IL CRISTALLO, 2010 LII 2-3 [stampa]

CONTRO I MITI ETNICI

Conversazione con STEFANO FAIT e MAURO FATTOR alla ricerca di un Alto Adige diverso

Il vostro libro (Contro i miti etnici. Alla ricerca di un Alto Adige diverso, Raetia, Bolzano 2010) viene presentato quando si è appena concluso l'anno hoferiano, in un momento in cui è più che mai aperta la querelle sulla toponomastica, dopo le elezioni comunali che hanno confermato la crescita dei partiti etnici alla destra della Svp.

Voi sentite, per un impulso di natura etica, che coinvolge ciò che vi è di più personale in ciascuno di noi, la necessità di prendere posizione contro i miti etnici alla ricerca di un Alto Adige diverso. Nella vostra introduzione scrivete: "il nostro è un invito a guardarsi attorno con occhi nuovi, a sollecitare le proprie e altrui riflessioni, a sognare e progettare un angolo di mondo in cui si possa essere liberi, autonomi e responsabili. Un luogo in cui la voce della tribù non sovrasti mai quella della coscienza".

Stefano Fait riassume così la prima parte del suo saggio: "il primo capitolo avanza l'ipotesi che, a causa della sua articolazione in gruppi etnici, la società altoatesina è condannata a rimaner un terreno fertile per il razzismo. Il secondo capitolo discute la tesi che il patriottismo chiamato in causa dai politici di lingua italiana e tedesca per giustificare l'avversione a ogni tentativo di superare le barriere linguistiche e psicologiche in Alto Adige, è il retaggio di un modo retrogrado di intendere i rapporti umani ed è quindi una sciagura per l'intera società e per i principi che hanno ispirato l'idea stessa di Europa moderna. Il terzo si occupa di smantellare la vacca sacra della cultura come idolo intoccabile, posto al di là del Bene e del Male. La tesi di fondo è che la concezione di autonomia, libertà e Patria/Heimat, che domina il dibattito locale ed è più o meno esplicitamente accettata da entrambi i "blocchi" maggiori, è corresponsabile del deficit democratico locale e non può che alimentare gli antagonismi etnici.

Nella seconda parte Fait svolge il tema che gli sta più a cuore, quello dell'affermazione della libertà della persona rispetto a modelli precostituiti e a norme fissate dalla collettività. È una posizione forte che ci fa chiedere se dalla sua analisi dei miti etnici non risulti che contro di essi non ci sia altra possibilità di riscatto se non con un atto di conversione radicale. Non c'è anche la via di una graduale correzione di abiti mentali generati dall'influenza dominante dell'ambiente?

 

Fait: "La mia risposta è che esistono molti futuri possibili, una situazione analoga alla premessa di "Il giardino dei sentieri che si biforcano" di Jorge Luis Borges. Molto dipende dal numero di residenti in Alto Adige che risponderebbero di sì alla domanda: "Ci sono dei residenti dell'Alto Adige che sono così ignoranti, faziosi e poco lucidi che sarebbe meglio privarli della libertà d'espressione e del diritto di voto, almeno localmente? ". Molti intervistati non risponderebbero sinceramente, quindi non sapremmo mai l'incidenza effettiva di questa mentalità autoritaria. Quel che sappiamo con certezza, invece, è che contrapporre un gruppo all'altro serve unicamente a ostacolare la maturazione della società civile e quindi a giustificare misure paternalistiche e tecnocratiche da parte delle autorità nei confronti dei cittadini. Dal che ne consegue che il cambiamento non proverrà dall'alto. La storiografia lo conferma: chi detiene il potere non ama il cambiamento, a meno che questo non serva a rafforzarne la posizione. Perciò la conversione, graduale o subitanea che sia, deve cominciare dal basso, dalla gente comune. Nei Promessi Sposi, Alessandro Manzoni commentava la difficoltà con la quale pochi riuscivano a esternare il proprio scetticismo in merito alla reale esistenza degli untori con una frase davvero molto bella: "Il buon senso c'era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune" (cfr. cap. XXXII). Il potere repressivo della tradizione (il senso comune) sulla voce della nostra coscienza (il buon senso) è quello che, finora ci ha impedito, non solo in Alto Adige, di farci un'idea chiara di come dovremmo stare al mondo. Anche da questo dipende il successo delle riforme auspicate, che sono riforme delle coscienza e, in quanto tali, si avviano solo quando i tempi sono maturi. Lo sono, in Alto Adige? No, altrimenti "Contro i Miti Etnici" (CME) sarebbe già alla quinta edizione. E quando lo saranno? Credo molto prima di quanto ci si potrebbe aspettare. Il malessere che attraversa gli Stati Uniti, l'Europa e il Giappone lascia intendere che non ci sarà gradualismo, anche se quella sarebbe la via più auspicabile. Ci sarà una cesura, un prima e un dopo. tutto sta nel capire come ci si arriverà.

 

Grandi pensatori si sono succeduti nella storia ripetendo sostanzialmente due verità, rimaste per lo più inascoltate, che ci sarebbero di grande aiuto: "fate agli altri ciò che desiderano sia fatto loro" ed "a ciascuno il suo", o per meglio dire "da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni". Quest'ultima è una norma di condotta che non si trova solo in Marx ma anche nel Nuovo testamento, nella forma: "Nessuno, infatti, tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case, li vendevano, portavano l'importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno" (Atti degli apostoli 4, 34-35).

Sono verità facili da memorizzare ma difficili da mettere in pratica per degli esseri viventi così egotisti quali noi siamo. Se li avessimo ascoltati, non ci troveremmo alla mercé delle multinazionali, dei guerrafondai, dei populisti, dei settarismi più disparati, di tipici golem. Se li avessimo ascoltati, avremmo capito che la vita migliore è una vita sobria e che questa civiltà dei bisogni indotti e della loro complicazione e proliferazione ci sta portando alla rovina. Avremmo anche capito che chi si avvinghia a un paradigma obsoleto quando questo si sta estinguendo, finirà con esso nell'abisso. Sono convinto che quel momento stia sopraggiungendo - a causa della crisi del capitalismo e della crisi climatica, che avrà effetti imprevedibili e presumibilmente agghiaccianti, nel senso letterale del termine - e che molti rimarranno sorpresi di quanto fragili siano i presupposti, così superficiali ed esteriori, su cui si fondano le nostre società "avanzate", incluso l'Alto Adige.

"Contro i miti etnici". Alla ricerca di un Alto Adige diverso" è nato anche per offrire una visione alternativa, recuperando quella che ha ispirato le migliori forze riformatrici del passato, l'idea di un luogo in cui uomini e donne godono della piena libertà di cercare la verità e di coltivare la loro vita interiore. Dove ci si riunisce e si lavora assieme per il Bene Comune, quello degli esseri umani e quello della natura. Credo che Alexander Langer fosse sostanzialmente in linea con questo tipo di aspirazioni.

Ma, per avere successo, dobbiamo sforzarci di far capire a quante più persone è possibile che è giunto il tempo di lasciar andare la presa, di togliersi dall'ombra dei golem, di allontanarsi, ciascuno nei suoi modi e nei suoi tempi, dai paradigmi che erano validi prima ma che ora rischiano di trascinarci a fondo. È tempo di procedere oltre. "Quand'ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l'ho abbandonato" (1 Corinzi 13: 11). In queste fasi di grandi sommovimenti, d'insicurezza, di trepidazione, di enormi sfide, è facile irrigidirsi, tornare sui propri passi, verso il bordo della vasca, verso la riva. Ma è importante insistere, perché molti di noi sanno già nuotare e non devono disperare solo perché tanti altri - quelli che indossano un'armatura di maiuscole totemiche: Disciplina, tradizione, Patria, Dovere, Natura, ecc. - vogliono convincerci che se gli esseri umani fossero fatti per stare in acqua, avrebbero le branchie e le pinne.

Per il momento, finché non giungerà il tempo della Grande Cesura, sarà necessario fare buon viso a cattivo gioco e conformarsi alle sue regole, ma nella consapevolezza che quel gioco e quelle regole sono sorpassati - "al tempo stesso dentro e fuori dal gioco, osservandolo e meravigliandosene", diceva Walt Whitman. Nella consapevolezza che chi si oppone al cambiamento apparterrà al passato e chi invece si lascia sospingere dall'onda del cambiamento apparterrà al futuro, sarà il futuro.

Mi rendo conto che sposare una causa che richiede una vera e propria apocalisse della mente non sia semplice. Ma i fisici hanno pur dovuto ammettere che il modello newtoniano di un universo meccanico, gerarchico e perfettamente ordinato era una descrizione inadeguata della realtà. Anche noi arriveremo ad accettare il fatto che i golem non hanno mai avuto alcuna esistenza reale, ma erano il parto delle nostre fantasie, delle ombre, dei riflessi, degli idoli di burro che si sciolgono al sole dei fatti, dei parassiti che s'impiantano nella nostra coscienza per poi dirle cosa fare solo a patto che li riconosciamo come nostri signori e padroni. Sono qualunque cosa ma non la realtà. Capiremo che venerare i golem esige da noi la negazione di quasi tutto ciò che occorre per preservare il nostro equilibrio psichico e la nostra integrità morale e intellettuale e per indurci alla sottomissione, alla negazione di sé, alla contrizione, all'espiazione, alla docilità, all'umiltà interessata - virtù utili solo a chi cerca di sopprimere il libero arbitrio e la dignità altrui e propria. Capiremo che credere nella dignità umana significa cercare di sviluppare le proprie potenzialità invece di lasciarle latenti; resistere alla tentazione di imitare gli altri o conformarsi in modo irriflessivo alle usanze, mode e mentalità prevalenti; resistere alla tentazione di fingere di essere ciò che non si è, di recitare una parte per gli altri e per se stesso; e, più importante di tutto il resto, significa attribuire ad ogni singola persona questo pensiero: "ho una vita da vivere, è la mia vita e quella di nessun altro, è la mia unica vita, fatemela vivere. Esisto e nessuno può prendere il mio posto, perché non sono stato programmato per essere ciò che sono diventato" (Kateb, 2011).

Allora saremo anche pronti ad accettare l'idea che il principio fondativo delle nostre società sono i diritti, non la democrazia, perché una democrazia che non sia costituzionale (una democrazia plebiscitaria, del tipo che è tanto in voga nelle Alpi) non è più tale: il costituzionalismo limita i capricci della sovranità popolare. I diritti esistono indipendentemente dalla nostra volontà, non scaturiscono dalla volontà popolare. Nessuna maggioranza referendaria li può abolire, anche se fosse un singolo diritto di una singola persona che non se ne curasse più di tanto. Statuti, convenzioni e carte costituzionali non li rendono possibili, li riconoscono, perché non sono stati inventati, sono sempre esistiti. Sono verità di per sé evidenti, evidenti per chi abbia una sufficiente conoscenza, coscienza e sensibilità (Kateb, 2011). Dopo di che saremo pronti a disfarci della pulizia etnica concettuale attraverso la quale cancelliamo l'altro dalla nostra coscienza, rifiutandoci di riconoscere che il diritto di noi tutti di esistere implica anche l'obbligo di comportarsi con decenza l'uno verso l'altro; e che se la mappa non è il territorio, ossia se la nostra mappatura della realtà è soggettiva, solo uno stolto si rifiuterebbe di consultare le mappe altrui, magari persino vietandole. La censura e il paternalismo sono garanti della menzogna e dell'impostura, annunciatori di sventura. In Alto Adige, ciò renderà possibile il superamento di un sistema che è in contraddizione con i diritti umani e che è stato tenuto in vita da chi ha continuato a credere che fosse possibile avere la botte piena e la moglie ubriaca".

 

Mario Fattor prende le mosse dal trend a destra dell'elettorato di lingua tedesca nel 2008 che è stato confermato anche nelle elezioni comunali del 2010. Il successo dei Freiheitlichen è, a suo giudizio, da considerare come l'affermazione di un populismo etnonazionalista. Egli concorda con Walker Connor nel rilevare l'importanza decisiva dei fattori emozionali. Bisogna perciò prestare attenzione agli aspetti immateriali e ideologici assai più che a quelli tangibili e di politica economica. "Nei programmi elettorali dei Freiheitlichen, Süd- tiroler Freiheit e Union, i temi economici - intesi come necessità di attrezzarsi rispetto a un mercato in continua e rapida trasformazione - di fatto scompaiono".

La Svp ha sempre puntato a un'esasperazione emotiva e doping identitario. È in atto un processo che gli antropologi definiscono con il termine "pseudospeciazione". Fattor parla di ideologia del "Bauer" e dei suoi riflessi sulla questione della toponomastica. "Osservata da questa particolare prospettiva, la contesa sulla toponomastica appare sotto una luce nuova, diventando innanzitutto il luogo in cui meglio si esplica, come condizionamento operante, ciò abbiamo definito un anacronismo passivo, non dichiarato. Centralità della terra e proprietà indivisa sono storicamente per il Bauer una questione quanto mai concreta, quasi di sopravvivenza. Sono le condizioni materiali che rendono possibile nel tempo la perpetuazione dei nuclei familiari rurali e con essi di un determinato stile di vita che ha assunto valenza identitaria. Ma abbiamo anche spiegato come autorità e terra, Bauer e maso, tirolese e Heimat siano in fondo tre modi diversi di dire la stessa cosa. Naturalmente su piani diversi e con un livello di astrazione differenziato. Quello che accade è che centralità della terra e questione della proprietà subiscono un processo di smaterializzazione crescente il cui approdo finale è la nuda potenza del simbolo. La questione dei nomi delle città. Dei paesi, delle montagne, dei fiumi, con la richiesta dei partiti di lingua tedesca, a partire dalla Südtiroler Volkspartei, di una sostanziale abolizione della toponomastica di lingua italiana introdotta dal fascismo a partire dagli anni Venti, è un modo -ad altissimo contenuto simbolico - di riaffermare simbolicamente il controllo del territorio, e quindi della "proprietà" della terra in senso tirolese, depurandola dalle interferenze che rendono difficoltosa o più difficoltosa, la costruzione di un percorso identitario collettivo. E monolitico. " (pagg. 196 e 197).

 

Fattor, cui chiedo pure che cosa, a suo avviso, ci riserva il futuro, mi risponde così: "Direi che il quadro è molto incerto e non mi faccio illusioni". Certo è che la semplicità tripartita regolata dallo Statuto di Autonomia offre oggi un'immagine distorta e banalizzata della realtà. Quella immaginata dallo Statuto è una società semplice, quella in cui viviamo, al contrario, è una società complessa. La modernità è una complessità in cui le identità nazionali sfumano e sfumeranno sempre di più. Mistilingui, immigrati, un mercato del lavoro che richiede competenze linguistiche nuove sono variabili difficili da governare e da ricondurre ai paradigmi noti dell'autonomia altoatesina. Per cui delle due l'una: o il sistema implode o evolve. Qualsiasi ecologo sa che i sistemi banalizzati, a parità d'intensità di disturbo, sono i più prevedibili e poveri nelle modalità di risposta e quindi i più esposti al declino. La riduzione della complessità richiede, infatti, uno sforzo maggiore di input energetici e di gestione per il mantenimento in vita del sistema stesso. La semplicità, a queste condizioni, diventa quindi una fatica immane, non sostenibile. È la pluralità intesa come molteplicità di opzioni a mettere i sistemi complessi in condizione di fornire risposte adattative in modo flessibile. Quello che bisognerebbe fare in Alto Adige è dunque spostare il baricentro e le modalità delle tutele: meno identità collettiva e più diritti individuali. Penso a una società che abbia come impegno prioritario quello di mettere in condizione i singoli di effettuare scelte consapevoli di autotutela delle propria identità, che non è solo etnica o linguistica, offrendo una pluralità di opzioni. Percorsi formativi, ma non solo, in cui ognuno possa scegliere quale quota di identità collettiva cucirsi addosso. A tutti deve essere garantita la possibilità di sentirsi e di vivere come tirolesi, italiani, ladini; nessuno però deve essere costretto a farlo, come accade invece oggi, tenendo in piedi società separate in cui persino un cingalese o un marocchino devono infilarsi in una delle tre opzioni collettive riconosciute. Bene, detto questo, la domanda è: come ci si arriva? Due solo le possibilità: o per convinzione, governando un cambiamento che comunque è in atto; oppure subendo il cambiamento dopo avere tentato fino all'estremo di difendersene. Credo che l'opzione numero uno sia ampiamente preferibile. Però sono scettico. E quello che mi rende scettico è la povertà progettuale complessiva rispetto al modello autonomistico. C'è una sorta di conformismo, o forse di rassegnazione, rispetto alla possibilità reale di avviare una stagione di cambiamento. Per questo è nato il nostro libro. Ci piace l'arena delle idee, anche se crude e provocatorie. Mi ha colpito molto, nelle varie serate di presentazione del libro, costatare come quasi mai ci sia stato possibile arrivare a discutere il merito delle cose che abbiamo scritto. Abbiamo sempre dovuto difenderci dalle accuse preventive di essere utopisti e unilaterali. Bollati. Marchiati. Certo, nel nostro libro abbiamo fatto scelte molto nette, e ne rivendichiamo il diritto. Se ci siamo occupati del nazionalismo tirolese in modo più puntuale e tematizzato, e non abbiamo fatto la stessa cosa per la declinazione locale del nazionalismo italiano - col quale comunque abbiamo fatto i conti, e questo va ricordato - è semplicemente per onestà intellettuale. Il primo è una corazzata culturale e ideologica, assolutamente trasversale nel panorama dei partiti di lingua tedesca; il secondo è figlio di una debolezza politica, è culturalmente destrutturato, non è trasversale ed è sostanzialmente inattuale. Con l'eccezione di Unitalia, ovviamente. Soprattutto non è mai stato in grado di orientare le scelte dell'autonomia. Mettere i due nazionalismi sullo stesso piano sarebbe stato un grave errore concettuale, anche rispetto ai lettori. Per questo abbiamo mandato al diavolo il "politicamente corretto" e abbiamo preso il toro per le corna. Se ci fossimo chiamati Stefan Veith e Moritz Bauer non ci sarebbe stato alcun problema, ma siccome ci chiamiamo Fait e Fattor non ce l'hanno perdonata. Soprattutto i progressisti. Come se affrontare in modo critico l'ideologia tirolese significasse essere antitedeschi. Una gigantesca sciocchezza. Del resto, il copione non è nuovo. Quando negli anni Settanta Alex Langer criticava la Volkspartei veniva bollato come antiautonomista tout court. Oggi il meccanismo è lo stesso, anche se magari in buona fede. Quello che abbiamo cercato di fare Fait ed io è semplicemente mettere le idee al centro del nostro lavoro, infischiandocene del resto. Una scelta consapevole che rivendichiamo. Del resto, il libro va preso nella sua interezza. La prefazione di Nardelli e la postfazione di Pallaver ne sono parte integrante e mitigano, non a caso, le cose scritte da noi due. Non è un caso, lo ribadisco. Come non è un caso che io abbia scelto, in apertura della mia sezione, una frase di Carl techet che recita: "Ho scritto questo libro a onore di un paese di cui sinora si conosceva solo un lato. Io l'ho osservato anche dall'altro. Forse le nostre unilateralità si integreranno finalmente in una visione completa". In altre parole: senza annacquare nulla, abbiamo messo il lettore in condizione di capire che cosa stava leggendo, e come andava maneggiato e interpretato - nelle sua varie parti - il contenuto del libro. Chi si è presa la briga di leggerlo, alla fine l'ha capito. Agli altri restano i pregiudizi. Ma va bene così".