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SPETTACOLI E MOSTRE

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I Cavalieri

di Aristofane

Traduzione, adattamento e regia di Roberto Cavosi

Con Antonello Fassari, Fulvio Falzarano, Giancarlo Ratti, Andrea Castelli, Emanuele Dell’Aquila, Michele Nani, Mario Sala, Loris Fabiani, Sara Ridolfi.

Scene di Andrea Bernard
Costumi di Elena Beccaro
Luci di Massimo Polo
Musiche di Emanuele Dell’Aquila.
Produzione Teatro Stabile di Bolzano

Atene 424 a.C. Aristofane denuncia con spietatezza i meccanismi politici, beceri, spudorati, putrefatti del suo tempo. Bolzano 2017 d.C. Il popolo degli spettatori decreta la vittoria dei Cavalieri nel match teatrale di Wordbox Arena. Si tratta di un testo quasi “su commissione” per il regista Roberto Cavosi, che da qui parte per mettere in scena una versione attualizzata della commedia, senza tradirla.

L’azione è messa in moto da due servi di Popolo (i credibili e affiatati Michele Nani e Loris Fabiani), stanchi dei soprusi dell’”arrampicatore sociale” Paflagone (un Fulvio Falzarano in gran spolvero, in completino da faccendiere coi risvolti di astrakan), passato in breve tempo da servo come loro a consigliere di Popolo e, in sostanza, politico adulatore e approfittatore.

Cavosi mette in scena una versione moderna e ritmata della commedia, rispettando il testo originale. Restituisce fedelmente un concetto chiave del pensiero aristofaneo: l’importanza dell’agire del singolo, la cui azione è per e della comunità; la cui inerzia porta alla stasi sociale, a soprusi e demagogie. Grazie ai servi, ci si libera dello strapotere di Paflagone. Il pensiero successivo riguarda il “come” questo avvenga: il sostituto rivelatosi degno rivale, è altrettanto - se non maggiormente - becero e furfante. Il giudizio resta aperto e nelle mani del pubblico, cui si rivolgono qua e là i personaggi della commedia che agiscono in una squallida, sensorialmente mefitica scenografia di Andrea Bernard - una via di mezzo tra un retro di capannoni industriali e una mezza cisterna con lo scolo aperta verso la platea, modellata dalle ottime luci di Massimo Polo.

Contraltare dei Servi sono i Cavalieri (o Onesti), in origine coro, qui riassunto in due personaggi, interpretati con toni parodistici da Mario Sala e Giancarlo Ratti. I Cavalieri, per Aristofane, erano coloro che, pur socialmente dotati di possibilità, non si mettono in gioco in prima persona o, almeno non come potrebbero e dovrebbero. Ecco perché Cavosi li rappresenta come soggetti frivoli, volubili, pettegoli, maliziosi, distratti dai loro giochi (un volano giocato in tutina di acetato demodé), in contrapposizione con la rozza concretezza dei servi.

Se è vero che nella messa in scena le incursioni nel moderno - per linguaggio e riferimenti - non sono poche e moltissimo è stato tagliato della contestualizzazione storica, è altrettanto vero che Cavosi mantiene nell’adattamento contemporaneo della traduzione un linguaggio aderente all’originale, che spazia tra espedienti verbali dei più beceri (le battute oscene e volgari, i doppi sensi, le allusioni scatologiche, l’atteggiamento aggressivo) ed espressioni elegantemente formulate e retoricamente ben costruite. Si esalta l’aspetto paradossale e iperbolico dei dialoghi; si fa emergere il cosiddetto “paradosso sofista”, la logica che sbugiardando l’altro porta a sbugiardare se stessi: tu sei uno schifoso truffatore ma io sono meglio di te perché lo sono altrettanto, se non di più. Questo è il Salsicciaio, un energico, greve e roboante Antonello Fassari, efficacissimo nel dar corpo a quell’Agoracrito “figlio di popolo” perché “figlio della piazza” che sa interpretare i mal di pancia di Popolo e sostituirne, nelle grazie, Paflagone.

L’elemento straniante-grottesco ricorrente nelle regie di Cavosi, è reso dagli interventi a microfono (o a megafono, come nelle spiagge da Riviera romagnola anni ’70) e dall’elaborazione parodistica delle battute secondo melodie pop. Una caricatura di Aristofane stesso è impersonata da Emanuele Dell’Aquila, da un bidone dell’immondizia, sottolinea a colpi di chitarra elettrica i momenti topici dell’azione e accompagna gli stacchetti canori.

Chiave di volta è il personaggio di Popolo, un “vecchietto bisbetico e sordastro” che Cavosi, complice l’interpretazione strascicata di Andrea Castelli e l’occhio ironico della brava costumista Elena Beccaro, ci presenta in pigiamino frusto, vestaglia un po’ gualcita e pianelle di feltro da pensionato, tanto da sembrar saltato fuori da un racconto di Calvino. Inizialmente ci appare credulone e facilmente manipolabile, incline a cedere alle più ridicole e leziose lusinghe, a farsi comprare da chi meglio gli riempie la pancia nell’immediato, ma la cui voce alla fine è quella che decreta il (temporaneo?) vincitore.

Sul finale emerge la presa di distanza che Cavosi attua nei confronti della commedia originale: Popolo, in Aristofane, sembra ringiovanire e mettere in chiaro che i personaggi che cercano di entrare nelle sue grazie lo servono e al limite lo rappresentano, non lo governano. Cavosi, invece, ci restituisce un personaggio sì ringalluzzito dalla nuova piega degli eventi - e dalla presenza della giovane e fresca Tregua (una deliziosa Sara Ridolfi) - ma ancora irretito dalla superficialità e dal circo delle vanità (rappresentato dal delirio pop-canoro del finale, che pesca dal trash televisivo). Come a dire: attenzione, perché essere abbindolati è un attimo e gli strumenti del raggiro e della demagogia di bassa lega sono pervasivamente in mezzo a noi.

                                                    di Alessandra Limetti

 

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