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LIBRI

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La lettera sovversiva. Da don Milani a De Mauro, il potere delle parole

di Vanessa Roghi

Bari-Roma, Laterza, 2017, pp. 244

La presentazione al pubblico a Bolzano al liceo classico Carducci, quindi al liceo Pascoli agli studenti, organizzata con la Fondazione Langer è stata l’occasione per parlare con l’autrice de La lettera sovversiva. Significativi i contesti, quello al Carducci in cui il dialogo era aperto anche a Federico Faloppa, autore a sua volta di Razzisti a parole, con focus sul potere, sulla parola che ancora esclude, la lingua che ancora è strumento di oppressione: mentre Don Milani si interrogava sull’accessibilità del sussidiario per i figli dei contadini e degli operai, ancora oggi non si riescono a “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale” che limitano libertà e uguaglianza tra cittadini, come stabilito dall’articolo 3 della Costituzione.

La testimonianza delle insegnanti di italiano licenziate il giorno prima senza alcun preavviso da un centro per richiedenti asilo nel capoluogo ci riportava all’attualità descritta nel libro: le riforme degli ultimi anni sembrano andare in direzione opposta all’articolo 3, dietro parole come “competenze” e “merito”, si nascondono in realtà tagli economici che penalizzano sempre i più deboli, i più fragili. Perché “per parlare di merito, bisogna che tutte e tutti siano nelle stesse condizioni alla linea di partenza”, invece, oggi come cinquant’anni fa, “il figlio del dottore” parte venti metri più avanti rispetto al figlio dell’operaio disoccupato, del precario sfruttato e del migrante.

Altrettanto significativo il contesto dell’incontro con gli studenti, coloro cui è dedicata l’apertura del libro “troppo onesti, troppo davvero buoni, questi ragazzi che hanno disimparato a contrapporsi”.

La ricostruzione filologica e contestuale dell’autrice porta fino a quel maggio del 1967 quando esce, per una piccola casa editrice fiorentina, Lettera a una professoressa, autori don Lorenzo Milani e gli alunni della scuola di Barbiana, una canonica del Mugello a pochi chilometri da Firenze. L’autrice ricostruisce la figura storica di Don Milani, il periodo precedente la Lettera, la genesi dei temi che si intreccia ai luoghi e alle persone, gli sviluppi successivi che attraverso l’italiano, come lingua, evidenziano le contraddizioni di un paese, l’Italia. Tra gli incontri, Pasolini e l’educazione linguistica come lotta di classe, la corrispondenza con Mario Lodi nel creare una “scrittura collettiva”, la prima traduzione della Lettera in lingua tedesca curata da Alexander Langer, fino a De Mauro e la questione della lingua, a una possibile democrazia linguistica con Rodari, a Erich Fromm che legge La lettera ai giudici del priore, alla pedagogia degli oppressi di Freire...

Ne emergono l’attualità dei concetti insieme alla distanza da quella realtà sociale, culturale, economica. L’“I care”, “me ne importa, mi sta a cuore”, il contrario del motto fascista “Me ne frego”. La ricerca di ciò che fa una “scuola buona”. Il tema dell’obbedienza, non più virtù.

Insieme a tutto quanto può essere invocato dalla pedagogia contemporanea - l’apprendimento delle lingue, imparare dalla vita e dagli esperti esterni alla scuola, l’approccio esperienziale, il teatro, la lettura dei quotidiani - rispetto per la personalità impone di vedere l’irriproducibilità di un mondo e di una vicenda umana, come lo stesso don Milani sosteneva: un mondo rurale in cui la scuola era un’alternativa al lavoro nei campi. Una pedagogia almeno in apparenza a tratti tutt’altro che democratica, in cui le “pedate” creano la “motivazione estrinseca”, dove la parola va conquistata come diritto, ma prima di parlare si deve conoscere, ascoltare chi sa. La domanda provocatoria dell’autrice al termine della conferenza sul motivo dell’attualità di un prete che insegna al di fuori della scuola pubblica mezzo secolo fa, ci riporta forse ai fondamenti di ciò che chiamiamo umanità, come al senso che dovrebbe animare le parole. Sullo sfondo la contraddizione vissuta dallo stesso don Milani, anche lui un “Pierino” figlio di dottori, ovvero parte di un’élite portata in giudizio, attraverso il linguaggio, misurando la coerenza tra le parole e le cose.

                                               di Nazario Zambaldi

 

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