IL CRISTALLO, 2010 LII 2-3 [stampa]

CANALE MUSSOLINI, UN POEMA POSTMODERNO

di FRANCO ZANGRILLI

Se si guarda al panorama della letteratura contemporanea si nota che il romanzo postmoderno spesso cerca di raccontare in modo diverso le cose, di rinnovarsi sul piano strutturale, narratologico, stilistico, di sperimentare con tanti elementi della scrittura. Dagli anni Settanta in poi si impone mettendo in luce tutta una serie di caratteristiche, di argomenti, di motivi, mostrando particolare predilezione per la storia passata e recente, per gli avvenimenti cronachistici e mediatici, per la realtà della nostra società dell’apparenza, consumistica, materialistica, neocapitalistica, che si trova smarrita, alla deriva, sulla strada di una profonda decadenza. Come mostrerebbe una superficiale lettura di romanzi quali Libro de Manuel (1973) di Julio Cortázar, Il nome della rosa (1980) di Umberto Eco, Libra (1988) di Don De Lillo, La divina truffa (2008) di Sergio Campailla. Sono romanzi di vasto respiro, poemi postmoderni che si ispirano alla storia per farla soggetto dei procedimenti del rovescio e dell’ambiguità, per metterla sotto la lente di un’ironia multiforme, che in modi sottili sa cedere alla satira e alla parodia, o farsi semiseria, amara, demistificante. Ma usano la storia sempre per parlare e per meglio capire la realtà attuale. La storia diventa anche per via del contrasto lo specchio dei nostri tempi che stanno portando alla distruzione del pianeta; è una “maschera nuda” del presente anche per Pirandello, un grande padre del postmodernismo che la inserisce in una sfera mitico-fantastica a cominciare da diverse poesie di Mal giocondo a Enrico IV ai Giganti della montagna1. Gli scrittori postmoderni di valore enfatizzano “la presenza della storia” perché vogliono che l’uomo d’oggi, raccolto nel suo egoismo e narcisismo, apra gli occhi e apprenda dagli errori del passato, abbia una solida coscienza degli eventi accaduti, della realtà storica e di tutto ciò che la compone, dalle tradizioni ai costumi, alle culture di vario genere, religiose, politiche, artistiche, ecc. Il loro messaggio sembra affermare che solo se si sa quello che siamo stati si sa dove stiamo andando, rinforzando così la massima di un altro gran personaggio del postmodernismo, Jorge Luis Borges, che riappare nei suoi scritti: “yo soy la substancia de mi pasado”, e ripresa da diversi narratori nostrani, da Pier Paolo Pasolini a Sandro Veronesi.

La narrativa italiana continua a trattare con ossessione tanti aspetti dell’epoca fascista. Di recente sono venuti alla luce due romanzi che si occupano dell’emigrazione di tanti contadini che attorno al 1930 si realizza dal Veneto al Sud, dove c’è bisogno di braccia per bonificare le Paludi Pontine, un territorio oggi denominato Agro Pontino, che si estende lungo la costa del Mar tirreno nella provincia di Latina. L’uno rappresenta la vicenda della famiglia Masiera2, l’altro quella della famiglia Peruzzi3. Ma in sostanza sono due romanzi molto diversi, che affrontano argomenti simili con stile e finalità diversi.

Canale Mussolini di Antonio Pennacchi, che ha vinto il premio Strega 2010, è frutto di anni di lavoro e di meditazione. Per scriverlo l’autore ha dovuto svolgere una lunga ricerca, ha dovuto rovistare tra diversi generi di documenti, di manuali, di testi, fare i conti con una vasta materia.

In una breve nota introduttiva Pennacchi suggerisce che questo romanzo è il suo capolavoro (un po’ come fanno tutti gli autori quando pubblicano la loro più recente opera) e che i precedenti lavori lo hanno preparato alla creazione di Canale Mussolini: “ogni altra cosa che ho fatto – bella o brutta che sia – l’ho sempre sentita come preparazione e interludio a questa. Anche gli altri libri sono nati in funzione di questo e solo per lui mi sono messo a studiare le storie più strambe di questo mondo, dall’uomo di Neandertal all’architettura e bonifiche fasciste: solo per poter fare questo libro. Non sembrerà quindi strano se a un certo punto capiterà di imbattersi in brani o cose lette negli altri” (p. 7).

Canale Mussolini è un romanzo di difficile classificazione. Forse si potrebbe considerare un poema postmoderno. Anche perché si avvale di cifre stilistiche e narrative tipiche dell’epopea di ogni tempo: che vanno dall’accumulazione all’enumerazione, all’esagerazione, costruite anche con serie di aggettivi e di sostantivi: “è sempre stato bello, forte, buono, giusto, generoso e audace […]; pugni, calci, piedi, morsi” (pp. 83, 103); che articolano il pastiche mentre si raffigurano sommosse sociali e politiche, guerre civili, battaglie delle due guerre mondiali; che possono mettere in luce oltre alla tragica commedia della vita, i comportamenti non comuni dell’uomo, le stranezze della natura, il grottesco delle cose, persino di un sistema o di un organo sociale emblematico di una sistemazione imperfetta. Anche perché fa sentire l’impronta degli “ismi”, dal romanticismo al (neo-)realismo, al surrealismo, e la presenza di una serie di generi appartenenti anche al profilo biografico e alla telenovela animata da personaggi con struggenti passioni e sogni, stereotipi dell’ideologia o socialista o anarchica o fascista. Anche perché incorpora mini storie che, pur sviluppandosi frammentariamente o parallelamente, funzionano da specchio o da contrasto ad altre di maggior rilevanza (ad es. quella del soldato che muore tra le braccia di Armida mormorando il nome della sua donna amata, riflette la vicenda tragica del marito di Armida che pure muore in guerra, pp. 402-405); intreccia con ritmo epico una matassa di azioni, per lo più rivelatrici, inquietanti, e mosse da una galleria di personaggi che attraversano i periodi più significativi della storia italiana contemporanea. Periodi che permettono allo scrittore di rievocare un passato complesso che sembra farsi astorico e simbolo del mistero; di scavare in avvenimenti delicati, oscuri, controversi, misti di amoralità e di corruzione, in vicende che lo perseguitano Pennacchi come se esse fossero “chimere” o “fantasmi” conturbanti. Egli le risuscita con una memoria lucida e con uno sguardo serio, permeato ora dall’ironia tagliente ora dalla pietas, soprattutto per le varie generazioni della numerosa famiglia dei Peruzzi che lottano con tutte le loro energie contro un destino avverso.

Canale Mussolini sembra un poema storico postmoderno che abbraccia, pur con momentanei flashs evocativi, realtà remote e vicine, tempi molto diversi del passato e del presente, puntando maggiormente su un’éra che va dall’inizio del Novecento alla fine degli anni ’40, con particolare attenzione alla scontentezza dei contadini per non avere la propria terra, alla prima guerra mondiale, alla crescita e al dominio del fascismo, alle guerre nel continente africano, alla guerra civile in Spagna, all’alleanza del Duce con Hitler, alla seconda guerra mondiale, alla repubblica sociale, alle lotte sindacali, a una storia che si muove con grandi contraddizioni e crisi. Una storia per la quale l’autore nutre un nero pessimismo che si rivela per esempio quando attraverso vicende diverse mostra come il fascismo con una mano dava e con un’altra toglieva ai poveri disgraziati; come i suoi rappresentanti erano corrotti ed imbroglioni, ladri che prendevano da quelli che erano sotto di loro e non avevano abbastanza per sopravvivere. Un pessimismo che si rafforza quando si mette a fuoco a volte con particolare sensibilità a volte con crudo realismo gli orrori della guerra, come il maltrattamento dei prigionieri che per la grande fame sono costretti a cibarsi di topi. Ma differentemente dal Pirandello dei Vecchi e i giovani, dal Bacchelli del Mulino del Po e da altri scrittori di romanzi storici, Pennacchi non sempre riesce a romanzare la storia. E allora l’opera potrebbe considerarsi anche un saggio storico, come difatti è ritenuta da certi recensori.

Diviso in tre parti, Canale Mussolini dispiega una struttura che si sviluppa in maniera apparentemente lineare, facendo continuo uso degli andamenti frammentari e spezzettati, delle tecniche ad andirivieni, che vanno avanti ed indietro nell’arco di un tempo-spazio molto ampio, recuperano finanche un paradiso perduto, e utilizzano il flashback e il flashfoward per enfatizzare l’eterno presente della storia. talvolta si ha l’impressione che si abbia a che fare con una diegesi molto filmica, spontanea nel tagliare, nell’inquadrare, nel focalizzare i campi. Non mancano situazioni in cui si riesce a cucire disparate dimensioni temporali anche nel corpo di una frase, soprattutto con l’uso calzante della similitudine e della metafora, che spesso trasformano e impartono un’aura meravigliosa con le immagini mitiche (ad es. p. 26: “gli è sbucato sul carretto come Mosè da una nuvola di polvere”).

Come certi romanzi postmoderni, Canale Mussolini si presenta come un’opera enciclopedica, un mosaico molto colorito, composto di spazi e tempi eterogenei, lontani e vicini, ma che si usano per sviluppare il carattere di un particolare personaggio o di un dato evento storico, come fa notare la rappresentazione di certe (dis-)avventure belliche o di azioni che avvengono in diverse parti del mondo. Il romanzo però si ambienta durante il periodo del fascismo e maggiormente nella zona veneta tra Rovigo e Ferrara, popolata da poveri contadini che fanno i mezzadri e vivono nella miseria, e in quella laziale dell’Agro Pontino, dove arrivano in cerca di fortuna parecchi contadini veneti e da altre parti d’Italia. È ricco di figure storiche e reali, anche del mondo politico (Giolitti, Roosevelt, Nenni, ecc.), a cui si intrecciano quelle inventate anche del mondo aristocratico e di quello agreste simboleggiato dalla saga della famiglia dei Peruzzi.

Come certi romanzi postmoderni, spazia in tanti campi, dall’antropologico al sociologico, allo psicologico, dall’architettonico al geologico, al mediatico, al punto che si richiamano i film tipo Mediterraneo, le serie televisive quale i Soprano, i programmi televisivi di informazione e d’intrattenimento, gli strumenti della comunicazione tecnologica, da internet ai “telefonini satellari” che avvicinano realtà molto distanti tra loro. Si articola con tagli autobiografici, saggistici, documentaristici, e con andamenti scrupolosi del dettaglio e della precisione. Vi confluisce tutta una serie di cose: per esempio, aspetti di varie filosofie occidentali ed orientali; l’utilizzo sobrio di vocaboli e di espressioni in latino, in inglese, in tedesco; l’uso molto abbondante del dialetto ferrarese e quello nato dalla mistione del veneto-pontino, quello parsimonioso del casertano-napoletano, romano, ciociaro; l’impiego ricorrente della stilizzazione di certi motivi e dell’onomatopea che ricrea movimenti, suoni e rumori degli insetti, dei treni, delle azioni e degli strumenti di guerra (mitragliatrici, aerei, bombe, ecc.). Vi ritornano i ricordi personali, che fanno sentire la malinconia e la nostalgia per la realtà del passato ormai scomparsa, come quella idillica dei riti natalizi (p. 231).

Come nel romanzo postmoderno, in Canale Mussolini il citazionismo ha la funzione di sottolineare l’alto valore dei testi classici. Vi vengono parafrasate direttamente ed indirettamente idee di illustri pensatori e scrittori del passato. Vi vengono incorporati e citati versi di D’Annunzio o di poeti locali quale Lidano Sensucci; la scrittura di un’epigrafe attaccata al muro; le lettere di soldati in guerra, con le quali l’autore a volte si sbizzarrisce a ricreare il linguaggio dell’analfabeta; espressioni, detti, proverbi di vario genere, ripresi dalla cultura contadina e da quella libresca, anche da Plinio; canzoni d’amore, popolari, favolose, litanie, e componimenti in versi e in prosa che esaltano il fascismo; stralci delle idee, dei comizi, e dei discorsi del Duce fatti anche alla radio, degli articoli pubblicati su varie testate, dall’“Avanti” al “Popolo di Italia”, dal “Mattino” al “Messaggero”, al “Corriere della sera”. Spesso questo materiale è messo in corsivo. A volte è difficile dire se tale materiale sia vero o inventato dalla penna dell’autore, che sa anche dilettarsi mentre ricalca miti del mondo infernale di Dante come l’immagine di Caronte che traghetta le anime dei morti, o fa la mimesi linguistica della parlata tronfia ed altisonante del Duce.

Da diversi punti di vista Canale Mussolini è un’opera molto complessa, benché si legga d’un fiato, grazie alla lingua per lo più vicina al carattere del parlato. Viene esposta da un narratore che affabula ciò che i parenti gli hanno raccontato della storia della loro famiglia, della cronaca familiare che diventa uno specchio metaforico della realtà storica contemporanea, della società italiana che attraverso gli anni subisce cambiamenti radicali ed incredibili, si trova in balia di una perenne metamorfosi. Egli ama riportare le fiabe, le leggende, tanti tipi di storie che ha ascoltato fin da bambino. È un narratore che assume svariati ruoli di diegesi, quello di una figura partecipe e distaccata, a volte quasi un occhio onnipresente che guarda le infinite sciagure umane. È un narratore che sembra un’immagine distorta di Pennacchi, scaltro e sagace al punto che mentre combina i giochi del divertimento, mette in risalto l’aspetto oscuro e tragico delle cose. È un narratore che lascia e riprende, che taglia e spezza, e trova i punti di raccordo, che si orienta in varie direzioni riuscendo a volte più a volte meno a far convergere i fili del racconto, a sfruttare ritornelli ed espressioni retorici (ad es. “per farla breve”) e tecniche narratologiche del capolavoro manzoniano, i cui echi nel récit traspaiono a vari livelli, anche quando si descrive un tumulto. Quando rappresenta certe risse, liti e lotte che sorgono tra i coloni che si sfidano col coltello, o le azioni di guerra, preferisce rifarsi alle battaglie omeriche e dell’epica tradizionale.

Sovente si avvale della variazione dei tempi verbali che appare poco adatta e giustificabile. Sovente si intrude nella narrazione largendo giudizi anche di carattere etico, commenti estetici e teorici anche nei riguardi del mito popolare o classico che sia (“un mito è un mito, e non si va mai a vedere se un mito di fondazione è vero o meno. Ciò che conta è ciò che il mito racconta” p. 253). E sovente si intromette per ricordare al destinatario che lui sta raccontando una sua verità, suggerendo il relativismo-soggettivismo della realtà e della storia (“io le racconto la verità dei Peruzzi, che i miei zii hanno raccontato a me, secondo come l’avevano vista loro. Per l’altra campana e le ragioni degli altri, lei deve andare a parlare con loro. Ognuno ha le sue ragioni. Da noi non può sentire che le nostre” p. 266); a polemizzare ed a stroncare gli storici che hanno ignorato fatti importanti della storia; a portare avanti il discorso sul revisionismo storico che si è acceso negli ultimi decenni:


Come dice, scusi? che questa cosa sui libri di storia non c’è? che tutti gli storici scrivono solo dei tedeschi ad Anzio, e non dei coloni dell’Agro Pontino? Ah, lo so pure io che c’è scritto così, ma che le posso fare? Mica è colpa mia se chi ha compilato le storie s’è basato solo sugli archivi militari. Lì evidentemente i nomi nostri non ce li potevano trovare […] Così stanno i fatti le ho detto, così me li hanno raccontati e così glieli racconto. Poi se ci vuole credere ci crede, e se no faccia come le pare. (pp. 442-443)


Spesso allaccia il colloquio con un ipotetico lettore immaginario. Una sorta di sosia molto strambo cui si rivolge con il “Lei” o con l’appellativo “Signore”. In lui trova un ascoltatore ideale, gli parla senza essere interrotto, per confessare covati segreti, pensieri, passioni; per lanciargli allusioni e spiegazioni, richiami e provocazioni; per chiedergli consigli e pareri; per avviare e sviluppare discorsi su argomenti controversi. A volte lo esorta a sforzarsi di capire certe cose, a considerare dei suggerimenti, a fare delle elaborate riflessioni. Anche questo suo atteggiamento rinforza l’aspetto interrogativo della prosa e la infittisce delle nuance del discorso indiretto libero teso a focalizzare anche le perplessità e le intime sofferenze; degli stilemi del ritornello che appaiono di pagina in pagina; delle forme della ripetizione, a volte volute per unire certi passaggi e motivi, a volte non necessari, tanto abbondanti da causare stonature e sciatterie.

Mentre si rivolge a questo lettore, il narratore(-Pennacchi) si abbandona alla divagazione, alla digressione, e all’elucubrazione che permettono lo sfogo intellettualistico; e soprattutto alle disquisizioni sugli eventi storici; che lo portano a intensi ripiegamenti, a rivangare un passato morto ma che si trasfigura continuamente in immagine del presente. Spesso i difetti dell’opera iniziano proprio da qui, dalle numerose ripetizioni e dalle fluviali dissertazioni dell’autore(-narratore) su argomenti e vicende della nostra storia, che gli fanno perdere il fiato e lo stancano, gli fanno perdere le redini della narrazione e tirare avanti con andamenti discontinui e prolissi, senza preoccuparsi di stringare e di limare, riuscendo monotono fino ad annoiare il lettore. Data la grande mole del testo, esso avrebbe guadagnato di molto se ne fosse stato fatto un accurato editing.

Ma questo narratore, anche per vie paradossali, sembra identificarsi con le voci corali e polifoniche di quelli che gli hanno raccontato gli avvenimenti e i fatti storici, con i membri del nucleo familiare dei Peruzzi, quasi tutti affabulatori e narratori di storie cronachistiche, di miti, di favole, specialmente le donne, dalle zie alla nonna, che sembrano personaggi di un Decameron vivente, di una ricca tradizione del narrare orale (“mia zia […] aveva una voce canterina e sapeva raccontare mille storie, anche le più strampalate, facendogliele però credere vere” p. 189), che si dilettano e dilettano a raccontare in modo rituale attorno al focolare domestico (“riuniti tutti a sera, dopo cena, ora in un podere ora in un altro a raccontarsi storie, fòle, favole e roba del genere, al lume di candela o di petrolio” p. 300), a intrattenere ed a illuminare la fantasia dei fanciulli (“mia nonna chissà quante volte gli ha dovuto raccontare la favola del diavolo” p. 200); una forma di istruzione-realtà oggi rimpiazzata dalla televisione e dal computer che sempre più ciascuno di noi ha nella camera da letto, strumenti di informazione presi a bersaglio dall’ironia pungente dell’autore. Queste identificazioni permettono di creare ambiguità, sospensione, ritmi di accelerazioni e decelerazioni; di riprendere immagini, eventi, personaggi, i dilatati discorsi storici; e fanno pullulare la ripetizione delle locuzioni, delle espressioni, dei modi di dire, dei mezzi retorici (“Come si dice?”, “Come si dice. Non ho capito bene?”, “Per farla breve”, “Ecco, adesso glielo spiego”, “Parlo solo di ciò che conosco, o almeno di ciò che mi hanno raccontato i miei zii”, “Ora non so se fossero vere le cose che dicevano”, ecc.). Sono identificazioni che servono a fare reiterare confessioni e delucidazioni della poetica storiografica di Pennacchi; a ricordarci continuamente che egli racconta le storie vere accadute nel tempo, quelle che per una vita ha ascoltata dalla voce degli altri, parenti e conoscenti, quelle di cui è stato testimone oculare e ha assimilato da libri straordinari. E se queste storie risultano fantastiche non è tanto perché sono adornate dall’immaginazione favolosa e dai canoni letterari, ma soprattutto perché tutto fa parte della vita; tutti gli aspetti del meraviglioso, anche le più mostruose assurdità e le più capricciose irrazionalità, sono radicati nella realtà quotidiana e quindi storica.

I modi del raccontare, inclusi quelli paradossali e umoristici, spingono questa epopea postmoderna ad accogliere il discorso metanarrativo che sa aprirsi all’intertestualità e all’autoreferenzialità. Si tratta di un metadiscorso che l’autore imposta dall’apertura ed elabora durante il percorso dell’opera, a volte calcando argomenti più o meno simili. Innanzitutto ci rivela che fin da bambino ha “sempre saputo di dover fermare questa storia – le storie difatti non le inventano gli autori, ma girano nell’aria cercando chi le colga – e raccontarla prima che svanisse” (p. 7), che, come gli scrittori del postmodernismo, da Landolfi a tabucchi, da Bonaviri a Franchini, si serve della tecnica dell’accettazione-negazione, della litote: da una parte dice che tutto è frutto dell’invenzione riguardo alle cose che capitano alla famiglia Peruzzi e che concernono personaggi storici realmente esistiti (“non è vero niente ed è tutta opera di fantasia”), dall’altra parte afferma che “tutti i fatti qui narrati sono da considerarsi rigorosamente veri” (p. 7). In certi casi ha dubbi se sta romanzando un po’ troppo i fatti cronachistici, o le vicende della storia, e così ritorna a interpellare il lettore che diventa una parte della sua coscienza dimezzata, oltre a un mezzo strumentale che dà luce ai suoi ripiegamenti e monologhi (“Che fa non ci crede? […] E che ragionamenti sono questi, è chiaro che l’ho accorciata. Mica mi posso mettere a raccontare tutto quanto” p. 19). Per il narratorePennacchi il lettore è una sorta di amico-nemico. E con questo “Signore” allaccia accesi discorsi, tesi anche ad alludere alla questione della memoria che non sempre racconta fedelmente i casi del passato, il processo della rievocazione può trasfigurali, presentarne un’altra realtà, distorta o colorita che sia: “Noi due però – signore mio – non possiamo andare aventi così. Bisogna che ci mettiamo d’accordo […] Non ho niente da nascondere a tanti anni di distanza, e tutto quello che le dico è l’esatta verità […] Mi deve credere, se no è meglio che lasciamo stare. Io non invento niente. Al massimo posso ricordare male” (p. 20). Parecchi scrittori postmoderni (Landolfi, Manganelli, Rushdie, ecc.) raccontano menzogne, bugie, e falsità che si attengono al canone dell’imparzialità e dicono profonde verità: in questa categoria si devi collocare il Pennacchi che narra la saga dei Peruzzi. Il suo narratore rivela di conoscere le sfumature dell’ironia quando ritorna a dire che sta esponendo i fatti come sono accaduti, che non parteggia né per una cosa né per un'altra (“Io naturalmente adesso non è che le stia a dire che avessero ragione loro o avessero ragione gli altri. Io le sto a dire solo come sono andati i fatti e come – volta per volta – l’ha pensata la mia famiglia” pp. 36-37); che non dà giudizi anche se è consapevole che “qualche compromesso con le controparti bisogna pure farlo. Non lo diceva anche Agnelli, di Moggi, che il capo delle scuderie del re deve conoscere tutti i ladri di cavalli” (p. 48). Il narratore si arrabbia con il lettore che interloquisce anche a proposito dei modi espressivi e di ciò che dice il Duce: “Lei la deve smettere con queste fesserie, io mica sto a raccontare barzellette. Cosa vuole che ne sappia io di quale dialetto e con quale inflessione parlasse Mussolini? Quelle sono però le cose che ha detto […] e io gliele ridico parola per parola […] Io non cambio niente” (p. 43). Ma qui ed altrove quest’io lettore, interlocutore e destinatario insieme, induce Pennacchi al discorso metalinguistico, incline a riscattare il patrimonio culturale della lingua che si apprende dalle ginocchia della madre, dal momento che si aprono gli occhi alla vita: “Ciò che conta è la tradizione, la lingua che parla colui che racconta, e a me l’hanno raccontata così e io così la racconto a lei” (p. 44). E non si può non notare il disincanto dell’autore che ne vede l’annullamento con l’evasione della cultura pop, di un postmodernismo che fa tesoro dei nuovi linguaggi, incluso quello indecifrabile dei messaggini. A volte il narratore si rende conto che è molto duro, che si impone e aggredisce il lettore, allora non può che chiedergli scusa, e si attribuisce la colpa di non essere capace di comunicare in maniera adatta: “non vorrei però che lei avesse capito male, forse non mi sono spiegato bene” (p. 23). I giochi metanarrativi ritornano con ossessione usando il lettore anche come uno scudo protettivo che permette al narratorePennacchi di farsi dissacratorio e stroncatore, di essere evasivo, reticente, recalcitrante, di dire e non dire certe cose (“Io però non le posso stare a fare tutta la cronistoria” p. 39), di procedere con piglio connotativo, di parlare dell’epopea in progresso, dei rapporti tra Canale Mussolini e le precedenti creazioni. Questi ed altri procedimenti diegetici iscrivono il carattere amletico del narratore-Pennacchi. La scrittura sovente fa capire tra le righe com’egli la pensa e quali sono le sue incertezze che aspirano a certezze. Essa al tempo stesso apre il discorso metaletterario con i riferimenti diretti ed indiretti, con la parafrasi o con la mimesi di una schiera di scrittori classici, da Omero a tasso, da Shakespeare a Manzoni, e le descrizioni dell’inferno dei conflitti mondiali, delle tragedie seminate dai folli scopi di Hitler e di Mussolini, attingono anche all’inferno configurato nei film del far West. Il discosto metaletterario oltre a rinforzare il piglio saggistico dello stile di Pennacchi, svela la rievocazione di certi suoi scrittori prediletti, come Carlo Emilio Gadda che viene rievocato più volte (pp. 222, 228-229). Gadda gli è stato un gran maestro. Indubbiamente da lui ha imparato il modo di utilizzare più linguaggi, di mescolarli, di passare da una lingua all’altra, come da quella parlata del popolo composta di tanti sapori a quella letteraria di raffinati codici e canoni, alta e ricercata, in uno sperimentalismo linguistico che connota per esempio la valenza del dialetto, come registro di una cultura e di un periodo storico. I nomi dei membri della famiglia Peruzzi, come quelli di altri personaggi, sono scelti con cura dall’autore, tanto che richiamano, arieggiano, e sono simili a quelli del mondo biblico (ad es. Nazzarena), dell’epica omerica e rinascimentale, degli eroi classici. Sono nomi che, anche quando sono composti (ad es. Santa/pace), iscrivono una realtà primordiale ricca di fatalismi, di credenze, di superstizioni: “gli hanno messo nome Paride, sa, quello dell’antica Grecia che era il più bello degli uomini e le dee dell’Olimpo erano tutte innamorate e per colpa sua scoppiò la guerra di troia con tutto il casino che ne conseguì. Eppure in Altitalia – dalle parti nostre - la gente metteva nome ai figli ‘Paride’ convinta che portasse fortuna” (p. 83). Benchè non abbiano il primo nome, il nonno e la nonna risultano figure altrettanto mitiche, e ricche di conoscenza ancestrale. E anche per Pennacchi l’archetipo, il mito è la voce di un’eterna verità.

I contadini ferraresi, come i Peruzzi, sono paradigmi di una cultura millenaria che consta anche dei riti della semina dei frumenti, del raccolto, della gastronomia, come fare la polenta, impastare il pane, i dolci. Hanno coscienza della politica del loro tempo (“mio nonno […] di politica aveva sempre parlato […] Mio nonno e i figli suoi parlavano di politica all’osteria insieme a tutti gli amici e compagni loro, perché era tutto il paese che pensava così” p. 73). Sono consapevoli di trovarsi intrappolati nelle mani di una società ingiusta, di essere oppressi, derubati e schiavizzati dai potenti signori presso cui lavorano a mezzadria o dai quali affittano i terreni. Metaforizzano lo scontro che si è sempre svolto nella storia tra i ricchi e i poveri. Anche se lavorano non riescono a produrre abbastanza per sfamarsi, per uscire dalla miseria, e cercando di evadere l’occhio dei padroni terrieri o delle autorità fasciste, vengono a rubare cose che producono, come un sacco di grano. Sono contadini come quelli del Sud, anche se questi fanno parte di un asfissiante sistema di latifondismo e di feudalismo. Sono contadini di una realtà primordiale, tanto poveri che, come i Peruzzi, maschi e femmine, abitano, mangiano e dormono in una stalla o in una capanna assieme agli animali: con loro sembrano comunicare meglio che con gli uomini (“i miei parenti hanno sempre parlato con gli animali e ci si sono sempre intesi quasi meglio che con i cristiani” p. 191), ed esprimono un rapporto simbiotico con la natura ma che l’autore inaspettatamente capovolge con l’intento di sottolineare l’aspetto di una società postmoderna disnaturata, artificiale, meccanica. Sono contadini che vivono senza cure mediche, né igieniche, di cui si fa un ritratto di marcato naturalismo (ad es. pp. 78-79).

La loro disperazione non riesce a mutare lo status quo, una società soggiogata da potenti terrieri, da famiglie benestanti e aristocratiche che possiedono immense proprietà, che sono appoggiate dalla Santa Sede dato che anch’essa è stata fino a tempi recenti padrona di vasti poderi, che vivono in città facendo la dolce vita, pur sapendo di essere derubati dai loro amministratori locali.

Incentrandosi sulla famiglia dei Peruzzi, Pennacchi descrive con attenzione la realtà del mondo contadino, per mostrare come essa viene spinta sulla strada del cambiamento. L’aspirazione dei contadini di ottenere i propri poderi è alimentata sino dagli albori della politica fascista, e molti di essi vi aderiscono per reagire a secolari ingiustizie sociali, per dare sfogo a covate frustrazioni, scontentezze, ostilità.

Nel 1924 lo stato fasciata acquista le Paludi Pontine dalla famiglia Caetani e subito comincia a dar vita ai lavori di prosciugamento, della costruzione di canali, dei disboscamenti, ecc., che durano fino attorno al 1940. I territori bonificati vengono affidati in concessione ai coloni anche del Friuli e della Romagna. Molti coloni appena ci mettono i piedi rimango delusi tanto che tutto appare una terra desolata, e ci sono coloro che vogliono ripartire subito: “Scoppiò a trillare come un’ossessa la nonna Toson: ‘Riportatemi indrìo’ […] Non c’era […] niente, tutto spoglio di qua e di là all’orizzonte, il vuoto assoluto […] Casette […] vuote, senza vita, senza nessuno dentro, senza un albero […], tutto il piano di fango […], un deserto di fango” (pp. 138-139). Spesso la descrizione del loro operare e della geografia pontina si fa minuziosa, precisa, scientifica. La stessa cosa avviene quando si descrivono le malattie endemiche quale la malaria, i costumi e le abitudini della popolazione, certi gruppi di abitanti quali i pastori ciociari, gli spazi chiusi interni all’abitazione, quelli vicini ad essa con il forno e con il cesso, quelli aperti dei campi e del paesaggio naturale, i rifiuti, i concimi, la luce elettrica, le strade, ecc. La maggior parte dei coloni considerano le paludi peggio di un vero e proprio inferno (dove si patisce anche il freddo glaciale: “d’inverno ci mettevamo in stalla, assieme alle bestie perché ci faceva caldo” p. 300), ma anche un dono della provvidenza, una terra “promessa” tramite cui si sarebbe potuto uscire dall’inferno dell’esistenza, realizzare i sogni della rinascita, spalancare le porte di un futuro felice.

Tra le migliaia di coloni che arrivano nell’Agro Pontino e ci arrivano anche per avere falsificato i documenti (“bisogna dire che anche noi abbiamo fatto qualche imbroglio” p. 186), ci sono i Peruzzi. Mentre Pennacchi racconta il loro esodo, elabora argomenti chiave dell’emigrazione nostrana del Novecento in Australia, in Argentina, in Canada, negli Stati Uniti, e discute dell’immigrazione dei tempi attuali, degli extracomunitari che clandestinamente arrivano giornalmente e non solo sulle coste italiane; di tanti problemi degli emigrati sfruttati e vessati, dei lavoratori che prosciugano le Paludi Pontine, degli operai in fabbrica; di tanti problemi sociali non solo del proletariato.

Per Pennacchi il diseredato, anche se in diversi momenti storici si imbarca nella disavventura dell’emigrazione interna o esterna, vive sempre l’eterno desiderio di migliorare la propria condizione esistenziale (“Gli africani guardano alla fame che hanno e debbono venire per forza qua da noi, dove vuole se no che vadano? […] Questa è la vita, ognuno s’arrampica sugli specchi per cercare di andare avanti” p. 85); la storia muta per rimanere la stessa dato che l’indigente si ritrova sempre in una società che nega ogni diritto, incluso quello di protestare, di agire e di pensare con libertà (“Lei dice che la libertà in Italia l’avrebbe levata il fascismo? Ma in Italia non c’è mai stata la libertà, che t’ha potuto levare il fascismo?” p. 35).

I poveri contadini e le classi operaie capiscono che il mondo è ingiusto, che ci sono quelli in alto e quelli in basso, che non siamo “tutti uguali” (“Le pare che sono tutti uguali oggi?”, pp. 35-36). Lo spirito della contestazione, le azioni rivoluzionarie dei disperati di differenti ideologie e colori politici, gridano al cambiamento.

A fare partire i Peruzzi dalla pianura padana, e Pennacchi fa capire che la partenza è sempre una pena perché si abbandonano tante cose care, persino i morti, è il coraggio carismatico di zio Pericle che dentro il fascio gode rispetto perché dotato di gran perspicacia ma che non prende ordini da nessuno. Con lui scende tutta la numerosissima famiglia, nonni, genitori, sorelle, zii, cugini, ecc., e in questo sistema patriarcale, è la nonna, mite e inflessibile, fragile e dura, debole e coraggiosa, chiusa ed espansiva, ferma a respingere ogni tentazione (come i comportamenti seduttivi di Mussolini: “cercava […] con lo sguardo d’incontrare l’eventuale sguardo di mia nonna” p. 37), a stabilire le regole della casa a cui figli, nuore, tutti devono ubbidire, mentre il marito appare una persona passiva, che comunica col linguaggio del silenzio e dei gesti, quasi assente perché invece di stare in casa preferisce andare all’osteria a giocare a carte e a parlare con gli amici. Mentre il vanitoso zio Adelchi, un figlio coccolato, è più portato a comandare, altri fratelli sono dediti al duro lavoro, a portare avanti la famiglia, a tenerla fuori dalla miseria, riecheggiando così l’universo dei Malavoglia di Verga. tutti i fratelli, Iseo, Temistocle, Treves, ecc., sono legati da un affetto profondo, ma che si comunica con un linguaggio parsimonioso, anche quando le sofferenze sono drammatiche. Una famiglia formata da diversi tipi di eroi, come Paride che è buono e giusto, ma destinato, come l’eroe classico di cui porta il nome, a essere il movente della sfortuna che colpirà i Peruzzi. È una famiglia che se da una parte appare un’oasi d’armonia idillica, dall’altra un vivaio di tensioni, di antipatie, di discordie, un eden in cui si aggirano individui divisi anche dalla politica, perfidi, terribili serpenti che seminano tentazioni e veleni, come svelano le azioni sinistre di sorelle e nuore, o la rievocazione di particolari miti classici, specie quelli di Abele e Caino, di Romolo e Remo.

E molto misteriosa appare Armida. Come altri personaggi dell’azione, è forgiata sull’ibridazione di vari tipi di miti, fin dal nome letterario della bella Armida maga, e di volta in volta se ne fa una descrizione plastica:


era bellissima, bionda bionda, alta, occhi azzurri, il seno anche alto e i fianchi pure, e larghi, ma la vita stretta e un portamento altero – camminava tutta dritta con le spalle alte e il petto in fuori, pareva la regina di Savoia – […] Era proprio altera di carattere, dolcissima coi bambini, anche quelli non suoi, e dolcissima con chiunque animale pianta o cristiano più debole di lei; ma forte come il ferro e sprezzante e dura con chiunque ritenesse d’essere più forte e sprezzante di lei. (p. 197)


Le sue stranezze fanno sorgere non solo delle storie che circolano intorno a lei, inclusa quella di aver avuto un figlio da “ragazzetta”, ma anche dei suoi rapporti con le api che le parlano con linguaggio profetico, mentre volano le sibilano ammonimenti e messaggi oracolari, oscuri, misteriosi, non dissimili da quelli pullulanti dai sogni criptici fatti dalla nonna, soprattutto riguardo ai figli che si trovano al fronte, a combattere per il fascismo. Armida si rivela strana nei suoi comportamenti, anche nei suoi modi d’amare senza pudori. Nel Nord la vediamo corteggiata da Pericle Peruzzi, a cui non corrisponde, si rivela una giovane fiera che lo disprezza e lo odia. Una sera questi, appena uscito dal carcere (dato che ha scontato la pena per un misfatto commesso), si porta vagando come un sonnambulo al centro del paese dove in un appartamentino vede la luce; salito su nota che si fa la veglia a un morto e a un tratto vede Armida che si trova lì a dare una mano ai vicini di casa; la segue in cucina e in quest’ambiente di morte fanno l’amore con intensità febbrile, un topos della letteratura (ad es. Maupassant, D’Annunzio, Svevo) ma che qui si carica di contorni fantastici, e da qui Pennacchi comincia a modellarla sull’archetipo dell’essere femminile, della “strega” che incanta con le sue malie. Nell’Agro Pontino, poco dopo l’arrivo della notizia del marito disperso in guerra, la vediamo famelica di sesso e trasformarsi in maga seduttrice del giovane nipote Paride che, come suggerisce l’accesa descrizione cromatico-pittorica, sembra una commistione del Paride classico coraggioso e forte, dell’aedo e del cantore di “mille storie”, del divo hollywoodiano, con un bel fisico ed irresistibile; che è l’“orgoglio” della famiglia (p. 396); e che ella accudiva bambino come una mamma facendogli il bagno in tinozza. Presa dal fuoco dell’amore non riesce a dormire più, una notte si alza dal letto e si porta nella camera di lui, dove si spoglia e si dà. Ma Pennacchi è diverso da un Moravia che ama descrivere nei minimi dettagli la scena del sesso; Pennacchi ne dà poche e rapide pennellate: “ha sollevato il lenzuolo e gli si è infilata dentro il letto […] Quando hanno finito le ha detto. ‘Grazie zia. È da quando ero piccolo, che non facevo che sognarmi questo momento’” (p. 406). La loro relazione ha una certa durata. Armida rimane incinta e nasce un bambino, anche se lei dice sempre che è stato concepito con il marito poco prima che andasse in guerra. Quando ne vengono a conoscenza i Peruzzi scoppia la “tragedia greca”. Sebbene l’autore affidi Paride al destino della partenza, non lo fa scomparire del tutto, perché, essendoci un breve ritorno, si vede Paride giocare col neonato. E Armida, come la Hester Prynne della Lettera scarlatta di Hawthorne, diventa la vergogna della famiglia dei Peruzzi e della loro comunità. Una vicenda con cui si connota il complesso edipico, mentre certi aspetti semi-incestuosi sono suggeriti dallo zio treves che sposa la cognata, la moglie del fratello turati morto in guerra, e sembra un matrimonio d’affari perché non si sposano di fronte alla legge, ma in chiesa e di fronte ai familiari, e così avrebbero continuato a riscuotere la pensione del morto.

Infine Armida è bandita dalla sentenza impietosa della “nonna” che però tiene con sè il figlioletto; è scacciata come un cane rognoso dall’Agro Pontino. Mentre si allontana per i campi pieni di mine e verso gli impervi monti Lepini ed è accompagnata dalle fide api che le parlano con linguaggio sibillino, tutto si trasforma in scena onirica di una chiusura aperta. Anche perché, come una grande madre, viene a partorire un altro figlio. E anche perché l’autore tiene equilibrata l’ambivalenza delle cose, mentre suggerisce l’identità del narratore: “Come dice scusi? che io sarei quindi, secondo lei, il figlio di mio cugino Paride? Lei è matto. Allora non ha capito niente. Come diceva sempre mia madre, io sono il figlio di Pericle e m’hanno concepito insieme a tutti i miei fratelli e sorelle – come le nostre api e come il suo dio Krishna e Satyabhama – la notte che mio padre ammazzò il povere prete di Camacchio. Fine del filò Firmato don Pericle Peruzzi, parroco in Agro Pontino” (p. 455).

Nel Canale Mussolini abbondano gli elementi del mondo padano (-del lassù) e del mondo pontino(-del laggiù), formando un matassa di profonde somiglianze e differenze che in certe circostanze si coloriscono di assurdità; i moduli descrittivi annullano il realismo dei ritmi quotidiani collegandoli alla sfera dell’allusività; i mezzi della mescolanza, della contaminazione, della trasfigurazione, mirano a trasportare sul piano dell’universalità metastorica.

E così Pennacchi sembra appropriarsi della convinzione di Leonardo Sciascia che nel cuore della storia vive una verità(-realtà) più vera, e che “il passato” si deve “continuamente viverlo e giudicarlo nel presente, se vogliamo davvero essere davvero storicisti”4.

Questa convinzione aiuta Pennacchi a traccia come si va da una società agricola a una società postmoderna, come avvengono i mutamenti individuali e collettivi, come il progresso annulla culture e civiltà. Nella Weltanschauung di questo scrittore traspare a tanti livelli la sottolineatura dell’involuzione, della crisi irreversibile e fatale. Perciò il rapporto tra mondo di allora e quello di ora diventa un Leitmotiv, e di pagina in pagina si stabilisce mediante i mezzi del paragone tradizionale e non tradizionale, finanche nello spazio di un breve paragrafo o di una frase. Un paragone che unisce numerosi motivi contrastanti, e dà vita a uno stile rigoroso che mentre parla del passato racconta il presente e viceversa, che espone con approcci negativi, elencatori, polisemici. Per esempio, i figli dei Peruzzi cresciuti nell’Agro Pontino, ripartono “in Altitalia negli anni Sessanta, a torino. Loro andavano in fabbrica, alla Fiat” (p. 12); la famiglia di una volta era molto dissimile da quella odierna:

Prima coi figli prosperava una famiglia, perché erano braccia per lavorare la terra […], non era come adesso che i figli sono una spesa […], non è che quando si ammalava andavi dal pediatra e compravi le medicine […] Per lavorare la terra ci volevano le braccia […] I trattori e tutte queste cose qua sono venute adesso […] Mica c’era il benessere, c’era la fame […] Ma anche adesso, non sono solo i ricchi a non fare più figli? Noi in Italia non ne facciamo più, ma in Africa invece, che sono ancora poveri s’affogano sulla via di Lampedusa per venire qui, continuano a farne come se niente fosse. Glielo vada a spiegare a loro che non li debbano fare. Secondo lei non lo sanno, quando mettono al mondo un figlio, che poi gli muore di fame o di Aids? ; (pp. 12-13)

allora non c’era “mica la doccia”, ci si lavava dentro una tinozza con acqua riscaldata (p. 13); allora non c’era il treno, si viaggiava a piedi o in bicicletta, e i viaggi lunghi erano un’avventura sempre pericolosa perché si veniva assaliti, derubati o uccisi dai banditi: “non è che andavi a Roma e tornavi il giorno dopo. Mica c’era l’eurostar come adesso. tornavi chissà quando e chissà pure se tornavi” (p. 13); gli scandali bancari e politici dell’éra di Giolitti, non sono molto diversi da quelli di oggi: “Lei pensi in che mani stiamo noi povera gente, perché anche adesso non creda che sia poi tanto diverso” (p. 45); questo avviene perché, secondo diversi suggerimenti di Pennacchi, in ogni tempo storico i potenti corrotti, soprattutto politici, giornalisti, uomini d’affari, e rappresentanti della Chiesa, operano in combutta con la gente della malavita (pp. 48-49). L’occhio indagatore dello scrittore scorge dovunque gli scandali e le corruzioni, nelle istituzioni, nei governi, nelle amministrazioni, persino nella micro realtà delle Palude Pontine, suggerendo che sono gli eterni cancri della storia. Particolarmente evidenziato è il ruolo che la Chiesa Cattolica esercita nel corso della storia, tra cui la sua inattività nel non contrastare l’ascesa del fascismo. In questa epopea viene fuori un quadro infelice di questa Chiesa sempre tesa a condizionare gli eventi storici, che ignora i dettami del vangelo, e invece di lottare per i deboli e di accudire il gregge dei fedeli, si cura dei propri affari. Secondo la visione laica di Pennacchi, non riusciranno a cambiarla l’operare di alcuni preti dalle buone intenzioni, di cui si fa una rappresentazione empatica. Questi paragoni evidenziano l’abitudine dell’autore sia di cesellare il contrasto tra due tempi storici, quello d’allora dello stento, della miseria, del fame (“Mica come adesso, che si mangia carne tutti i giorni” p. 91), e quello d’oggi dello sperpero, dell’abbondanza, del consumismo aberrato: “Allora le stoviglie si lavavano con acqua, sapone e cenere. Poco sapone, perché non c’era ancora Tide od Olà, ed era sapone fatto in casa, facendo bollire il grasso […] Oggi in tutte le stalle c’è il beverino sulla mangiatoia e la vacca quando ha sete beve, […] Allora beveva una volta al giorno […] Noi invece bevevamo dentro la secchia, in cucina, col mestolo di ferro” (p. 216); sia di evidenziare come il susseguirsi delle mode partoriscono numerosi tipi di mutamenti (“Ma come dappertutto, a un certo punto era cambiato il vento pure qui – oggi va di moda una cosa, domani un’altra – e tutti erano diventati fascisti […] Lei ha presente come ancora pochi anni fa – in tutto il Norditalia – erano tutti democristiani o comunisti e il giorno dopo tutti della Lega o berlusconiani?” pp. 241-242); sia di tenere l’occhio fisso sulla cronaca di oggi, sulla società postmoderna che sta camminando verso l’autodistruzione, su come si è arrivati alla società del “villaggio globale”, suggerendo che per capirla bene bisogna capire ciò che è avvenuto prima. Sono paragoni che stilizzano una gamma di cose del passato-presente, fanno sentire gli accenti disparati dell’ironia, si articolano con tecniche drammatiche dell’avvicinamento, della commistione, della fusione, e con un’ossessione tesa ad illustrare periodi storici che travolgono l’esistenza dei meno abbienti. Sono paragoni con cui si sostiene il revisionismo storico; con cui si vuole compiere una rivisitazione che attualizzi il passato, rendere presente numerose vicende storiche, soprattutto quelle accadute sotto il regime fascista, come il caso Matteotti che fa richiamare disonesti personaggi politici e non politici di oggi che a volte si tolgono la vita per sfuggire all’inchiesta giudiziaria e altre volte la sfidano con tenacia di cui è esemplare il caso di Andreotti; si vuole mettere a fuoco come nella storia si ripresentano una gamma di cose, come la storia ripete se stessa, rivelando oltre la sfiducia, la condanna dell’autore all’individuo che ne è al timone e ai suoi comportamenti trasformistici: “tale e quale al 25 luglio 1943 quando – il giorno prima – erano tutti fascisti e il giorni dopo tutti anti; o nel 1989-94, prima tutti comunisti e democristiani, dopo tutti berlusconiani o leghisti. Cambia il vento, amico mio, e quando cambia arriva la bufera” (p. 104). Sono paragoni che insomma fanno capire che per Pennacchi la storia è un mostruoso enigma, un labirinto di misteri in cui l’uomo si trova perduto, senza il filo di Arianna che guida verso l’uscita, la salvezza.

In vari episodi trapela il ridicolo, l’assurdo, e l’irrazionale delle azioni sia degli uomini semplici e comuni, della vita di ogni giorno che fanno anch’essi la macro-storia, come i Peruzzi, sia degli uomini potenti, come i rappresentanti del fascismo. Questi due gruppi di uomini si incontrano e interagiscono, e tutto è emblematizzato da rapporti d’amicizia e d’affari che certi membri dei Peruzzi stabiliscono con il Duce e i suoi rappresentanti, come il ministro Rossoni che procura loro e a un loro familiare antifascista i poderi nelle Palude Pontine.

Sovente si ha la sensazione che l’affabulazione delle vicende dei Peruzzi sia in funzione di dare l’opportunità all’autore di rivisitare tante cose che stanno a cuore, di realizzare ampie riflessioni su una miriade di fatti ed eventi della storia, in particolare del ventennio fascista, come evidenzia la dilatata rappresentazione dei fratelli Peruzzi che, in sanguinose battaglie, lottano per gli ideali imperialistici del Duce.

L’incontro di uno dei Peruzzi con Rossoni a Roma, adornato dall’aura del comico che nella diegesi ritorna a lenire la serietà delle cose, serve a preparare l’ampia rappresentazione che si fa dell’operare sinistro dei fascisti, o della propaganda fascista che indottrina la popolazione di false realtà, illusioni, ideologie. Nella visione di Pennacchi il ministro Rossoni va incontro a varie trasformazioni. Innanzitutto diventa un simbolo dell’estremismo(-radicalismo) politico incantatore delle coscienze ingenue (“Sentite […] per arrivare al potere e cambiare qualcosa, dobbiamo fare i patti anche col diavolo, anche col re. Pure il Papa se serve. Poi dopo, arrivati al potere, ribaltiamo tutto” p. 100), sempre vivo nell’humus del nostro paese, dato che da attivo sindacalista passa ad essere esponente di altre correnti ed ideologie (“a stare a sentire il Rossoni dalla mattina alla sera, era diventato una specie di Carlo Max” p. 28). Poi appare la personificazione dell’ipocrisia e dell’amor proprio, di colui che ruba a quelli che dovrebbe aiutare e proteggere (p. 18), rappresenta la disonestà, la brutalità, l’orrendo, insomma la compagine delle folle aberrazioni del fascismo, dei tanti mali seminati dal regime fascista: “[un] criminale fascista responsabile come gli altri di tutte le malefatte del ventennio” (p. 393). I toni tragicomici trapelano quando il potente e coraggioso Rossoni appare un debole pusillanime, e conscio dell’imminente caduta del regime, si dà alla fuga trovando rifugio nell’Agro Pontino presso i Peruzzi e poco dopo travestitosi da prete, questo anticlericale che si è sempre scagliato duramente contro i preti (“sono loro i demoni, perché servono solo a tenere i poveri nell’ignoranza e nella paura dell’inferno” p. 31), trova protezione presso il Vaticano. Onde vibra l’ironia che ritorna a smascherare il comporta mento anormale della Chiesa Cattolica. E anche con i Peruzzi si evidenziano i rapporti strani che il popolo ha con la Chiesa (e viceversa): nel Nord quasi tutti i Peruzzi ne mostrano antipatia e uno di loro viene finanche ad uccidere un prete, e nell’Agro Pontino quasi tutti vanno in chiesa. Un altro esempio delle stramberie umane trapela dall’episodio che rappresenta il desiderio bruciante dei coloni di avere lì un prete veneto e uno dei Peruzzi, come un paladino alla Don Chisciotte, si reca dal patriarca di Venezia a chiedere l’esaudimento di tale desiderio.

I giochi diegetici modellano Rossoni un mitologema della potenza malefica, del diavolo che a volte neanche il Duce riesce a soggiogare, né a eliminare. È anche un’immagine che rispecchia la personalità di Mussolini e di tutti i suoi uomini: “dopo il Duce veniva lui [Rossoni …] Era sottosegretario alla presidenza del consiglio, come il segretario di stato americano […] Era l’orecchio del Duce, quello che gli stava più vicino e ogni carta passava da lui” (p. 18). Parimente al Buzzati di certi racconti favolosi5, Pennacchi configura il Duce come un supremo Giudice-Dio molto crudele: “Col Duce c’era poco da stare tranquilli. Oggi ti portava in palmo di mano e domani mattina ti ritrovavi nella spazzatura. Guardi quello che fece a Balbo. E a Ciano? Ciano che era pure il genero – il marito della figlia – lo ha fatto fucilare. Si figuri altri” (p. 18). La trasfigurazione del Duce si fa caricaturale e si satura dell’aura comico-grottesca, anche quando con profondo orgoglio e tracotanza viene a sfidare Dio: “Viene qua e fulminami” (p. 101). E certe descrizioni di Mussolini mentre percorrono i sentieri realistici si ramificano verso il regno della favola surrealistica. Surreale è la figura del Duce associata al sole (“appena è arrivato il Duce, è uscito il sole” p. 330 e cfr. p. 337), appare un’immagine del “sole” al punto che con il suo arrivo portentoso rischiara il paesaggio naturale, grigio e oscuro. L’ironia demitizzante pervade la rappresentazione che si fa del Duce: mentre si getta luce sulle sue attività di giovane socialista, tutto si ripiega a illustrare la sembianza di colui che ha portato il disastro con “la dittatura, il totalitarismo, le leggi speciali, le guerre, le persecuzioni” (p. 161), di un uomo che esercita un controllo supremo, feroce, spietato, diabolico. Con garbati procedimenti metonimici, saturi di sarcasmo, a Mussolini si avvicinano importanti figure di politici della prima e della seconda Repubblica, inclusi Craxi e Berlusconi (p. 388). Se Mussolini e i suoi fidi si recavano in loco a fare i comizi, se il Duce si serviva della radio, dei cinegiornali, dei film documentaristici, e della stampa per fare la propaganda di una società salutare, forte, perfetta, anche per pubblicizzare messaggi e cose gloriose cui lo stesso Mussolini non sempre crede, i politici di oggi si servono della televisione, una piazza mediatica che fa perdere ogni contatto con la gente che si dovrebbe servire, che li rivela curanti più dell’apparenza estetica che dei fatti, incapaci di essere all’altezza dell’incarico e neanche di confrontarsi con gli elettori, sono vuoti e vanitosi: “quello era capace […] di farsi anche tre comizi in un giorno in tre paesi diversi, e allora mica era come adesso. A parte che adesso nelle piazze non ci vanno neanche più a fare i comizi in mezzo alla gente. Nelle piazze ti interrompevano, ti interrogavano, ti contrastavano. E tu dovevi sapergli rispondere […] Adesso vanno in televisione, con quella che ti mette la cipria e ti fa domandine preparate” (p. 30).

La dura critica dell’autore ai potenti politici di allora e di ora ritorna con cifre stilistiche variegate. E questo avviene mentre si restituisce un vasto quadro storico e realistico dell’Agro Pontino che, seppure riveli cose appena schizzate o sintetizzate con somma fretta (“Ci avevano già provato i Romani a bonificare queste paludi e prima di loro anche gli antichi Latini, e poi anche i papi e Leonardo da Vinci, Napoleone, Garibaldi; ma la palude aveva sempre vinto lei. Non c’è viaggiatore del Sette-Ottocento - Goethe, Standhal, M.me de Staël – che tornato a casa non racconti a tutta Europa la desolazione e la morte delle Paludi Pontine” (p. 139), è ricco di una dovizia di particolari, soprattutto quando si dipingono le fatiche erculee dei coloni, che come gli eroi antichi sfidano il fato, si mettono a scavare, a coltivare, a costruire, dando vita anche alle città: Littoria, Sabaudia, Pontina, Aprilia, Pomezia. Ma poco dopo che hanno completato il proprio spazio edenico, se lo vedono distrutto dalle bombe, dalle tragiche vicende della seconda guerra mondiale, specie con gli scontri tra gli americani che arrivano da Anzio e i tedeschi che si ritirano dopo la sconfitta di Montecassino6.

I paladini che hanno dato vita all’Agro Pontino e lo hanno ricostruito dopo la catastrofe sono, secondo la visione dell’autore, i veri eroi contemporanei, non quelli che arrivano con il boom del benessere che comincia ad esplodere all’inizio degli anni ’60, se mai quest’ultimi sono eroi senza direttiva, decadenti, smarriti nella ricerca di se stessi, nel dedalo di una drammatica crisi d’identità. Un altro elemento che esplica l’approfondirsi del cinismo di Petacchi verso la realtà attuale, verso i flussi della storia che vanno di male in peggio.


NOTE



1 Si veda il mio studio Pirandello postmoderno?, Firenze, Edizioni Polistampa, 2008.

2 M. Santini, La ragazza della palude, San Donato Val del Comino - Fr - , Psiche e Aurara Editore, 2009.

3 A. Pennacchi, Canale Mussolini, Milano, Mondadori, 2010. D’ora in poi il numero della pagina nel testo rimanderà a questa edizione.

4 L. Sciascia, Cruciverba, in Opere 1971-1983, Milano, Bompiani, 2001, pp. 1073-1074

5 Si veda il mio saggio La penna diabolica. Buzzati scrittore-giornalista, Pesaro, Metauro Edizioni, 2004, specie il “capitolo II. Cronaca africana”, pp. 89-114.

6 La battaglia di Montecassino del ‘44 ispira il romanzo di H. Janeczek, Le rondini di Montecassino, Milano, Guanda, 2010.