

La sua abilità nell'ottenere questi risultati è dovuta a sapienti strategie pubblicitarie, che peraltro conosce bene per aver lavorato in un'agenzia pubblicitaria internazionale, oppure a qualcosa d'altro? Insomma queste operazioni sono solo pubblicità, autopromozione e comunicazione massmediatica oppure sono qualcosa d'altro, quel qualcosa in più che chiamiamo arte? Non è semplice trovare una risposta perché la pubblicità fa parte della nostra vita quotidiana e spesso diventa essa stessa una forma d'arte.

L'opera di Cattelan, tutta basata sull'imprevedibilità e la forza dell'informazione, è ben collegabile alla Teoria dell'Informazione, perché le sue opere si basano sulla comunicazione, sull'informazione e sulle relazioni pubbliche, tutti fattori importanti nell'attuale sistema dell'arte. Oggi l'operazione artistica è spesso una calcolata regia che realizza un evento per avere la maggior diffusione possibile nei media: TV, stampa, radio, internet e qualsiasi altro nuovo media.

Se Cattelan ha raggiunto certe quotazioni di mercato è perché ha saputo ben calcolare la diffusione delle sue opere nel mercato dell'arte contemporanea, lavorando soprattutto all'estero, in particolare a New York, dove vive da dieci anni.

Cattelan è ormai uno degli artisti "da hit parade" che fa della provocazione e dell'ironia le sue armi più affilate, come scrive la giornalista Marina Mojana, in un articolo su Class5 dove osserva che Cattelan occupa la sesta posizione nell'elenco dei 30 artisti viventi più conosciuti, stilato ogni anno dal giornale Beaux Arts Magazine (2004):

"Occupa la sesta posizione, Cattelan, e se lo merita. Nel mondo dello star System ha subito imparato due cose: primo, che l'arte decolla dove planano i capitali e, secondo, che la pubblicità è l'anima del commercio. La sua vera accademia di belle arti è stata, infatti, l'agenzia di pubblicità McCann Erikson. Nella sede milanese Maurizio Cattelan compare ancora una volta al mese, quando organizza un viaggio in italia per andare dal dentista. Negli uffici di via Albricci ha ancora la sua stanza: uno spazio in miniatura, con tavolino formato asilo, seggiolina, armadietto e perfino un piccolo telefono sulla mini-scrivania abilitato a ricevere chiamate, uno dei tanti coup de théatre a cui ci ha abituato e che, sfodera almeno una volta all'anno: dal papa Giovanni Paolo II che cade travolto da un meteorite, installazione a grandezza naturale esposta alla Biennale di Venezia del 2001 e venduta qualche mese dopo all'asta da Christie's New York per circa 600 mila euro, al piccolo Him, la statua di Adolf Hitler bambino (ma con la faccia da uomo e i baffetti), da poco entrata nella collezione del Castello di Rivoli (Torino).

L'uso della provocazione non è una tecnica nuova, anche se nel caso di Cattelan è mista sempre ad ironia e a spirito burlesco, risale al movimento Dada che usò sistematicamente questa tecnica.

Scrive Walter Benjamin66sul movimento Dada:

"Effettivamente, le manifestazioni dadaiste concedevano una diversione veramente violenta rendendo l'opera d'arte centro di uno scandalo. L'opera d'arte era chiamata principalmente a soddisfare un'esigenza. Quella di suscitare la pubblica indignazione."

Che la provocazione usata ad arte sia semplicemente una tecnica lo ammette pure Cattelan stesso che così risponde alla domanda della giornalista Deborah Ameri del giornale Metro "La provocazione è un'arte?"7.

"La provocazione in sé non è arte: è al massimo uno strumento o una strategia. Forse è una tecnica, come l'acquerello o il collage. A me interessano soprattutto le reazioni del pubblico: un'opera d'arte non è completa senza i commenti di chi la guarda".

Quando Cattelan inventa uno dei suoi colpi di scena non c'è nulla di improvvisato, l'opera è allo stato puro e ben codificata, almeno per lui. Certamente ci può essere molta entropia informazionale per il fruitore che non sapendo risalire ai suoi stessi codici rimane disorientato. È come un gatto (Cattelan) che gioca con i topi (i fruitori). Quando Cattelan impicca tre bambini-manichini su un albero a Porta Ticinese a Milano, un passante-fruitore si sdegna e cercando di tirare giù i manichini cade e si ferisce. Lui non sa che l'artista, nel passato, aveva già appeso sul muro, con il nastro adesivo, una persona vera, il suo gallerista Massimo De Carlo; né conosce Marcel Duchamp, l'artista che ha appeso in una gabbia di vetro (il Grande Vetro) una Sposa nuda (peraltro con le parvenze di un motore) ad un anello. Comunque, anche in questo caso Cattelan raggiunge il suo scopo: far discutere e far circolare il suo nome.

Quando si sente dire che Cattelan in fin dei conti non è che un pubblicitario in parte è vero perché la conoscenza dei meccanismi di persuasione verso il consumatore l'ha aiutato, ma quanti altri pubblicitari sono diventati artisti come lui?

Non molti ma almeno due, prima di lui Andy Warhol (1928-1987) che ha coniato la definizione di arte come Business Art8:

"Voglio essere un Business-Man dell'arte o un Artista del Business…mi bastava che l'arte fosse entrata nel flusso del commercio, nel mondo reale…La Business Art. Il Business dell'Arte. Il Business della Business Art."

Egli aveva iniziato a lavorare come raffinato illustratore di scarpe per l'editoria e la pubblicità. Poi, passato all'arte con successo, venne rifiutato dal mitico gallerista italo-newyorkese Leo Castelli che in un primo tempo non lo accettò fra i suoi artisti. Dopo questo rifiuto fondò, con notevole spirito imprenditoriale, la Andy Warhol Enterprises, che ebbe talmente successo che Castelli si pentì di non averlo accettato e lo riavvicinò riuscendo a portarlo nella sua galleria9.

Ma c'è una differenza fra Pop Art e Medialismo, il primo è più edonistico e teso al guadagno, il secondo è più critico verso i mass media, analitico, ironico e con una visione parossistica della vita, come precisa Perretta, nel senso di raggiungere una trasfigurazione della realtà.


Daniela Cignini


Daniela Cignini è un'artista intermediale attiva nell'ambito dell'arte visiva sperimentale e di ricerca. Nel 1993 istituisce ALFAZETART GROUP, holding dell'immaginario progettuale. Nel 2000 inaugura l'Atelier MARIO MATTO, da cui scaturisce il work in progress MARIO MATTO &tC.

"mcm, MCD (minimo comune multiplo, Massimo Comun Divisore)" (Stampa digitale, cm 130 x 200) è un'installazione di Daniela Cignini che consiste dell'esposizione a parete dell'opera MARIO MATTO &tC. mit ALBERT EINSTEIN e di contigue schede in distribuzione, asportabili dal pubblico, contenenti procedura ed esercizi del workshop Identificazione contraffacente: come firmarsi Mario Matto.10

Nel comunicato stampa della mostra antologica MARIO MATTO & C. Collection 2000 – 2005, ottobre 2007, presso la Galleria Studio. Ra, Roma, con catalogo di Gabriele Perretta, viene presentato chiaramente questo gruppo che fa dell'anomia una delle sue caratteristiche principali.11

MARIO MATTO è un atelier nato nell'ottobre 2000 grazie al contributo di 'artisti' e 'gente comune', ma anche uno spazio fisico e mentale concretabile sempre e ovunque. Il nome deriva da un ready made: il graffito tracciato da anonimo sulla porta d'ingresso.

Da questa esperienza scaturisce il progetto MARIO MATTO & C.

MARIO MATTO & C. (dove per C. si intende Compagni nell'accezione plurale di "Persona che coopera con altri in nome di interessi e di aspirazioni comuni") si presenta come "aggregazione aleatoria e deviante di individui sensibili e interessati all'esercizio di attività originate da e legate a quella che ancora nel secolo scorso veniva definita Arte; i cui appartenenti operano in modo stanziale o itinerante producendosi sperimentalmente in pratiche socioestetiche singolari e collettive no-limits". MARIO MATTO & C. è insieme un invito all'avventura comunicativa, messa in atto sotto forma di artefatti esibiti in circostanze conviviali, e un'opera in corso d'opera, laboratorio di opportunità dove suddivisioni disciplinari, categorie istituzionali, statuti linguistici, spazi deputati e luoghi comuni vengono operativamente verificati di volta in volta e i ruoli canonici contestuali al côté dell'Arte rimessi in gioco, in un processo che alternativamente li accoglie, li frammenta, li scambia, li amalgama e li reintegra nel riconoscimento e nella valorizzazione dei contributi dati; a beneficio di un più attuale concetto di autorialità e a favore della moltiplicazione dei praticanti, i quali, artisti noti o occasionali, partecipando ciascuno con la propria identità (ma senza temere di "perdere la faccia") e con le proprie competenze, si possano riconoscere operatori di un comune progetto di molteplice... bellezza.12


Intervista a Daniela Cignini:

Patrizia Mania intervista Daniela Cignini artista particolarmente attenta alle problematiche della comunicazione13, sul tema "Reinventare una realtà":

Nella "società dello spettacolo" l'artista non sembra avere un ruolo da protagonista. Come vivi questo ridimensionamento dell'identità dell'artista, come una contraddizione o come un segno di emancipazione culturale?

Tralasciando di discutere se l'artista debba ricoprire detto ruolo e considerato chi sono i protagonisti in questo tipo di società e a quale prezzo, mi pongo il problema solo quando sono costretta ad affrontare i disagi materiali legati alla condizione di non protagonismo. Per il resto, la mia aspirazione è quella di essere piuttosto un individuo libero in un mondo di individui liberi. Fare l'artista è solo uno dei molti modi per tentare. Eppoi: l'artista è un coecervo di identità difficilmente ridimensionabili, le più qualificanti delle quali male si accordano ai valori dominanti. È Uomo alfazetico, Sfinge, Guerrigliero, Angelo, Magister Ludi... L'Uomo alfazetico, in quanto sociale, sente, pensa, agisce, produce tracce e comunica, ovvero entra in relazione e interagisce con ciò che è altro da sé. La Sfinge pone l'enigma dell'interrogazione perpetua sulle attività menzionate. Il Guerrigliero combatte l'omologazione. L'Angelo vola attraverso la Storia e verso la Verità. Il Magister Ludi gioca "con tutti i valori e col contenuto della nostra civiltà"... e via dicendo. Tante e tali identità lo candidano semmai al ruolo di soggetto psichiatrico e, come è noto, ai portatori di handicap, ai subalterni e ai diversi in genere, che non sono funzionalmente spettacolari o che non vogliono mettere a profitto la propria diversità, il protagonismo è interdetto.

A volte il tuo lavoro ha una processualità dichiarata, quasi didattica. È un modo per evitare equivoci? Perché non si caschi nella rete dell'ambiguità semantica?

A proposito del côté didattico al quale ti riferisci, il merito va attribuito al Magister Ludi che opera in alternativa a certe norme della Castalia. Non si tratta perciò di evitare equivoci o trappole, l'ambiguità semantica è semmai una delle risorse che si usano nei linguaggi espressivi per incrementare il senso, non già per ridurlo. Per il mio Magister Ludi il gioco più bello non consiste nell'inventare una realtà irreale e consolatoria, bensì, scomponendo e ricombinando, nel reinventare una realtà reale da "abitare". Perché questo sia è necessaria la partecipazione non solo degli iniziati ma di tutti coloro che di questa realtà vogliono essere coprotagonisti. È necessario altresì che i partecipanti comprendano, condividano il funzionamento del gioco e se ne approprino per poterlo agire.

Se l'arte debba monere o delectare è questione annosissima; una opinione in materia la esprime un lavoro che ho presentato recentemente al Museo Casabianca: Platone e Aristotele, sintetizzati nel gesto col quale Raffaello li ha raffigurati nella Stanza della Segnatura, convergono verso lo "spiralfazeto" (uno dei simboli paradigmatici dell'uomo alfazetico) che caratterizza il logo Alfazetart Communication.

Lo iato esistente tra potenziale comunicativo dell'arte e sua effettiva incidenza comunicazionale è una condizione che ha favorito l'isolamento dell'arte da buona parte delle manifestazioni culturali che hanno, al contrario, trovato maggiori canali di sbocco (penso alla musica contemporanea ma anche al cinema). In che modo operi per ridurre questa distanza? Quali sono le tue strategie di avvicinamento?

Premesso che bisognerebbe distinguere tra le arti più o meno vocate all'Industria Culturale, credo che l'attività del Magister Ludi serva anche a ridurre lo iato al quale alludi. (fine intervista)

In sintesi mi sembra che dal punto di vista critico affiorino due elementi caratterizzanti del lavoro della Cignini con Alfazetart Communication e Mario Matto & Co, senza voler enfatizzare solo questi due fra tutti i valori della sua opera: il primo è "l'anomia", la mancanza di firma dell'opera, e il secondo è la reinvenzione della realtà. Perché un artista dovrebbe rinunciare al proprio nome che è un elemento importante del sistema dell'arte? Ma perché i collettivi d'arte vogliono esprimersi in modo innovativo e contro il sistema d'arte vigente, pur non potendo uscire da esso, facendo un gesto nichilista, la voluta rinuncia del nome dell'autore (morto e sepolto dai tempi di Barthes) nel tentativo di affermarsi con una nuova arte che affronti la realtà reinventandola.

 

L'opera "MARIO MATTO &tC. mcm, MCD" che rappresenta un gruppo di giovani senza volto è un po' la visualizzazione del progetto della Cignini e dei suoi collaboratori. La comunicazione, nei suoi vari aspetti, consumistica, politica, pubblicitaria e altro, è talmente preponderante che l'arte, per non essere schiacciata, deve usare gli stessi mezzi ma con altre finalità e con occhio critico verso la comunicazione stessa, come sostiene Perretta con altre parole. Pensiamo per esempio anche alla recente mostra di Anonima di-chi-sì-lu-son «Massa Critica è un Ossimoro», viene usato il format usuale del poster allungato pubblicitario, ma il messaggio non publicizza nulla ma critica le piaghe della comunicazione come ad esempio il qualunquismo.


Enrico De Paris


De Paris (Belluno, 1960) esordisce nel 1990 nell'ambiente artistico torinese, dove a lungo l'arte povera aveva dominato la scena. Partecipa, invitato da Corrado Levi, alla mostra "Italia 90", insieme a un altro giovane artista Sergio Cascavilla. Entra nel gruppo di artisti della Galleria Carbone di Torino dove allestisce la sua prima personale14.

Proprio in quel periodo Gabriele Perretta sta iniziando la teorizzazione del Medialismo e De Paris, insieme a Cascavilla, entra a far parte della "Pittura Mediale" e di conseguenza viene invitato a una serie di mostre in vari spazi pubblici e privati in tutta Italia.

Nella mostra del Medialismo al Trevi Flash Art Museum e alla Galleria Ruggerini e Zonca di Milano, entrambe nel 1993 espone i suoi caratteristici polittici dove l'idea della frammentazione si coniuga con immagini tratte dai mass media, con un segno sintetico che deriva dalla pop-art ma soprattutto dalla grafica pubblicitaria e dal design.

Le sue immagini rappresentano case, interni, città, mondi grandi e piccoli, facenti parte di un mondo positivo descritto felicemente a colori brillanti e vivi: azzurro, verde, giallo e arancio.

Dal 94/95 continua i suoi polittici ricorrendo anche alla grafica tecnologica del computer e crea sculture che sembrano schegge uscite dai suoi quadri.

Scrive Perretta15 su De Paris:

"La pittura mediale ha ribaltato il compito della pittura giustificando l'esigenza (in questo senso tentazione") di utilizzare un mezzo poco diffuso come la cromia manuale per introiettare elementi informatici... la tentazione di De Paris è quella di utilizzare i modi di fruizione del mezzo e anzi di incentivarli usando una tecnica che procede per figure elementari e compiute, ripetibili all'infinito, che esplodono nello spazio della superficie come delle punte metalliche, come dei corpi animati in un cartoon per ragazzi."


Antonello Matarazzo


Antonello Matarazzo (Avellino – Campania, 1962), nel 1982, ventenne, è già costumista e aiuto-regista al Teatro Bellini di Catania, pittore dal 198616. Esponente del Medialismo (movimento che postula l'integrazione dei vari media: fotografia, pittura, video ecc) è anche regista e video artista; dal 1990 affianca o integra il video alla produzione di opere pittoriche, realizzando workshop, video installazioni e proiezioni in università, gallerie, musei e festival in Italia e all'estero. Dal 2000, data del suo cortometraggio d'esordio, The Fable (18° Bellaria Film Festival) – prodotto da Fuori Orario (Raitre) – ha partecipato a molti tra i più importanti festival cinematografici nazionali ed internazionali (Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, Festival Cinéma Méditerranéen Montpellier, Torino Film Festival, Festival int. du film sur l'art de Montréal, Arcipelago - Festival Internazionale di Cortometraggi e Nuove Immagini, Festival Int. de Cine de Mar del Plata, Festival internazionale del film di Locarno), ricevendo numerosi premi e riconoscimenti. Nel 2006 la 42° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro dedica una retrospettiva completa al suo lavoro di regista. Le sue opere sono andate in onda su Rai Uno, Rai Due, Rai tre, Rai Educational, Coming Soon Television Alcune Università come Brera, Chieti, Genova, Pisa e Salerno hanno proiettato suoi cortometraggi a scopo didattico. In un'intervista l'artista ha dichiarato:

"Mi piacciono i metafisici come Holbein il giovane o Masolino da Panicale, i concettuali come Paolo Uccello o Leonardo, la incantata durezza di Dürer, di Lukas Cranach padre e dei Fiamminghi, piuttosto che il teatro di Michelangelo. Il mistero contro la compiaciuta sapienza, la mano contratta e esitante di chi in ogni linea, in ogni punto cerca una rivelazione piuttosto che quella gioconda e sportiva dei virtuosi. ... Sono miope per libera scelta"


Gian Marco Montesano


Nato a Torino nel 1949, si è formato studiando a Torino nel Seminario salesiano di Valdocco. Non segue la vocazione ecclesiastica perché più forte è la predisposizione artistica ed intellettuale che lo portano negli anni Settanta prima a Bologna e poi a Parigi, dove ha modo di conoscere tra gli altri Gilles Deleuze e Jean Baudrillard.

L'iniziazione alla pittura di Montesano avviene molto tempo prima, mentre ancora era seminarista a Valdocco. Da qui la scelta del titolo, Andarera, una sorta di "A rebours", un viaggio all'indietro nei luoghi della memoria e dell'infanzia. All'inizio degli anni Settanta le sue prime opere sono, infatti, riproduzioni di Madonne e di quelle immagini sacre, ricordi distribuiti ai fedeli nei santuari e durante gli esercizi spirituali. Montesano le ingrandisce e le rivisita in chiave postmoderna rifacendosi alla bella tradizione della pittura popolare ma anche rivestendole di significati concettuali e teorici.

Diversi sono i dipinti dedicati a Torino e al ricordo di suo padre che lavorava come "eccentrico" nel mondo dell'avanspettacolo: emblematico il quadro Torino anno zero del 1989, immagine dell'artista bambino per mano a spasso con papà.

Dalla fine degli anni Ottanta e per tutti gli anni Novanta, Montesano viene inserito nell'ambito del cosiddetto Medialismo, la corrente di revival pittorico, di matrice neopop e fumettista, della quale è stato invece un precursore assoluto. Da questo contesto però si differenzia molto, perché indagando la storia e il passato Montesano rilegge gli anni drammatici e cruciali della formazione dell'Europa nel corso del secolo XX fino al momento della sua crisi. Nella mostra intitolata Berlino 1936 (Sala Putti e Capitolo Chiotro di Pietrasanta, dicembre – febbraio 2006) espone dei quadri ispirati ad immagini tratte da giornali o periodici tedeschi dell'epoca.

Accanto a queste ci sono anche immagini dolcissime di bambini, seducenti ritratti femminili, vasti paesaggi di gusto romantico, vedute urbane di genere cinematografico, che Montesano dipinge con quel suo inconfondibile stile neorealista, anzi post-realista.

Oltre ad essere affermato pittore, Montesano è un appassionato regista teatrale. La sua Compagnia Florian, con sede a Pescara, ha presentato spettacoli a Parigi, in Ungheria e in tutta Italia.17

Partecipa alla Biennale di Venezia ed è stato invitato per due volte alla Quadriennale di Roma. Nel 2002 Montesano ha partecipato ad una mostra collettiva alla galleria d'arte Boxart di Verona con opere legate alla tematica dei Vizi Capitali riscuotendo notevole successo.

Tra il 2006 e il 2007 l'Assessorato alla Cultura del Comune di Pietrasanta ha promosso la mostra Berlino 1936, curata da Valerio Dehò, nelle sale del Chiostro di Sant'Agostino a Pietrasanta (Lucca).

La galleria civica di Trento ha allestito duranta i mesi estivi del 2007 una "Scuola di pittura" diretta da Gian Marco Montesano per incrementare le passioni e le professioni di un'arte che rappresenta il «figurativo» del tempo che vive. Per Montesano la pittura così come intesa dai Sacri testi, oggi altro non è che "disturbo artistico di massa". Montesano è stato intervistato dal Direttore della Galleria Civica di Trento, Fabio Cavallucci:


Fabio Cavallucci: Cosa ha da dire ancora la pittura nel 2007?

Gian Marco Montesano: La pittura storicamente intesa (non mi riferisco tanto ai quadri, quanto alla mentalità), la pittura umanistica, secondo me non solo non ha più nulla da dire, ma è morta. E il morto, come si sa, non parla. Però si lascia esaminare, si lascia sottoporre ad autopsia. Qualcuno potrebbe obiettare che il mercato, i musei, ecc. sostengono il contrario. Certo, è ovvio, il valore della pittura si prolunga per forza di inerzia. Ma per quel che è della produzione di pensiero attuale, la pittura è fuori gioco. Nei musei di scienze naturali troviamo gli scheletri dei dinosauri, li ammiriamo, ma non operiamo tenendo conto del dinosauro. La pittura non è morta per una questione di moda, di gusto, o chissà per quale altra strana ragione, ma perché le è stato tolto il terreno sotto i piedi: è venuto meno tutto quel mondo, tutto il sistema di valori che la esprimeva, che la giustificava. E che mondo era? Era il mondo umanistico, cioè il mondo dei grandi postulati, dei grandi progetti, dell'utopia, che genera le avanguardie – sia politiche che artistiche – della posizione critica, estetica, politica, sociale. Nel mondo, nella società contemporanea, di questi riferimenti non vi è più traccia, tutto è cambiato.


Se l'umanesimo è finito, cosa succederà dopo?

A livello artistico oggi, o per meglio dire, da venti anni a questa parte, si parla di post-human. Questo perché evidentemente si registra la fine del mondo umanistico, umano, qualcuno aveva detto "troppo umano", e nel contempo l'attesa di un mondo che deve ancora venire. Ecco la grande Babele dei linguaggi, la mancanza di riferimenti certi. Quando un pensiero complessivo decade, giace inutilizzabile, e qualcosa di nuovo, veramente formato ancora non si manifesta, in questo interregno, nel vicariato, nel momento di transizione, ci sono comunque molte diverse espressioni individuali. Pur ritenendo inutile leggere i fondi del caffè per scoprire cosa sarà il mondo che verrà, una certezza esiste: non sarà mai come il mondo che ci siamo lasciati alle spalle; non si più pensare al ritorno, per esempio, delle vecchie utopie politiche, dei grandi postulati che organizzano il mondo. Tutti i riferimenti umanistici sono fuori gioco. L'arte, sul versante delle discipline "plastiche" – come le si definiva una volta –, la quale si esprimeva con la pittura, ha iniziato a decadere con la fine della modernità, con la fine dell'Ottocento; ha cominciato ad uscire dalla cornice, ad integrare materiali eterogenei, e dunque non è più quella comunemente intesa nel vecchio mondo umanistico. Poi, finita la modernità, c'è la postmodernità, e oggi siamo ben oltre la classica definizione di postmoderno che fu, perché postmoderno già non è più un referente saldo sul quale fare affidamento, ma è una delle tante cose che "galleggiano" in mezzo alle altre.


Allora perché continui a dipingere, fondi un'accademia di pittura, e ci sono ancora molti giovani che dipingono… come si giustifica questa inerzia della pittura?

Potrei avere una risposta rapidissima ed esaustiva: so benissimo che il mondo si colloca ormai oltre il postmoderno, ma da buon reazionario mi fermo sui miei godimenti, sui miei piaceri. Li conservo finché durano. Temo però che questa risposta non sia sufficiente, perché non lo è neppure per me, e in realtà non si tratta di questo. Purtroppo so che la risposta del reazionario sarà sufficiente per tante, troppe persone. Pazienza. Se fosse vero che sono un reazionario, reagirei a qualcosa che ho analizzato bene: ho fatto una ricognizione del mondo, sono perfettamente a conoscenza di quello che succede, ma con un atto di volontà lucida e deliberata decido di reagire. Ti dirò, questa è una classica posizione da grande artista, da non confondere con le posizioni sclerotiche di quanti continuano a riferirsi a valori, a modelli che tali non sono più per nessuno. Ecco perché, e si accaniscono contro l'ultima contemporaneità; ne è un esempio l'odio di alcuni nei confronti di Cattelan.


Possiamo fare qualche nome di questi reazionari autentici che hanno capito come va il mondo ma dicono "io me ne frego"?

È difficile trovare un'artista che si serva attualmente della pittura con la netta consapevolezza di tutto quello che stiamo dicendo e che si ritenga l'ultimo testimone di un mondo morto, assumendo una posizione eroica, straordinaria. Devo dire che attualmente di queste posizioni non ne vedo.


Nemmeno per esempio Clemente, Cucchi, De Maria?

Per quanto riguarda Clemente, non ho gli strumenti di analisi sufficienti per esprimermi; ma temo che gli altri due siano ancora convinti dei valori umanistici della pittura. Infatti i loro riferimenti sono tutti interni alla storia dell'arte; la quale non ha più luogo d'essere, se non come il dinosauro, ma operativamente non serve più a nessuno, non interessa più a nessun giovane che oggi opera nella moltitudine. Questo problema è delicatissimo, è come una partita a scacchi; sembra quasi che aprendo un'accademia di pittura non si abbiano che due mosse a disposizione: asserire che si compie un'operazione paradossale, ultra-postmoderna, cioè fondata sull'ironia e l'autoironia che distruggono l'aura seriosa dell'artista, oppure dichiararsi eroicamente reazionari, affermare di aver capito tutto e proprio per questo decidere di suicidarsi. È evidente che se dichiariamo l'accademia di pittura come paradosso e come ironia oppure come ultimo grido reazionario, evitiamo lo scacco matto, ma non ci facciamo molti amici. Però in definitiva sono due mosse povere, si esauriscono in sé. In realtà c'è una terza mossa che è possibile fare, complicatissima da spiegare, che consiste nel riuscire almeno a far intuire che si possono ancora usare gli strumenti della pittura per fare un qualcosa che pittura, così come nel vecchio mondo la si intendeva, non è più.18 (fine intervista)


Fabrizio Passarella


Fabrizio Passarella (Contarina, RO) vive e lavora a Bologna. Ha studiato al Liceo Artistico (Genova e Bologna) e all'Accademia di Belle Arti (Bologna). Passarella ha aderito fin dalle prime mostre al Medialismo, in particolare è un esponente della Pittura Mediale. Gabriele Perretta, nel catalogo Pittura Mediale, Milano 1993 (e nell'articolo "Pittura Mediale", Flash Art n° 173, marzo 1993) parla della pittura mediale e cita poi Passarella che era uno dei maggiori protagonisti della mostra stessa.

"È difficile ritrovare un sistema organizzato di composizioni pittoriche, in qualsiasi altra area della ricerca visiva, che possa vantare altrettanta visionarietà quanto "la pittura mediale", senza cadere nel neoclassico o nel ritorno alla maniera ludica dell'espressionismo: Una maggiore conoscenza della vita intorno a noi, a contatto con il "sistema degli oggetti" della società post-industriale non può che farci comprendere meglio la disposizione iconografica dei soggetti che prendiamo in considerazioni nella seguente mostra".19


Scrive ancora Perretta citando Passarella:

"Nel sistema caratteriologico della pittura iconografica di fine secolo, dunque, assistiamo a singolari combinazioni sociologiche secondo cui, più che emergere il media, è il simbolo del media che emerge, è il simbolo della cospirazione umorale con i media (la loro cultura e il loro sapore piuttosto che il loro sapere) che viene prepotentemente fuori. Le parole di Fabrizio Passarella illustrano ampiamente la situazione del problema in forma eccellente: "Possiamo guardare nel pianeta a trecentosessanta gradi e assimilare tutte le voci, se vogliamo, sia le più antiche che le più nuove. Dunque per me la contemporaneità (della pittura) è quell'insieme di antico e futuro, barbarico e tecnologico che forma la nostra cultura odierna. Di fronte al gigantismo arrogante degli emulatori di tecnologia da cui mi sento tutt'ora schiacciato, mi è venuto spontaneo reagire con un rifiuto e una volontà di recuperare l'umiltà del segno l'orgoglio di adoperare un supporto minimo e povero come una tela per creare mondi e diagrammi di pensieri altrettanto vasti quanto i murales museali". Lo stesso riscontro lo abbiamo in una conversazione tra Gian Marco Montesano e Cheri Samba pubblicata di recente, in cui venivano a confronto due sensi della memoria."

Scrive Passarella nel suo sito (recentemente realizzato con Gianluca Costantini):

"Mi piace quella zona di confine dove il giorno e la notte si sfumano, dove il movimento incontra la quiete, dove i colori si assommano e i suoni si dilatano gli uni dentro gli altri, dove le forme si sovrappongono e i raggi risalgono verso il centro. Mi piace il paradosso, l'ossimoro, l'unione degli opposti, ma anche la loro lotta, l'armonia e lo stridore, il classico e l'ellenismo, lo zen e il barocco, la rinuncia e l'eccesso, la mano e la macchina. Mi commuovono le immagini povere, triviali, popolari, ma anche le più fini miniature ottomane. Mi piace contemplare il mondo come uno schermo su cui proiettare i fantasmi delle mie mitologie, e, al contrario, annullarmi fino a diventare lo schermo su cui il mondo riflette se stesso. Credo nell'esperienza come sola forma ragionevole di conoscenza, ma so di essere come una rana in fondo a un pozzo, ignara delle profondità infinite di oceani e universi. So che l'unico, imperfetto, fallace e limitato telescopio è quello del cuore che, dove l'occhio limitato della mente non riesce ad arrivare, può solo immaginare e sentire."

(dal sito: fabriziopassarell a.org/menu_testo.htm)

In un articolo di Carla Subrizi (Flash Art n. 177, estate 1993), le sue opere sono così descritte:

(... ) Compaiono simboli, valori iconografici attinti direttamente dall'India, dalle filosofie orientali, da forme antiche di sapienza e conoscenza, fusi però in un complesso all'interno del quale è anche la musica rock, l'elemento popolare, ripetitivo, stereotipato a giuocare una funzione di smorzamento, di attenuazione proprio della seriosità degli elementi iconografici usati. Il passaggio dal grande al piccolo, funziona dunque da metafora: gli opposti, gli estremi, le divergenze, le lontananze, all'interno delle culture, di modalità conoscitive, di epoche della storia, devono essere riconciliate e tale riconciliazione, risolta per passarella sul piano del dipinto, diviene episodio emblematico di una complessità che, al di là di presentarsi come sintesi di culture e di immagini ricontestualizzate, propone un approfondimento di ciò che sottende a tali elementi, Guida al Collezionismo dei sogni.(... )20

Ha partecipato alla XX Biennale del Muro Dipinto a Dozza (Bo) nel 2005 (settembre – ottobre) dove è stato un protagonista dispiega in un grande spazio della Pinacoteca gli arazzi digitali e il grande quadro dell'opera Ex-Statica, profonda riflessione sulle religioni realizzata attraverso le sue colte contaminazioni fra immagini digitali e pittoriche, e vicino all'entrata principale della Rocca uno "stendardo rituale" dedicato a Pier Paolo Pasolini : un grande angelo in b/n sul cui petto è proiettato un cuore di rose contenente immagini cangianti del poeta, corredata dal sonoro del "Vangelo secondo Matteo".

Nel febbraio del 2007 Passarella insieme a Gea Casolaro sono tra i protagonisti di una mostra-evento, organizzato dall'Istituto Italiano di Cultura di New Delhi in collaborazione con la National Gallery of Modern Art di New Delhi e curato da Lorenzo Canova con Rajeev Lochan, che verrà inaugurato dal Presidente del Consiglio Romano Prodi il 12 febbraio 2007. La mostra è stata concepita come un dialogo tra le più recenti ricerche artistiche italiane e indiane (dalla pittura all'arte digitale, dalla scultura al video e alla fotografia) e vuole accostare esperienze distanti geograficamente ma spesso prossime e complementari nei loro linguaggi.


Andrea Pazienza


Andrea Pazienza (1956-1988) è stato un grande disegnatore di fumetti, il migliore degli anni '70 e '80, ma prima di dedicarsi ai fumetti è stato anche un grande pittore. Anche se non ha partecipato come pittore alle mostre medialiste, essendo morto prematuramente nel '88, si può considerare un medialista nell'arte e nello stile di vita, egli ha saputo comunicare a tutti le problematiche della società, e soprattutto al mondo giovanile, in modo innovativo e originale attraverso l'arte del fumetto. Come dice Perretta, i fumetti di Pazienza esposti in una mostra a Milano prima di morire, erano considerati da lui veri quadri d'autore, inoltre le sue opere hanno ispirato anche artisti medialisti come Luigi Mastrangelo o Fabrizio Passarella.

Per capire le vicende artistiche e umane di Pazienza è fondamentale leggere la storia di Pompeo (1987) dove anche chi non è stato schiavo della droga si cala talmente nella storia da immedesimarsi completamente. Questa rimane la sua storia più spaventosa. Scrittura, narrazione, disegno e segno si fondono in un media mix che arriva a un risultato difficilissimo da comunicare: l'analisi di una storia biografica senza autocompianto ma nella sua cruda verità e che rappresenta forse la minaccia più pericolosa per i giovani, cioè la droga.

Innanzitutto ha scelto per comunicare il fumetto che è un media popolare (ma può essere anche molto sofisticato), alla portata di tutte le tasche. Un fumetto non è elitario come l'opera d'arte che può essere acquistata solo nell'ambito di certi ceti sociali. Lui stesso, quando dipingeva aveva affermato che non voleva che i suoi quadri finissero negli appartamenti dei farmacisti.

Proprio per questo il fumetto può avere un grande impatto mediologico e comunicare a classi o settori di classi non raggiungibili da altri mass-media. Pazienza sapeva comunicare ai giovani e non solo. L'energia, la vita e lo spirito che sapeva infondere nella sua arte fanno di lui un personaggio difficile da dimenticare.


Così si presenta lui stesso21:

"Prima di fare fumetti dipingevo quadri di denuncia. Erano tempi nei quali non potevo prescindere dal fare questo. Ma i miei quadri venivano comprati da farmacisti che li mettevano in camera da letto. Il fatto che il quadro continuasse a pulsare in quell'ambiente mi sembrava, oltre che una contraddizione, anche un limite enorme".

In sintesi da San Benedetto sul Tronto, sua città natale, si trasferì a Pescara dove frequentò il liceo artistico e realizzò i primi fumetti, dipingendo anche molti quadri che esponeva in collettive e personali. Dopo il Liceo Artistico si iscrisse al Dams di Bologna.

Dopo la sua morte la sua figura si è subito ammantata di leggenda ed è stata fatta oggetto di vero e proprio culto. Per esempio a Cremona è stato fondato tempestivamente ed è attivo da anni il "Centro fumetto Andrea Pazienza". Nella primavera del 1977 la rivista "Alter Alter" pubblica la sua prima storia a fumetti: Le straordinarie avventure di Pentothal22. Nell'inverno '77 partecipa al progetto della rivista underground "Cannibale".

È tra i fondatori delle riviste «Il male» e «Frigidaire», e collabora alle più importanti testate giornalistiche del panorama italiano, da Satyricon de «la Repubblica», a Tango de «l'Unità» e altre ancora. Disegna inoltre manifesti di cinema e di teatro, scenografie, costumi e abiti per stilisti, cartoni animati, copertine di dischi, pubblicità.

Nel 1984 Pazienza si trasferisce a Montepulciano, in provincia di Siena. Qui realizza alcune delle sue opere più importanti, come "Pompeo e Zanardi. La prima delle tre".

Collabora a varie iniziative editoriali fra cui l'Agenda Verde della Lega per l'ambiente. Lo scrittore Pier Vittorio Tondelli (1955-1991), l'autore del romanzo Altri Libertini (1980), così lo descrive:

"Andrea Pazienza è riuscito a rappresentare, in vita, e ora anche in morte, il destino, le astrazioni, la follia, la genialità, la miseria, la disperazione di una generazione che solo sbrigativamente, solo sommariamente chiameremo quella del '77 bolognese".23

Lo scrittore e giornalista Vincenzo Mollica, appassionato di fumetti e amico di Pazienza, quando ancora in vita, presenta appassionatamente il libro Paz dell'amico scomparso, citando una frase emblematica di Pazienza «Amore è tutto ciò che si può ancora tradire»:

"Questa antologia di scritti, disegni, fumetti di Andrea Pazienza è dedicata a tutti quelli che non hanno mai considerato il mondo delle nuvole parlanti come un ghetto da guardare con sospetto; a chi ha sempre creduto che il fumetto di Paz non appartenesse ai luoghi comuni generazionali, ma fosse una espressione artistica più alta in cui si specchiano letteratura e pittura; a tutti quei critici d'arte e letterari che non sanno cosa si sono persi per inseguire la puzza che hanno sotto il naso, ma fanno ancora in tempo a recuperare; … a chi lo leggerà per la prima volta e sta per iniziare un lungo, bellissimo viaggio; a chi lo ha visto disegnare e non si rassegna all'idea che se ne sia andato troppo in fretta, a chi lo ha visto disegnare e solo ora capisce che era come stare vicino a un miracolo, a tutti quelli che l'hanno conosciuto, a quelli che lo conosceranno, perché non lo dimenticheranno.


Cristiano Pintaldi


Cristiano Pintaldi (Roma, 1970) vive e lavora a Roma. Dal 1990 le sue opere vengono esposte in mostre personali e collettive. Pintaldi è un artista mediale di seconda generazione, secondo la classificazione di Perretta. Non appare infatti nelle prime mostre del medialismo e conduce da solo il suo percorso artistico. Il suo medialismo si manifesta attraverso una tecnica particolare a pixel ingranditi, viene infatti chiamato infatti "il pittore dei pixel", in altri termini comunica con i pixel, ma dipinti a mano.

I suoi quadri bisogna vederli perché le riproduzioni non rendono l'idea della sua tecnica sorprendente nella precisione ed effetto. Il comunicato stampa della sua mostra alla Galleria NoCode (Bologna, dicembre 2001) così presenta l'autore:

Il giovane artista romano ha realizzato per l'occasione opere di grande e piccolo formato, tele progettate nei minimi particolari: dal micro al macro. La ricerca pittorica di Pintaldi si fonda sull'elemento figurale del PIXEL televisivo e sui suoi tre colori base (rosso, verde, blu). La sua tecnica di rappresentazione riesce a rendere le diverse tonalità cromatiche solo attraverso variazioni matematicamente e rigorosamente controllate della luminosità. Ne risulta una "texture retinica" analoga a quella dello schermo TV che registra i soggetti rappresentati come fossero il "fermo-immagine" del video o del computer, e che paradossalmente li rende immutabili.

Parlando del proprio fare artistico Pintaldi dice:

"Dipingo quadri che riflettendo il nostro mondo, fatto di realtà e sogno, di tv-computer e materia, di bene e male, di terrestri ed extra-terrestri, di ricchezza e povertà, divengono infiniti. Nella tv un qualsiasi oggetto non è di pixel, ma si vede in pixel, nei miei quadri invece le immagini sono fatte di pixel, così' che i due mondi così' apparentemente lontani vengano a sovrapporsi."

La mostra presenterà un lavoro incentrato sulla sua presenza nel programma televisivo del Grande Fratello. Pintaldi non è e non vuole essere "l'artista del grande fratello", agisce sul media in veste di ESPLORATORE, lo osserva, assiste al fascino che gli suscita un suo lavoro visto da milioni di persone e che allo stesso tempo ci guarda dal televisore. Nasce così' un vero e proprio confronto con la "scatola magica", un ossessione la sua per la tv che ci è fondamentale per capire la realtà che ci circonda.

Nel 2001 l'artista romano è stato così recensito nel sito della RAI:

(http://ww w.italica.rai.it/galleria/ritratti/pintaldi.htm)

La ricerca pittorica di Cristiano Pintaldi si fonda sulla ricostruzione dello spazio visivo ottenuta attraverso un procedimento analogo a quello della formazione dell'immagine video. I suoi quadri sono infatti dipinti secondo la logica di scomposizione che è propria delle immagini di tipo elettronico, dove l'unità elementare dell'informazione visualizzata sullo schermo è il PIXEL, con i tre punti di colore rosso, verde e blu. Attraverso questo processo l'artista elabora immagine con la sua scomposizione in colori primari racchiusi in innumerevoli pixel dipinti a mano.

Un lavoro pittorico che richiede una estrema precisione e un tempo di realizzazione paradossalmente lungo rispetto alla velocità con cui il pixel costruisce l'immagine nello spazio video. Le immagini, di Pintaldi, e dei suoi quadri oscillano tra due opposti livelli di civiltà: la tecnologica e la primordiale. Le opere di Pintaldi rappresentano il nuovo tipo di visione stimolato dalla realtà "virtuale", spesso più presente e pervasiva di quella "reale", con l'obiettivo di evidenziare che l'immagine digitale non è affatto infinita come quella "reale", bensì riducibile al pixel.

In un articolo intitolato L'altra metà del cielo (apparso su Juliet Numero 97 - Aprile 2000) Roberto Vidali scrive su Pintaldi, a proposito di una mostra collettiva in cui espone:

... i pixel pittorici di Cristiano Pintaldi riportano in primo piano il processo scompositivo di Seraut. In questo modo la superficie pittorica, al pari d'un'immagine televisiva, si dà come persistenza di una memoria collettiva oltre che tecnologica. Pintaldi non inventa le immagini, più semplicemente le "trova" e le rielabora con la prassi certosina dell'amanuense.

In un'intervista del 6 febbraio 2006 Cristiano Pintaldi spiega bene sia la sua tecnica pittorica sia le sue idee sulla sua opera e l'arte contemporanea in generale.24


Quando hai scoperto la tua vocazione artistica?

L'ho scoperta da piccolo. Ho cominciato con la formazione al Liceo artistico a Roma e ancor prima grazie ai miei genitori che facevano e fanno tuttora pubblicità. Trent'anni fa la pubblicità era un settore diverso, molto legato all'aspetto manuale. Il computer non esisteva e quindi si lavorava come oggi solo gli artisti continuano a fare. Un modo legato alla pittura e a certe sperimentazioni. Poi di fatto ho cominciato a lavorare subito, perché già a diciotto anni ho avuto il contatto con Luigi Scialanga e Simona Rossi di 2RC che hanno creduto in me e a diciannove anni è nata la prima mostra. Di seguito la seconda e più importante è stata l'anno dopo con la galleria di Paolo Sprovieri, allora uno dei massimi galleristi italiani e con Achille Bonito Oliva.


E adesso con chi lavori?

Sempre con Sprovieri, in realtà a Londra. Non più con Paolo che purtroppo non c'è più ma con suo nipote, Niccolò, anche se è sempre più o meno la stessa galleria.

È importante avere intorno persone che ti appoggiano e che ti stimano. In questo momento in Italia non lavoro con altri. L'ultima galleria con cui ho lavorato è stata 1000eventi e quindi con Franco Noero.


Come vedi la situazione italiana del momento?

Secondo me c'è una situazione eccellente oggi in Italia. Penso che in fondo quella che fino a qualche anno fa era una situazione di stasi totale del collezionismo ora stia cambiando. Persone che non compravano arte, oggi si sono buttate sul mercato e quindi vedremo che cosa accadrà.


Qual è la direzione del collezionismo in Italia?

Si acquistano principalmente e forse anche giustamente opere di artisti che costano di più, e che in fondo rappresentano anche una garanzia. Anche se paradossalmente funzionano meglio le cose più recenti. Chi compra oggi, acquista opera appena uscite, dal 2000 in poi. Facendo un paragone quelli che costano meno sono proprio gli artisti storici. Fontana per esempio, è secondo me, assolutamente sottoquotato. L'Italia comunque sta pian piano risalendo la china e forse l'ha risalita più di quanto noi stessi facciamo finta. Paradossalmente in Italia tutti si preoccupano di dire che Cattelan costa troppo. Ma cosa gliene importa se costa troppo? Quanta gente costa troppo? Dal chitarrista rock a chi vende armi o peggio… vabbè lasciamo stare… La verità è che Cattelan è un genio.


Torniamo a te…raccontaci un po' delle tue opere, che sono così complesse e con un tecnica complicata…

Anzitutto lavoro con la pittura e con una pittura altamente complessa, perché la tecnica che uso si ispira allo schermo televisivo, quindi ai pixel, che sono rossi, verdi e blu.

I miei quadri sono dipinti in tre momenti diversi. Come se dipingessi prima un quadro poi un altro e poi un altro ancora. Questa cosa ovviamente, a livello pittorico, complica tutto, anzitutto perché il colore è sempre un' illusione – così come lo schermo. Se ci si avvicina ci si accorge che è solo un'illusione …


Qual è il procedimento…

Parto da una base nera e da un uso del colore molto classico. Utilizzo delle maschere che costruisco appositamente e che mi servono a definire una griglia geometrica così perfetta da sembrare realizzata meccanicamente. Questa mascherina viene messa sulla tela e sopra viene disegnato il soggetto per tratti di luce e successivamente il soggetto viene riportato sullo scotch. Per poter costruire solo un terzo del quadro alla volta ho bisogno di mascherare tutto il resto della superficie con queste strisce di scotch tagliate appositamente. Quella parte diviene poi il foglio di carta su cui riporto il disegno dell'opera. A questo punto dipingo il primo quadro e così via con le fasi successive. Ovviamente con tutta una serie di complicazioni poichè lo scotch è doppio, il foglio è doppio, l'acrilico è un po' come l'acquerello per velature, tanto che quando ti avvicini ad un mio quadro l'immagine quasi scompare, come avviene con lo schermo televisivo.

Man mano che ti allontani invece la forma e il volume vengono fuori perché in fondo questi strati sono equilibrati in maniera tale che questo possa avvenire.


Una tecnica piuttosto complessa, che ti caratterizza…

Sì mi caratterizza in una società in cui l'arte sta tornando a essere composta da una tecnica che si affianca al messaggio dell'opera. Quello che succedeva in fondo negli anni Sessanta e Settanta e in parte degli anni Ottanta, oggi non basta più. In un mondo bersagliato di immagini come il nostro, dove c'è una concorrenza da tutti i punti di vista, il prodotto secondo me è interessante quando è sofisticato.


E qual è il tuo messaggio?

I miei messaggi sono molteplici. Sono sicuramente legati alla mia visione della realtà e al fatto che la realtà può essere qualcosa di diverso… In fondo sei tu che puoi scegliere quello che vuoi guardare, se vuoi guardare i pixel o il colore…


Un po' come in televisione…

Un po' come in televisione. È un'illusione… e comunque le immagini rappresentano dei simboli che portano a costruire un discorso sulla mia visione della realtà.


Da qui dipende la scelta dei soggetti? …

Ho utilizzato negli anni diversi tipi di soggetti, da immagini famossisime quali quella dell'11 settembre a immagini ricostruite completamente da me…


I soggetti religiosi ritornano? …

Veramente ritornano molto, soprattutto perché si tratta di un lavoro che contiene nella sua stessa struttura una chiave religiosa, in quanto immagine una e trina.


Quali i tempi di realizzazione di una tua opera…

Un mese o più …


E cosa ci dici delle tue quotazioni?

Per molti anni ho lavorato in realtà sottocosto, nel senso che il mio lavoro è molto caro da produrre e che il valore del quadro di un artista non è determinato da quanto ti è costato e quindi in fondo questo ha portato a far sì che il lavoro abbia un costo che permette la sua produzione…


La tua strada sembra avere avuto un percorso molto lineare. Non hai avuto delle difficoltà iniziali?

No, da un certo punto di vista no. Ma se vuoi davvero sapere le mie difficoltà? …

Io oggi sono quasi il più caro artista italiano, Cattelan a parte, che ha dei prezzi internazionali, e forse le Beecroft, c'è evidentemente un forte interesse del mercato italiano e internazionale sul mio lavoro; però d'altro canto la Biennale non mi ha mai invitato, tutta una certa parte del Nord non mi ha mai appoggiato fino in fondo. Per fortuna sono amato dai collezionisti e questo fa sì che anche se non c'è l'appoggio di una certa parte di critica, dall'altro c'è l'appoggio del mercato che di fatto è quello che fa la differenza.


Però ci sono dei tuoi lavori nei maggiori Musei nazionali…

Sì il Maxxi ha un quadro, la Galleria Nazionale ha un quadro, il Macro ha un quadro…

In fondo un certo tipo di Istituzioni mi appoggia e mi apprezza.


Tra i giovani artisti chi ti piace? La Biennale l'hai vista, ti è piaciuta?

No, non l'ho vista, non sono riuscito a vederla. Il problema al di là delle polemiche è che l'Italia riesce a sminuire la sua immagine al punto tale da togliere il Padiglione alla Biennale. Ti sembra possibile? Ti sembra possibile che all'Oscar americano manchi un film americano? Invece con naturalezza noi andiamo a vedere la Biennale senza il Padiglione Italia… Allora forse bisognerebbe fare qualcosa di forte, noi artisti soprattutto…


Quali sono i tuoi progetti presenti e futuri?

Una grande personale a Roma, perché è tantissimo tempo che non faccio una bella mostra a Roma, quasi dieci anni…e poi vedremo. Un collettiva importante in Cina a settembre…


La nuova frontiera della Cina…

Sì la Cina è la nuova frontiera. Come è stata la Russia qualche anno fa, sostendendo il mercato del contemporaneo, così sarà secondo me, per la Cina nei prossimi anni.

Anche loro piano piano diventeranno nostri clienti…


E poi…?

E poi un altro progetto con Luca Beatrice sul rapporto tra arte e musica, sugli artisti che hanno fatto copertine di dischi nella storia…


Tu hai fatto copertine di dischi?

Tre copertine con i Tiromancino

(fine intervista)


Cheri Samba


Cheri Samba (Congo, 1956). Chi ha visto la Biennale di Venezia 2007, curata dall'americano Robert Storr, avrà constatato la conpresenza, nel padiglione Italia ai Giardini, di Cheri Samba, un artista mediale, già presente nella mostra "Medialismo" al Trevi Flash Art Museum del 1993 e di Robert Ryman, un maestro del minimalismo nella metà degli anni cinquanta, due esponenti di movimenti artistici del tutto differenti.

Questo è solo un esempio della possibilità di convivenza di differenti linguaggi artistici presenti oggi.

In un articolo sul periodico Arte25 in occasione della sua mostra personale a Milano26 Nicoletta Cobolli Gigli scrive così sugli inizi del congolese, ora 51 anni, Cheri Samba:

"Una storia africana degna del mito americano, quella di Cheri Samba, artista nato in un piccolo villaggio del Congo, che lascia casa non ancora sedicenne per andare a cercare fortuna come pittore in città: dagli inizi, con gli aneddoti di un padre che lo avrebbe voluto fabbro come lui, alla fuga con la complicità della madre verso Kinshasa, dove inizia una vita di stenti sfruttato da piccole società pubblicitarie, all'ascesa, culminata con l'invito alla scorsa Biennale di Venezia (2007)."

L'artista congolese, definito Afro-pop o anche neo-pop dalla critica internazionale, viene trattato in Italia da più di quindici anni. La sua prima mostra personale risale al 1991, dove espone allo Studio Raffaelli di Trento. Due anni prima, nel 1989, aveva partecipato alla prestigiosa rassegna Magiciens de la Terre, organizzata al Centro Georges Pompidou di Parigi e curata da Jean-Hubert Martin. Alla sua prima grande personale a Parigi, alla fondazione Cartier nel 2004, egli dichiara:

"Un artista può fare un capolavoro con pennello e colori, ma quello che è difficile è farlo capire".

Come osserva Cobolli Gigli, il suo obiettivo primo è comunicare: temi universali, pensieri, problemi grandi e piccoli. Egli assume il ruolo di portavoce e ambasciatore della cultura Africana in occidente, come nel quadro dove Picasso è raffigurato a confronto con il disegno dell'Africa dove spicca una maschera tribale. Spesso i temi che egli affronta sono di critica sociale o politica come nel quadro L'ora della democrazia in Africa (1990).

Come Cattelan anche se in modi differenti Samba mette in primo piano la comunicazione, s'inserisce quindi in un'ottica medialista. Il suo medialismo ha subito peraltro un'evoluzione, come ben spiega Perretta: infatti Samba è passato dal medialismo locale del periodo in cui operava nell'originario Congo al medialismo globale della sua attività a Parigi dove è diventato una star internazionale dell'arte.

Osserva Luca Beatrice27 nel suo testo critico sulla recente mostra di Samba a Milano:

"Samba non interviene nella stucchevole e oziosa polemica sul se e in che misura l'occidente abbia utilizzato l'arte Africana, però stigmatizza l'abitudine di imposizioni più sottili, come quella di storpiare le parole snaturando così la cultura originale e in fondo non attribuendole un senso interamente compiuto: i suoi quadri riportano spesso la doppia lingua (il francese del mondo e il congolese del suo paese), proprio perché implicano un doppio livello di lettura, quello globale e quello locale."

Il medialismo quindi si può manifestare non solo in relazione alla zona geografica dove si manifesta ma anche a livello linguistico del significante, all'interno dell'opera d'arte stessa e della sua struttura. Il messaggio visivo nelle sue opere è rafforzato dal testo, in francese o dialetto africano (lingala), che ha la funzione di attirare maggiormente l'attenzione dell'osservatore.

Dichiara il pittore28:

"Io credo che l'artista non possa limitarsi. Io dipingo per l'umanità, dipingo per tutti. È vero, non posso metterci tutte le lingue che si parlano nel mondo ma non dipingo sempre solo per gli africani. Posso trarre ispirazione dall'Africa per qualcosa che riguarda anche gli europei."

Con questa frase l'artista stesso conferma il passaggio da un medialismo locale ad un medialismo globale di comunicazione senza limiti socio-geografici.

Luca Beatrice osserva che Cheri Samba è sicuramente un artista pop. Negli anni '60 artisti quando Oldemburg, Lichtenstein, Warhol, Wesselman, Rauchemberg, Dine raccontavano l'America attraverso simboli, effigi e marchi del loro tempo si parlò di colonizzazione culturale (l'arte Pop vinse alla Biennale di Venezia nel 1964). Poi con lo scorrere degli anni e negli ultimi decenni si è fatto coincidere il termine pop con "cultura di massa", sistema inglobante le cosidette pratiche basse talvolta fino allo sconfinamento nel Kitsch o nello sofisticato. In Samba il pop ritorna al significato originario popular, abbreviazione di pop. Il suo stile, semplice e diretto è il più adatto a trattare argomenti problematici come la fame, la malattia, la guerra, la prostituzione, la religione e altri ancora, problemi sociali trattati con il tono della commedia e non della tragedia.

Robert Storr29 spiega che il termine

"Afropop è derivato dal mondo della musica dove etichetta equiparando le differenti sonorità di fela kuti, Youssou n'Dour e la quantità di africani diventati grandi nomi nelle hit parades della pop occidentale…"

Luca Beatrice conclude il suo testo critico affermando che

"L'arte di Samba si inserisce nel raro filone di una pittura capace di trasformare il racconto in leggenda, la storia in paradigma. …E proprio perché nata dalla strada, l'arte di Samba (e l'arte africana in generale) si mantiene incontaminata, in quanto ignora il meccanismo dell'autoreferenzialità concettuale. Il messaggio è il messaggio, null'altro. E al centro rimane saldamente ancorato l'uomo."


Tommaso Tozzi


Tommaso Tozzi (Firenze, 1960) ha ottenuto il Diploma di Maturità Scientifica presso il Liceo "A. Gramsci" di Firenze nel 1979, il Diploma di Scenografia presso l'Accademia di Belle Arti di Firenze nel 1984, il Diploma di operatore cinematografico di cabina a Firenze nel 1986. Socio fondatore della Associazione Culturale Strano Network. (gruppo di lavoro sulla comunicazione nato nel 1993 a Firenze).

Presidente dell'Associazione Culturale Strano Network dal 1996 al 2002. Docente all'Accademia di Belle Arti di Carrara e all'Università degli Studi di Firenze. Autore di Hacker Art BBS (1990) e ideatore del primo netstrike mondiale (1995). Membro fondatore del newsgroup Cyberpunk (1991) e della rete Cybernet (1993). Insieme ad Arturo Di Corinto ha scritto di recente il libro Hacktivism. La libertà nelle maglie della Rete, pubblicato da Manifestolibri (Roma, 2002).30

In un'intervista di Patrizia Ferri, apparsa sul sito "hackerart.org" (Roma, 12 Febbraio 2003), Tommaso Tozzi ha così dichiarato:


Patrizia Ferri: Sembrerebbe che la net art stia vivendo un momento di successo: cosa ne pensi dei tentativi di museificazione e commercializzazione di un fenomeno che nasce in contrasto o comunque si pone molto criticamente rispetto al sistema dell'arte?


Tommaso Tozzi: Non credo che la net art (o meglio il termine "net art") nasca in contrasto con il sistema dell'arte, infatti nasce nel momento in cui il sistema dell'arte inizia ad occuparsi di arte in rete e spesso le opere definite di "net art" sono opere pienamente integrate in tale sistema. Semmai alla nascita del termine (1995) collabora un'area di artisti, intellettuali, attivisti, ed altro che criticano taluni aspetti del sistema dell'arte, producendo riflessioni, pratiche, strumenti ed altro che estendono e proseguono la produzione di riflessioni, pratiche, strumenti ed altro precedenti a tale data.

Questo percorso di riflessione critica sulla rete, iniziato ben prima del 1995 è rivolto a differenti ambiti disciplinari, tra cui quello scientifico, economico, politico e sociale ed anche artistico. Tale percorso continua a svilupparsi transitando anche dentro alle istituzioni, ma non per questo perde efficacia. Diversamente, molto di ciò che è stato definito "net art" è nato per combinare le nuove tecnologie della rete (di per se fortemente seducenti e quindi potenziali fattori di incremento di vendita) con un'area dell'estetica che si concede al mercato ed ai rapporti di potere in esso insiti senza posizioni critiche e tantomeno conflittuali.

Di solito, ma un'affermazione del genere può facilmente essere contraddetta, le mostre di "pittura digitale" (on-line ed off-line) finiscono per fare un favore al sistema del mercato dell'arte, anziché forzarne una trasformazione in meglio. Non è un caso che il termine "net art" nasce in contemporanea all'esplosione del mercato nel web ed alla nascita delle prime gallerie e musei interessati all'arte in rete. Di arte in rete si parla da molto prima della nascita del termine "net art". Se ne parla, sia dentro le istituzioni che fuori (in quest'ultimo caso se ne parla nel momento in cui si riflette intorno alle potenzialità creative che lo strumento consente, ma anche nel momento in cui si riflette sul rapporto tra società, cultura e reti telematiche).

Dunque, credo che affermare che vi sia in atto una commercializzazione della net art è secondo me una tautologia, in quanto quella caratteristica è una parte della stessa definizione di "net art", forse non esplicita nelle parole, ma sicuramente implicita nei fatti storici. Per concludere la risposta tendo però a chiarire che sono convinto che dentro ad alcune delle situazioni che promuovono e si riconoscono in quel termine vi sono molte persone o gruppi che si muovono in modo decisamente conflittuale verso il mercato dell'arte, in particolar modo verso la concezione neoliberista del mercato dell'arte e ne minano quotidianamente le fondamenta attraverso il loro lavoro artistico.


Patrizia Ferri: Ti consideri un net-artista?


Tommaso Tozzi: Se devo avere un'etichetta preferisco riconoscermi nel termine "hacker art". Ma sono più felice se le etichette le si usano solo quando proprio non ci si riesce a capire o non se ne può fare a meno. Ovvero, ad una definizione fatta attraverso un termine (net-artista) preferisco una definizione fatta attraverso un discorso, possibilmente fatto in gruppo, come ad esempio avviene attraverso le mailing list. Non sto portando ad esempio il popolo che Swift nei Viaggi di Gulliver descrive come coloro che girano con un enorme sacco di oggetti che estraggono al posto delle parole quando devono nominare qualcosa. Mi riferisco invece al fatto che i nomi vanno usati con cautela, in quanto il loro senso è relativo al modo in cui determinate culture lo hanno proposto attraverso un processo di relazioni intorno a tale termine. Dunque credo che anche le parole che stiamo facendo leggere in questo momento per essere ben comprese vanno "vissute" attraverso relazioni ben più ampie ed interattive tra noi ed i nostri lettori.

Patrizia Ferri: Ritieni ci siano differenze sostanziali tra net art, web art, software-art, ascii art ecc...


Tommaso Tozzi: Sì. Ma purtroppo tali differenze le decide (ovvero le impone) chi ne parla attraverso, ad esempio, un articolo o un libro. Infatti se si prendono come definizioni che indicano semplicemente uno specifico strumento o linguaggio informatico usato all'interno del proprio fare artistico, la definizione diventa riduttiva per due motivi: il primo è che le classificazioni sono suscettibili di cadere frequentemente in chiare contraddizioni (come ci spiega Eco, l'esempio dell'ornitorinco è lampante in questo senso), il secondo è che spesso il modo in cui l'artista dà senso a quella definizione è diverso dal modo in cui ciò viene fatto da un critico (o semplicemente da chi usa tale termine).

Di nuovo, la definizione e dunque la differenza tra tali termini appartiene più alla storia di chi vi si è relazionato (artisti, critici, scienziati, spettatori, ecc. ) che non ai termini stessi. La si capisce nel momento in cui si "partecipa" a definirne il senso. Quello che voglio dire è che la definizione di tali termini non la si può trovare in una frase in questo articolo, ma in un "ipertesto" di pensieri e pratiche che si estende nel tempo e nello spazio. Vi è un "senso di rete" insito in ogni termine. Una caratteristica per cui ciascuna asserzione che possiamo fare noi ora va messa in relazione con altre asserzioni precedenti o simultanee nel tempo, vicine o distanti nello spazio.

Cercare un significato universale (preferisco quel termine al termine "globale" che secondo l'interpretazione di alcuni movimenti è sinonimo di "totalitario") per tali categorie artistiche è importante nel momento in cui si accetta che comunque tale significato universale non possa essere mai ne fisso, né unico, bensì risiede nel dialogo e nell'accordo libero tra una molteplicità di soggetti sparsi nell'universo.


Patrizia Ferri: La cosiddetta hacker art che si contraddistingue dunque sopratutto per la sua radicalità e la forte base etica, della quale sei il teorico oltreché l'iniziatore, in cosa si differenzia di fatto dalle altre pratiche in rete?


Tommaso Tozzi: Al solito, io (forse) ho inventato un termine (hacker art), ma sicuramente non il suo senso. Per come la vedo io, il senso del termine appartiene almeno a tutte quelle culture che si sono riconosciute nell'etica hacker. Ma quando personalmente pensavo a quel termine io lo pensavo figlio anche di molte altre esperienze artistiche (gli happening e fluxus, il situazionismo, il concettuale, dada, il surrealismo, l'astrattismo e molte altre). Non riuscivo a vederlo lontano dal punk e dai movimenti sociali ed underground. Non riuscivo a vederlo lontano dal lavoro di molti scienziati, filosofi, sociologi, ecc. Non riesco a separarlo dalle relazioni e dagli affetti della mia vita, dalle chiacchierate con altri artisti, critici, collezionisti o amici e parenti. Dunque io non ho iniziato l'hacker art.

L'hacker art, per come la penso io, è un'attitudine millenaria che nel tempo ha assunto ed assumerà le forme più svariate. Se vuoi qualcosa di più preciso, l'unica cosa che mi riesce a dirti è che per me fare hacker art significa fare qualcosa che ha come stella polare i valori della libertà, dell'uguaglianza, della fratellanza, della cooperazione, del rispetto, della lealtà e della pace. E che per seguire tali valori le pratiche dell'hacker art vanno (in modo consapevole o inconsapevole) in conflitto con interessi di individui e gruppi che ripudiano tutti o alcuni di tali valori.

Fare arte è per me il partecipare ad un processo di trasformazione della cultura, attraverso ogni strumento che la propria creatività ci mette a disposizione. Fare hacker art significa, per me, garantire l'esistenza di un controllo dal basso (individuale o collettivo) che garantisca che tale processo di trasformazione persegua i valori citati prima.


Patrizia Ferri: Sciogliendo il vecchio problema se il mezzo sia o no il messaggio, c'è da dire che la rete è in realtà un linguaggio a sé che va naturalmente capito nei suoi nessi, esplorato, creato secondo le proprie potenzialità: usato quindi adeguatamente e per scopi precisi può veramente cambiare la vita, liberare il mondo, dare consapevolezza?


Tommaso Tozzi: Ne sono certo. Ne sono certo perché è un dato di fatto che il linguaggio della rete è inestricabilmente connesso con i linguaggi di altri strumenti di comunicazione non digitali, così come con le azioni e relazioni del mondo reale. Ogni parte sia dello strumento rete, che del suo linguaggio risente ed è contaminato da altri strumenti e linguaggi. Il linguaggio della rete è parte di una cultura ben più ampia che sta subendo delle trasformazioni attraverso questa tecnologia, ma tali trasformazioni possono e devono essere sotto il controllo quotidiano di ogni individuo. Sia la rete, che gli strumenti della comunicazione precedenti, sono l'oggetto costante di un conflitto intorno alla tutela dei diritti universali.

Ogni individuo può, come sta avvenendo in particolar modo in questo periodo storico, unirsi ad altri per protestare quando la trasformazione lede i suoi legittimi diritti. Quello che credo è che quando uno strumento per esistere ha bisogno di creare unità (le mailing list così come molti altri spazi di interazione virtuale), tale unità consentendo il dialogo ed il confronto restituirà consapevolezza, e se le persone sono consapevoli cercheranno anche di essere più libere.

Il problema è quando questi strumenti saranno utilizzati per porre muri tra le persone, limiti alla comunicazione o per costruire "illusioni" fittizie del dialogo e della relazione, per controllarne i comportamenti e dunque i bisogni che più sono adeguati alla produzione di profitto attraverso la vendita di merci. Ma quando si fa un'ipotesi del genere non si sta più parlando di "rete". Lo strumento stesso andrà chiamato in un altro modo (io proporrei "cella"). Quindi, domandarsi se la rete fornirà libertà e consapevolezza è tautologico, poichè quella è una delle definizioni di rete, altrimenti stiamo parlando di qualcos'altro, ed allora la domanda va ripronunciata.31


Cesare Viel


È nato nel 1964 a Chivasso; vive e lavora a Genova. Sin dal 1996 (ma già dal 1989) l'attenzione per la parola, la voce, il corpo hanno posto al centro della sua ricerca una pratica artistica performativa.32

In una recensione33 "Cesare Viel è un artista che può essere inserito, come un antesignano, in quella corrente attualissima oggi definita "Arte Relazionale" (cfr. Nicolas Bourriaud, Esthétique relationnelle, le presse du réel, Paris 2001)". L'arte relazionale è un'arte che prende per orizzonte la sfera delle interazioni umane e il suo contesto sociale, ma si può aggiungere che la sua arte è anche "medialista" perché usa i medium in modo innovativo innanzitutto per comunicare con gli altri e poi per entrare nel vivo della realtà culturale e sociale che ci circonda.

Il suo lavoro, fin dagli esordi nei primi anni '90 a Genova, è incentrato sul rapporto tra l'opera d'arte e il suo fruitore. Uno dei suoi primi lavori che attirò molta attenzione e che molti ancora ricordano è di quando Viel, a Torino nel 1999, aveva tentato di leggere alcune pagine di Natalia Ginzburg dedicate a Cesare Pavese, nella stanza dell'Hotel Roma, dove lo scrittore torinese si era suicidato nell'estate del 1950. Quella performance non fu poi realizzata così come era stata pensata perché sorsero degli ostacoli sollevati, tra l'altro, da alcuni eredi di Pavese. Ci fu però una lettura in strada, davanti all'hotel, con grande partecipazione e coinvolgimento del pubblico.

Un'altra installazione di grande interesse è quella del maggio 2004 collocata sul Palazzo Bricherasio dal titolo "Tu che mi hai disegnato". Il lavoro consiste in 10 manifesti collocati sotto le finestre e lungo la balconata del Palazzo Briccherasio, raffiguranti 5 scrittori della casa editrice Einaudi - Cesare Pavese, Italo Calvino, Primo Levi, Norberto Bobbio e Natalia Ginzburg - la facciata della sede einaudiana in via Biancamano, la Topolino e la Cinquecento (simboli della Torino del Novecento), la facciata della Stazione di Porta Nuova (luogo emblematico che fa riferimento al "ritorno a casa" di questi autori) e in un libro aperto, che invita gli spettatori a rivedere la facciata di Palazzo Bricherasio, come una "parete-album" da sfogliare e leggere. Ogni manifesto è corredato da una didascalia: frasi tratte direttamente dalle opere degli scrittori, o da ciò che è stato detto su di loro. Tutte le immagini sono estrapolate da foto apparse su libri, riviste e giornali, che Viel ha ripreso e adattato alla sua installazione.

Il titolo, Tu che mi hai disegnato, può essere letto sia come pensiero che ogni spettatore può rivolgere agli scrittori, come omaggio alla loro grandezza culturale, sia come affermazione che gli scrittori stessi rivolgono a Viel, in quanto effettivo disegnatore delle loro effigi. L'opera è dunque il trait d'union tra l'artista e i suoi autori e tra questi e il pubblico della città. È come un hyperlink che collega autore, pubblico e autori scomparsi, facendo rivivere le loro memorie in un grande happening.


Intervista a Cesare Viel34


Cesare, tu che sei, si può dire, un artista "affermato", cos'è per te l'arte?

"L'arte non ha confini, sei tu a determinarli nei tuoi progetti. Si può fare tutto, tutto ha una ragione se riesci a raccontarla. Come è stato detto: Tutte le arti tendono alla performance".

Mi sembra un vero e proprio statement: il tuo itinerario artistico si muove infatti dalla scrittura e va verso la performance...

"Sì: una tappa che considero significativa è quella di Viaggiatori/Viaggiatrici (1994), un'opera per la quale ho trascritto su fogli colorati frammenti di discorsi di persone sconosciute, catturati a caso durante un viaggio in Francia e in Germania. I fogli sono stati disposti per terra in una galleria di Milano".


E poi la scrittura si è "pluralizzata"?

"In Cose là fuori (1997), per esempio: un'installazione per soffitto, ma anche un modo per affrontare l'insoddisfazione verso l'ordine statico delle cose. Le immagini fotografiche sono fissate sul soffitto secondo un libero schema combinatorio. Come tante parti di un cervello esploso".


Chi sei oggi? È anche il titolo di una tua foto autoritratto...

"Nel 1998 ho trattato il pennarello con il quale scrivo e disegno come una matita per gli occhi. Il trucco è un disegno esistenziale".

E infine sei arrivato alla performance.

"Con Lost in Meditation (1999) ho voluto esprimere un cortocircuito tra passato e presente. Sdraiato, qui e ora, su un alto cumulo di fieno, metto in scena il ricordo di un desiderio irrealizzato nell'infanzia: salire e sdraiarsi sui covoni di fieno con il sole addosso che ti brucia la pelle. Nell'intervento audio diffuso nell'ambiente, la mia voce registrata racconta questa esperienza". Una tua riflessione sull'arte nel futuro? "Vorrei fare mia la dichiarazione di Michel de Montaigne: Non c'è alcuna esistenza costante, né del nostro essere né di quello degli oggetti. E noi, e il nostro giudizio, e tutte le cose mortali andiamo scorrendo e rotolando senza posa".


Luca Vitone


Luca Vitone (Genova, 1964) dalla fine degli anni Ottanta espone in Italia e all'estero, in gallerie private e spazi pubblici. La sua operatività si affianca a quella di giovani artisti attivi in ambito concettuale, di cui fanno parte Roberto Costantino, Simonetta Fadda, Marco Formento, Ivano Sossella, Tommaso Tozzi e Cesare Viel.

Al centro della sua ricerca artistica c'è il complesso rapporto tra il luogo e la mappa, tra la materialità delle cose e dell'esistenza e la loro perdita topologica, con una particolare attenzione rivolta alle trasformazioni sociali conseguenti all'inserimento di nuovi caratteri culturali sulle tradizioni locali.

Presso la Galleria Pinta a Genova, nel 1988, dispone sul pavimento una planimetria 1: 1 della galleria stessa, realizzata su carta fotocopiata, creando attraverso la rappresentazione grafica e il procedimento fotostatico, una "spersonalizzazione" dello spazio e una sua "ripetibilità" illimitata. L'effetto straniante è contraddetto dal coinvolgimento fisico del visitatore che, calpestando la pianta e imprimendovi una traccia materiale, ne conferma la dimensione di spazialità effettiva.

Al Palazzo Mediceo di Serravezza, in occasione della mostra "Agire il mondo", Vitone invece realizza, utilizzando depliants turistici sulla località stessa della mostra, una striscia continua applicata alle pareti, dove l'immagine frammentata e ricomposta secondo uno schema ripetitivo, aderendo al perimetro della stanza, apre fittiziamente all'ambiente esterno.35


Intervista a Luca Vitone36: Mentelocale. it ha incontrato l'unico genovese presente alla Biennale di Venezia (L'arte come gioco e sogno, alla scoperta dei luoghi della vita) e l'ha intervistato (13 Agosto 2003).

Luca Vitone è un artista che ha esposto in tanti paesi del mondo. Nato a Genova, vive a Milano e spesso è in giro per il mondo. Se gli telefoni puoi beccarlo a New York, a Los Angeles oppure a Parigi. Non si può mai essere sicuri di dove sia. Quando Venessa Beecroft viveva a Genova, frequentava spesso Luca: erano grandi amici.


Noi di Mentelocale lo seguiamo da sempre e siamo felici che quest'anno sia approdato alla Biennale di Venezia.

In città se ne sono accorti in pochi ed è un peccato con il 2004 che bussa alle porte. Ebbene, già di artisti genovesi della nuova generazione conosciuti come Luca ce ne sono pochi e quei pochi ce li maltrattano. Se si sfoglia il catalogo della Biennale, infatti, così inizia la sua biografia: "Luca Vitone, nato a Ginevra, Svizzera, nel 1964". Gli stranieri confondono spesso Genova con Genève (Ginevra) o ricordano Genova come "quella città vicino a Portofino", ma è straordinario che un catalogo made in Italy faccia un errore di questo genere. Povera Zena, devi sforzarti ancora un po' per ottenere quell'immagine internazione che vai ansiosamente cercando.


Luca Vitone, quindi, è l'unico artista genovese presente alla kermesse veneziana insieme al gruppo di artisti architetti A12 che hanno progettato il padiglione Italia nei Giardini della Biennale. .

Il suo lavoro è esposto all'Arsenale nella mostra Stazione Utopia curata da Molly Nesbit, Hans Ulrich Obrist e Rirkrit Tiravanija: è una bandiera rosso nera (i colori dell'anarchia) che sventola all'aria aperta con su stampata una ruota, simbolo della cultura Rom. Luca aveva già lavorato sulla cultura nomade insieme alla comunità Rom di Colonia. A Basilea e a Roma, invece, aveva progettato lavori legati al movimento anarchico.


Sei contento di essere approdato alla Biennale?

«Sì, il mio lavoro sarà ancora più visibile. Poi, la Biennale è una delle più importanti rassegne di arte visiva».


La tua opera è inserita in Stazione Utopia. Credi nell'utopia?

«Se ci credi, ti aiuta a realizzare i tuoi progetti».


Ti trovi bene in questa Biennale?

«C'è tanta energia e confusione, due movimenti che nascono insieme».


Cosa ti ha dato Genova?

«Il desiderio di guardare l'orizzonte dall'alto».


Cosa ne pensi della situazione genovese?

«Mi sembra che, per la prima volta, si stia tentando di uscire dal torpore e che ci si stia sforzando di affacciarsi sulla scena internazionale».


A Genova hai frequentato Vanessa Beecroft. Lei era sconosciuta, cosa ricordi?

«Tormentate e felici sere trascorse sotto le stelle. Anche se non ci si vede più spesso come prima ci incontriamo sempre con piacere».


Su cosa ruota la tua ricerca?

«Cerco di mappare e interpretare i luoghi del nostro vivere. Utilizzo mezzi sempre diversi per realizzare i progetti che ho in mente. Cerco di giocare sognando».


(intervista di L. Guglielmi)

In un'intervista37 del 1992 con Emanuela De Cecco (Flash Art n. 168, giugno 1992) Vitone dichiara:

"(... ) Progetto le mie mostre pensando, oltre lo spazio espositivo vero e proprio, al luogo in cui la galleria si trova e con cui entra in relazione. In Sonorizzazione del Luogo questa relazione è data da una ricerca sulla tradizione musicale del territorio in cui mi trovo ad operare. Mi interessa confermare un'idea di lavoro che in rapporto al luogo ogni volta cambia pur mantenendo la stessa impostazione. Ho esposto a Torino i canti piemontesi, a Bologna i canti emiliani, a Milano i canti lombardi, in Abruzzo quelli abruzzesi. In questo momento mi sto concentrando su quattro serie di lavoro: le planimetrie, le tende, i canti popolari di cui si è parlato e le carte rovesciate. Quest'ultima, intitolata L'Invisibile Informa il Visibile, consiste in carte geografiche montate su plexigas e esposte con la parte stampata rivolta verso la parete in modo che solo da vicini si individuano le tracce di un territorio che rimane comunque illeggibile sto approfondendo la riflessione sull'atopia, una metafora per indicare il senso di perdita che si verifica anche nell'uso inconsapevole e superficiale del linguaggio. (... )"

(fine intervista)


Conclusioni


Abbiamo visto una serie di artisti mediali che hanno partecipato alle prime mostre del Medialismo e preso parte attivamente al movimento. Successivamente ogni artista ha seguito la sua strada individuale, pur rimanendo legato con la propria opera a questo movimento, ai suoi principi e alle sue strategie. D'altra parte considerando come i mass media facciano parte ed entrino nella vita quotidiana di tutti noi questi artisti possono essere considerati come coloro che hanno saputo dare un'espressione artistica ad un sentire comune che fa parte della contemporaneità.

 


NOTE


1 G. Perretta, Medialismo, Politi Editore, Milano, 1993, pp. 20-21 (in cui si cita il testo critico tratto dal catalogo Methexis, Roma, 1989)

2 Parmesani L., L'arte del secolo, Skira, Ginevra-Milano, 2003, pp. 95-96

3 Dal sito: it.wikipedia.org/wik i/Benito_Jacovitti

4 G. Perretta, Flash art, n°161 aprile-maggio, 1991, p. 98.

5 M. Moiana, da un articolo su Cattelan apparso su Class, n. 215, p. 99, marzo 2004.

6 W. Benjamin, L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino, 1966 e 1991 (1a ed. 1955).

7 Da un articolo su Cattelan apparso su Class, n. 215, p. 99, marzo 2004

8 A. Warhol, La Filosofia di Andy Warhol, Tascabili Bompiani, Milano, 2001, p. 78.

9 A. Jones, Leo Castelli, Castelvecchi, Roma, 2007, pp. 213-215.

10 Dal sito: infn.it/nottedellaricerca/2006/art_cignini_d.php

11 Dal sito: eadessovediamo.org

12 Dal sito: teknemedia.net

13 Dal sito: mifav.uniroma2.it

14 Nota biografica tratta dal sito: http://www.antartide.com/

15 G. Perretta, Medialismo, Politi Editore, Milano, 1993, p. 122

16 Nota biografica dal Sito: adolgiso.it/n adir/antonello_matarazzo.asp e dal Sito antonellomatarazzo.it/bio .htm

17 Note biografiche dai siti:
museodeibozzetti.it/structure/mostre/mostre2006/001126/bio.htm;
artantide.com/artisti/BiografiaArtista.php;
boxartgallery.com

18 Intervista di Montesano dal sito: ladigetto.it/article.aspx?c=33&a=1782

19 G. Perretta, Medialismo, Politi, Milano, 1993, pp. 87-88.

20 G. Perretta, Medialismo, Politi Editore, Milano, 1993, p. 144

21 Dal sito: http://www.2fly.it/paz/bio.htm

22 A. Pazienza, Paz - Scritti, disegni, fumetti, Einaudi, Torino, 1997, p. 199

23 A. Pazienza, Paz - Scritti, disegni, fumetti, op. cit., retrocopertina

24 Dal sito: treccani.it/site/www/Arte/incontemporanea/intervistapintaldi.htm

25 N. Cobolli Gigli, Cheri Samba – Storie dall'altro mondo, Arte Mondadori, Dicembre 2007, Milano, pp. 110-114.

26 Galleria Corsoveneziaotto, Cheri Samba, 5 dicembre 2007 - 31 gennaio 2008, Milano.

27 L. Beatrice, Samba Afro Pop, Testo critico dal catalogo della Mostra presso la Galleria Corsoveneziaotto, 5 dicembre 2007 - 31 gennaio 2008, Silvana Editore, Milano.

28 Dal catalogo della Mostra: L. Beatrice, Samba Afro Pop, op. cit.

29 R. Storr, Cheri Samba, Le peintre de la vie moderne in J'aime Cheri Samba, Catalogo Fondation Cartier, Parigi 2003-04.

30 Dal sito: hackerart.org

31 Dal sito: lacritica.net/tozzi.htm (Intervista di Patrizia Ferri, Roma, 12 Febbraio 2003)

32 Nota biografica dal sito: http://www.romapoesia.it/2007/

33 Dal sito: artesalento.it (a cura di Guido Curto)

34 Dal sito: mentelocale.it

35 Dal sito: teknemedia.net/pagine-gialle/artisti/luca_vitone/index.htmls

36 Dal sito: mentelocale.it /arte/contenuti/index_html)

37 G. Perretta, Medialismo, Politi, Milano, 1993, p. 194