IL CRISTALLO, 2010 LII 2-3 [stampa]

BIAGIO MARIN POETA DI GRADO

di ELIO ANDRIUOLI

Tra i poeti che hanno adottato il dialetto come proprio strumento espressivo, Biagio Marin occupa uno dei posti di maggior rilievo. Ci sembra opportuno pertanto spendere qualche parola su di lui in questa carrellata di autori contemporanei italiani.

Nato nell'isola di Grado il 29 giugno 1891 (dove morì il 24 dicembre 1985), avvertì sin dall'infanzia il fascino della sua terra d'origine, di cui si riempì subito gli occhi, innamorandosi del suo mare e dei suoi cieli, dei suoi colori e della sua gente; tanto che, quando sentì nascere in lui la poesia, gli venne spontaneo di adottarne la lingua.

Egli stesso ci racconta, in una nota di un suo libro, Canti dell'Isola, come ciò avvenne: "L'isola di Grado - un lido tra le foci dell'Isonzo e quelle del tagliamento - era abitata da una piccola comunità di pescatori di mare e di laguna. Accanto ad essi, pochi artigiani per le estreme necessità della vita. Vita povera e perciò linguaggio povero, e forse, rozzo, ma pregnante. In quel mondo, proprio nel momento in cui stava per uscire dall'isolamento e quindi finire, io sono nato e cresciuto. Mondo umanamente povero, ma di vasti orizzonti di mare e di cielo che, nell'infanzia, io vissi con violenza. Il suo possesso doveva significare possesso della parola per esprimerlo; perciò il linguaggio della mia gente si fuse e confuse per me con esso, in unica realtà".

A tale linguaggio Biagio Marin rimase fedele per tutta la vita; ma bisogna dire che la lingua nativa non gli offrì che il sottofondo del suo strumento espressivo, che egli plasmò poi ed arricchì, elevando il dialetto gradese, che era un "dialetto veneto rimasto arretrato nel suo sviluppo", a strumento d'arte.

Alla domanda da lui stesso postasi: "Perché ho scritto in gradese", egli poi così rispose: "Perché ero io la coscienza, la prima coscienza della piccola comunità dell'isola. E all'isola ero attaccato, e quel suo linguaggio era l'unica eredità dei padri che la mia pietas voleva salvare".

Questa la cronistoria. Se passiamo ora a studiare la poesia di Marin, ci accorgiamo che essa, pur rimanendo legata a pochi temi fondamentali, ha avuto una sorprendente capacità di elaborazione e di variazioni, sicché non è mai rimasta statica, come a prima vista potrebbe sembrare, ma si è evoluta, divenendo sempre più idonea ad esprimere sentimenti genuini ed intensi: amore, dolore, affetti familiari, profonda religiosità, serenità davanti alla morte, ecc.

Certo, il primo Marin, quello di Fiuri de tapo (1912), è tutto meraviglia e commossa apertura alla vita, della quale avverte fortemente il richiamo: "La luna agostana xe piena; / el mar el xe sensa restíe (onde); / me baso la boca de Mena, / la luna agostana la rie. // Per l'aria vien fili d'arzento / per scônde (nascondere) caresse valie (lisce); / de zogia la manda un lamento; / la luna agostana la rie" (Luna).

Non mancano però neppure tra queste prime poesie talune liriche che appaiono l'espressione di una maggiore pensosità, come accade per Caligo (nebbia): "… i passa in tel caligo / i tanti morti de la nostra zente" e Sera dei morti: "… e me stago a pensâ a duti i morti".

Pochi poeti hanno infatti saputo cogliere come Marin l'aspetto solare del mondo e luminosamente cantarlo, pur senza ignorare i dolori e le tristezze di ogni giorno. Drammi oscuri in verità affiorano a volte dai suoi versi, colorati e vivaci, che sanno pure tingersi di un forte impressionismo visivo, come avviene in Cale del Volto: "E un barconusso (finestretta) se vegheva in fondo / co' vampe vive drento la curnisa (cornice) ". Anche il dolore e la tristezza si stemperano però in lui nella dolcezza del canto e nella suggestione della lontananza ("Cô (quando) sarè morto, gole cantarine, / vigní pur a cantâme su la fossa").

Ciò che invero più colpisce in Marin è la mai vinta speranza, pur di fronte ai colpi della sorte e il suo sano amore per la vita: "tu sa duta de sal e de salmastro / comò l'erba volàiga (l'alga) là in marina". Freschissime e scritte con sincero abbandono, sono in lui specialmente le poesie d'amore, nelle quali la piena del sentimento si fonde con una nota di sottile sensualità ("tu son passagia alta sul mureto / ondando apena sui to fianchi moli"), nell'esaltazione dei valori più certi dell'esistenza, rappresentata nella sua pienezza ("La vita! Drio d'un canton la speta / che tu passi per dâte el sovo (suo) baso").

Profondo è inoltre in questo poeta il sentimento della natura, da lui cantata come creatura viva e portatrice di serenità e di pace, talvolta persino di gioia ("Là che nessun più vive tu fiurissi, / radise in aqua e verde arioso in sielo"; "Sospesa in aria sora del scrittoio / una rama de russi miligrani").

Capace di percepire e di registrare le più umbratili sensazioni ("E in casa el sol sui paviminti siti / de abeto, dolse soto 'l passo nuo"), Marin è dotato di un orecchio estremamente musicale, sicché certe sue limpide aperture richiamano alla mente versi di età lontane, quando la poesia era da noi ancora allo stato aurorale e si tingeva di tenui colori ("O mare, mare mia, / la luna là de fora / no me lassa durmì, / la luna me inamora").

Quanto ai contenuti, è da osservarsi che dalle poesie di Marin emerge tutta una varia umanità, fatta di ragazze e di donne, di giovani e di uomini maturi, di bambini e di vecchi, ciascuno recante una sua gioia o una sua pena e ciascuno finemente caratterizzato. Si vedano: Nadalina, Santolo Matio, Carmelo, El Nin Proto, Caterina de l'orto, Angesina, La piccola Mina, Lucia, Gina l'ebrea, ecc. Ne emerge un mondo di gente umile ma dignitosa, colta in quelli che sono i sentimenti universali di gioia, amore, dolore, attaccamento alla propria terra e alle proprie consuetudini, dipinti con cura e con affettuoso abbandono.

È per rappresentare questo mondo che, come già si è detto, Marin si è creata, ricavandola dal dialetto di Grado, la sua lingua poetica, che è uno strumento agile ed efficace per una lirica essenziale, che non ha nulla di letterario e sa invece di cose concrete e di vita vissuta ("Hè vendemiao nel fior de la to vigna, / do vogi (occhi) mori comò l'ua moscada, / e una boca ridente dura e asprigna / comò susina tolta a mesa strada. /... / Mi gero fantulin che t'hè scoverta... ", Tera furlana).

Lo strumento tecnico di cui egli si è servito per scrivere le sue poesie è la strofe di quattro versi rimati (per lo più endecasillabi, settenari, senari, quinari), che Marin elabora con estrema duttilità, in un costante esercizio poetico, sorretto da un'ispirazione che mai gli vien meno e che costituisce come un volo verso l'Eterno.

Quella di Marin è una poesia senza età, ma proprio per questo non conosce l'usura del tempo. Egli infatti non aderì ad alcuno dei vari movimenti poetici più importanti del Novecento (Crepuscolarismo, Futurismo, Ermetismo, Surrealismo, Neorealismo, Neoavanguardia, ecc. ) e sempre conservò la sua sorgiva freschezza di canto, che divenne con gli anni più limpido e puro e sempre più interiorizzato, con un processo che va dalla contemplazione del mondo esterno a quella del proprio io interiore. E sempre Marin si confessa con spontaneità e verità: "Solo un canto d'oselo / xe 'l mio / in serca de sibo e de nio: / un verso che xe sempre quelo" (da El fogo del ponente, 1959); "Me son vissuo de basi e de pinsieri / alegri comò pétali là in aria / da l'anema che incora la savaria" (da Solitae).

È inoltre quella di Marin una poesia che si giova di un linguaggio semplice ed è aperta su di uno scenario elementare, dove le parole ricorrenti sono mare, aria, sole, vento, luce, ma pur tuttavia capace di creare, servendosi di un materiale così povero, imprevedibili affreschi e sorprendenti musiche: "Su la tola (tavola) l'ha steso una tovagia / a quadri bianchi e a quadri selestini; / piati de porcelana pituragia / e do biceri fini. / El pan crocante riando la m'ha sporto, / el vin l'ha travasao in tel bicer; / me 'i vardevo la boca duto assorto / in quel fiore de zogia e de piasser" (da L'ultima refolada).

Poesia di sillabe nette e lievi e di vaghi ritmi; di parole sussurrate appena e di colori sfumati; ma anche poesia di autentici sentimenti e di forti passioni; di sana realtà e di dure lotte col destino ("Vevo l'anema verde comò sera / d'inverno: e svoda svoda fin al gelo").

Fra gli eventi che hanno inciso più a fondo e dolorosamente nell'animo di Marin vi è quello della morte del figio Falco, caduto nel luglio del 1943 sul fronte della Slovenia. Le poesie con le quali il poeta lo ricorda sono tra le sue più asciutte e toccanti: "Gno figio xe 'ndao in guera / e i s-ciavi i l'ha copao, / e no 'l xe più tornao / cô (quando) ha fato primavera"; "tant'ani soto al semento / seragia ne la cassa / la sinisa (cenere); nel vento / la so imagine passa" (da Sénere colde); così come asciutte e toccanti sono quelle da lui scritte in memoria del nipote Guido di Serena, raccolte nel volumetto In memoria, edito da Scheiwiller nel 1978.

Sia nell'un caso come nell'altro il trascorrere del tempo non è valso ad alleviare la pena del poeta, che su questi lutti costantemente s'arrovella e ritorna in un doloroso rammemorare: "Figio, tu, morto / da tinpi za lontani, / me vivo incora zurni vani / in barca che no riva in porto" (A Falco!).

Ma, nonostante ciò, Marin resta un poeta solare, che crede nei valori dell'esistenza e si affida ad essa con gioioso abbandono. La sua poesia è infatti da considerarsi innanzi tutto come un canto di ringraziamento rivolto a Dio per la bellezza del mondo ed un inno alla vita. "Felisse cu 'l bòcolo (bocciolo) ardente / scopre ne l'aria de magio / e sente / la vose del ben che xe in viagio".

Certo, c'è pure in lui il peso dell'avanzare dell'età, che a poco a poco lo priva dei doni più preziosi della vita e lo rende amaro ed inquieto: "Cô (quando) se xe veci no se xe nissun"; ma ciò che in lui maggiormente conta è la ricerca dell'aspetto luminoso del mondo, anche se guardato con l'occhio del rimpianto e della lontananza: "Maistral d'istae, / oh dame incora l'ala, / 'desso che le zornae (giornate) / ne l'anema le cala // Fa de me vela tesa... ".

La sua è inoltre una poesia degli affetti familiari, come stanno a dimostrare le liriche che egli dedica alla moglie, sia in vita che in morte: "Suore, / me calo nel to orto / e cato la gno pase; / tu son (sei) comò un gran porto / e drento 'l vento tase". Si veda anche la poesia, affettuosissima, che Marin dedica al padre: "Sui bragossi (barche da pesca) a la ciosota / la to infansia e la to scuola", A gno pare (da El fogo del ponente).

A dare poi una definizione di questa poesia provvide lo stesso Marin, il quale, parlando di sé in una lirica della raccolta El fogo del ponente (1959), così scrisse: "Solo un canto d'oselo / xe 'l mio / in serca de sibo e de nio".

Se guardiamo ora all'aspetto evolutivo dello stile del nostro poeta, è da osservarsi che col trascorrere del tempo si nota in Marin un contrarsi del verso, che tende a diventare sempre più essenziale, con il passaggio dall'endecasillabo, prevalente nei primi libri, al settenario e al senario e persino al quinario prevalenti dei libri della maturità e della vecchiaia; il che sta ad indicare una ricerca di maggiore purezza ed essenzialità espressive. È ciò che si avverte, ad esempio, in una delle sue raccolte maggiori, La vita xe fiama, pubblicata da Einaudi nel 1982 e comprendente poesie che vanno dal 1978 al 1981.

Il titolo è ricavato dal primo verso di una quartina, che così suona: "La vita xe fiama / e duto la brusa / el fior su la rama / el sol che sul fior el se pusa".

Ritroviamo qui la schiettezza e l'incisività proprie di Biagio Marin e quelli che sono i caratteri precipui dell'arte sua. Scrisse infatti Pier Paolo Pasolini nella sua prefazione al libro che in esso Marin compie l'operazione di "dilatare il microcosmo gradese in un macrocosmo che imiti, ma «per essenzialità», il macrocosmo religioso"; e aggiunse: "La selettività... del linguaggio di Biagio Marin è dunque in funzione di un ambizioso ingrandimento: fare di Grado il cosmo". Ora, se ciò è vero per tutta la poesia di Marin, lo è specialmente per quella dell'età matura e della vecchiaia, che è composta in prevalenza di versi brevi, che s'inseguono in infinite variazioni, dando luogo ad una musica assidua e intensa.

Sono, queste, in prevalenza le poesie del ricordo, della nostalgia e della malinconia; eppure ancora da esse scaturisce un profondo amore per la vita, sempre risorgente, e un'inesausta volontà di canto: un canto in cui ogni pena si stempera e il dolore perde il suo fiele. "Oh! làsseme cantà! / son solo una sigala, / e per duta l'istâ (l'estate) / canto solo co' l'ala" (da El mar de l'eterno); "Posso murî contento / co' l'anema beata / de sta luse fatata / che tol (toglie) ogni tormento" (da Versi ultimi). Molti sono poi, qui come altrove, i versi memorabili: "Anche l'anema mia xe grata al mondo"; "pêrdeme (perdermi) in mar comò sole che cala"; "De fior in fior el miel se feva favo"; "Maravegia ai gno vogi (miei occhi) le susine"; "La soltae la xe comò la piova"; ecc.

talvolta queste poesie assumono l'andamento della canzonetta settecentesca e quindi appaiono di tono particolarmente lieve: "Ne la sera de magio / la vose d'un flauto / serca co' passo cauto / la strâ pel so viagio" (da Versi ultimi); più sovente però Marin si fa pensoso e il suo tono si eleva, assumendo persino la forma della preghiera: "Dio mio, / me son un to suriso, / sparisso in un balen" (da El mar de l'eterno); "Fame de Dio / del Dio vivente / del Dio che nasse in nio (nido) / e vien e va in meso de la zente" (da Versi ultimi).

Oltre ad assumere una forma espressiva sempre più pura, la poesia di Marin è andata con gli anni contemporaneamente interiorizzandosi, tendendo egli all'autoanalisi e al diretto colloquio con Dio, che in lui diviene assiduo, così come assiduo si fa il pensiero della morte. "Dio xe per duto / co' piova e co' sol"; "E son preghiera / che va lisera / in alto a Dio... "; "El silensio del Dio gera sul dosso"; "Magno radise amare / nei gno ultimi zurni"; ecc.

È la tristezza del tramonto che grava sull'animo del poeta e lo tinge di malinconia, anche se di tanto in tanto i suoi versi si accendono dei raggi di un estremo sole: "Fin che tu scrivi / senpre tu vivi"; "Me son vissuo de basi e de pinsieri / alegri comò petali là in aria"; "te manderè col vento una canson"; ecc.

La poesia della vecchiaia tende a farsi in Marin "contemplazione metafisica e mistica", in un'instancabile osservazione del reale, che però va ben oltre le mere apparenze, mirando all'assoluto. È quanto osserva Edda Serra nella sua introduzione a La vose de la sera, la raccolta di poesie di Biagio Marin uscita nel 1985 per i tipi dell'editore Garzanti.

È questa una silloge di ben 286 pagine, divisa in varie sezioni, ciascuna delle quali si caratterizza per un particolare contenuto.

Fémena, gran mistero, la prima sezione, raccoglie poesie nelle quali sono esaltati la donna e l'amore, come forze originarie del mondo, il quale trova in esse la sua spinta vitale: "C'una sola parola / la m'ha imbriagào: / la m'ha ciamào per nome / e gero inamorào".

Me t'amo, morte vagabonda, la seconda sezione della silloge, contiene poesie nelle quali la morte viene cantata non tanto per ciò che essa ha di definitivo e di terribile, quanto perché rappresenta un porto di pace in cui ogni affanno ha termine e si conclude ogni guerra: "Divina de la vita l'ora / che ne saluda, / la vose se inveluda, / e no par che la mora" (Divina de la vita l'ora).

Lontanía, la terza sezione del libro, ne costituisce forse il momento più alto, dato che vi si trovano poesie nelle quali più serrato si fa il colloquio di Marin con l'Invisibile, nel tentativo di penetrarne il mistero: "Eretico e infedel / son pien de Dio / che xe 'l ben mio / e son ciaro (luminoso) de siel"; "Dio solo grando / Dio solo vivo / el senpiterno rivo / che 'l mondo va creando"; "El mondo sito aspeta / Dio, el so poeta"; "Sogno de Dio, la vita breve"; ecc.

Lontananza qui sta ad indicare qualcosa che si trova "oltre" e che perciò si afferra più con il sentimento che con la ragione, perché è al di là della diretta esperienza sensibile: "Cu sona in me campane / co' vose assè lontane / e tanta lontanía / la rende mia? ". Il senso della labilità della vita e del suo eterno rinnovarsi, in un perenne vortice che tutto trascina, colpisce profondamente la fantasia del poeta, ispirandogli versi veloci e incisivi: "De vita la busía (bugia) / sempre te piase"; "Mai semo stài, / d'êsse (d'essere) pareva"; "I tanti istài / solo un momento"; ecc.

C'è in talune di queste poesie un'estrema concentrazione verbale, che le rende estremamente pregnanti ed efficaci: "Indola (dove) e quando / va a murî le silise (rondini) ? / indola le sinise (ceneri) / che xe vissúe svolando? ". E c'è talora lo slancio mistico: "Ma comò se pol dî l'amor a Dio / se semo duti in elo, / e senpre sielo / unico e unío? ".

Solitàe, la quarta sezione, è incentrata sullo scavo nella realtà dell'oggi, ma con talune escursioni pure nell'ieri. tra luci ed ombre il poeta continua così il suo canto, che pensa debba giustificarlo di ogni peccato di fronte a Dio: "Ché hè fato in questo mondo? / hè cantào". Ma si vedano anche: "Eterna melodia / el cuor persuade"; "Son duto qua / in queste rime"; "duto 'l mondo un altar / ne la luse del mar"; "La luse cala / e cala l'ala"; "Gera un gran ben / vardâsse intorno / cô (appena) feva zorno, / e stele inpalidiva nel seren"; ecc. talora però, in questa sua ascesa verso l'Eterno e in questo suo scavo interiore, la tristezza prende Marin ed allora il suo verso si fa più sommesso: "Figio, tu, morto / da tinpi za lontani, / me vivo incora zurni vani / in barca che no riva in porto"; "Pina xe andagia, / andài el figio e el nevodo; / nel grando svodo / sento el gran mar che 'l ragia" (brontola).

All'ininterrotto fluire della vita è dedicata la quinta sezione del libro, Vita che senpre score, in cui il continuum della poesia di Marin seguita a stupirci per l'inesauribile capacità inventiva del suo autore: "Cô vego un puto novo / ne la luse solar / che zuoga in riva al mar, / dal fondo me comovo"; "Me son 'rivào /... / a la pase granda / che l'ombra sacra manda"; "Se 'l sol se leva / no disperâ: / crússio (cruccio) s'alieva / se canta la beltà"; "I boschi par eterni; / el sovo ritmo lento / e i lunghi duri inverni / i vive sensa stento".

Parola, mio solo rifugio, la sesta sezione della silloge, costituisce ancora una volta un'esaltazione della poesia, in cui Marin trova una ragione di vita e lo strumento per esprimersi compiutamente: "Me, per donâ / sòlo parole hè 'búo (avuto), / bone al cantâ, / melodioso velúo"; "El diamante xe duro, / vol tempo a sfacetâlo; / ma più duro l'azuro / de lo spirto el cristallo"; "Rara ne la to boca / la parola che crea, / e xe marea / che nei vati trabocca"; "El canto mio / l'ha poche note, / ma longhe e fonde / comò la fonda note".

Chiude il libro A ponente de Grào, una plaquette di dodici poesie, nelle quali Marin prende congedo dal mondo per avviarsi sulle strade dell'Oltre: "Me, me riposo in Dio / e per questo rinego duto, / nassita (nascita) e luto, / la gran fiumana, el breve río"; "Semo solo un momento / de Dio nel tessuto: / el passa del duto (tutto) / comò súpio (soffio) de vento"; "La vita la me dona / un'ora de gran ben, / canpane nel seren / dolse le sona".

"In Marin non ci sono scelte di nessun genere: il dialetto risponde alla categoria della necessità e fa blocco con tutto il resto" scrive Carlo Bo nella sua prefazione a Il non tempo del mare, il volume mondadoriano che raccoglie un'ampia scelta della produzione di questo poeta dal 1912 al 1962. E così conclude: "A forza di battere sulla sua Grado, Marin ha dato vita a un piccolo continente, a un'isola ideale della poesia, insomma a qualcosa che ha il sapore dell'eterno, proprio come l'amore, la morte, il forte amore della vita, vale a dire i suoi pochi, i suoi rari temi in profondità d'uomo".

"Solo musica fasso: in ela vivo": è questo un verso di Biagio Marin, contenuto nella silloge Pan de pura farina, edita dalla San Marco dei Giustiniani di Genova nel 1976; e ben esprime la natura di questo poeta che ha attraversato quasi tutto il Novecento cercando e trovando la schietta liricità nelle cose più semplici ed eterne. Per questo il suo canto non muore e sempre fruttifica in noi.