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DANTE E I DISPATRIATI
Sublimazione di un destino

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  Capitolo 8.     Dante e i profeti dei tempi dell’esilio: Isaia, Abacuc, Amos, Osea   

Isaia e l’incipit della Divina Commedia

Tra i profeti con i quali Dante condivide messaggi e visioni, c’è anche Isaia e proprio all’inizio, nei primi versetti del Capitolo I del Canto dell’Inferno.
Richiamandosi al passo biblico del profeta (Isaia, 38, 10), l’incipit di Dante a tutti noto è “nel mezzo del cammin di nostra vita”, che in Isaia è: “nel mezzo dei miei giorni andrò alle porte degli inferi “(in dimidio dierum meorum vadam ad portas Inferi).
Dante conosce il profeta e lo cita anche in altre sue opere come nel De Monarchia e nel Convivio, riferendosi soprattutto alle visioni messianiche: la nascita e i dolori del Messia.
Ma anche messaggi di cui Dante vede l’avverarsi anche sotto i suoi occhi come in Isaia 62,8:
“Mai io darò il tuo grano in cibo ai tuoi nemici: mai più gli stranieri berranno il vino per il quale tu hai faticato”: con tutti gli stranieri che scorrazzavano per l’Italia fin dalla caduta dell’Impero Romano, Dante era ben felice di queste profezie di Isaia e egli stesso le auspicava, fino alla promessa di 65, 17: “Ecco io creo cieli nuovi e una nuova terra”.
E infine l’interpretazione allegorica di 61,7 dove il profeta Isaia annuncia che “nella loro terra possederanno il doppio e la loro letizia sarà eterna” con la terzina:

 “Dice Isaia che ciascuna vestita
Ne la sua terra fia di doppia vesta
E la sua terra è questa dolce vita”
(Paradiso XXV 91-93)

 

Deportazione e esilio con gli Assiri

Il periodo di Isaia coincideva con la tragedia nazionale della occupazione degli Assiri e della conseguente deportazione.
Amos e Osea al Nord di Israele e Isaia al sud, ne annunciarono l’evento e lo vissero con sofferenza insieme al loro popolo.
Isaia in 8,23 parla di Zabulon e di Neftali come di terre umiliate dal Signore.
Però anche con Isaia, come già con Ezechiele, Dante scopre la speranza di una “sublimazione dell’esilio”, con versi stupendi, nei quali il profeta unisce in un unico leit motiv le tre tematiche del popolo, dell’esilio e del cammino:
“Uscite da Babilonia, fuggite dai Caldei; annunziatelo con voci di gioia, diffondetelo, fatelo giungere fino all'estremità della terra. Dite: "Il Signore ha riscattato il suo servo Giacobbe" (Isaia 48, 20).
E in un altro oracolo proclama:
“Fuori, fuori, uscite di là! Voi non dovete uscire in fretta, né andarvene come uno che fugge, perché davanti a voi cammina il Signore, il Dio d'Israele chiude la vostra carovana” (Isaia 52,11-12).

 

Abacuc: i ricchi e i potenti sono come animali rapaci

Dante e Abacuc hanno affinità anche nel modo caustico e abrasivo con il quale descrivono i potenti e gli oppressori.
Nel descrivere i babilonesi, Abacuc usa tutto il repertorio animalesco dei rapaci, con il quale si fanno i tatuaggi i criminali più efferati: leopardi, lupi, aquila.
Questo repertorio animalesco coincide non solo con la crudeltà e l’oppressione, ma è intrinsecamente motivato dalla avidità di possesso:
La ricchezza rende malvagi e come la morte non si sazia…Guai a chi accumula ciò che non è suo…Guai a chi è avido di profitto…a chi costruisce una città sul sangue1.
E aggiunge un dettaglio molto curioso: “avvelena la gente con il vino2.

Questo passo richiama la condanna di Dante dei frodatori nel Canto XI dell’Inferno, per bocca di Virgilio:

La frode, ond' ogne coscïenza è morsa,
può l'omo usare in colui che 'n lui fida
e in quel che fidanza non imborsa.

Questo modo di retro par ch'incida
pur lo vinco d'amor che fa natura;
onde nel cerchio secondo s'annida

ipocresia, lusinghe e chi affattura,
falsità, ladroneccio e simonia,
ruffian, baratti e simile lordura”
(Inferno XI 52-60)

La sua preghiera a Dio si conclude invocando un suo intervento “per salvare il tuo popolo”. E aggiunge che la sua “visione attesta un termine, parla di una scadenza che verrà e non tarderà3.
Abacuc preannuncia che diverranno loro stessi preda: “i loro esattori saranno neutralizzati dal “sonno”, saranno spogliati di tutto”: esattamente quello che in Dante diventa la pena del contrappasso.

 

Amos, il contadino ribelle e la profezia dell’esilio

È nato in un villaggio vicino a Betlemme. In ebraico Amos significa Amosyah= Yahweh solleva o innalza.
Amos era un semplice contadino e mandriano e fu un profeta semplice, brusco e senza peli sulla lingua, contro la corruzione dilagante e contro i sacerdoti e i potenti che con la loro astuzia camuffavano abilmente le ingiustizie contro i poveri.
Insieme a Malachia e a Michea, Amos va alla radice del problema di chi è costretto o all’esilio oppure a cambiare patria e andare migrante in un'altra terra: l’ingiustizia, l’oppressione, la povertà causata dalla avidità dei pochi.
Attali nel testo citato lo definisce “uno dei miei profeti preferito…grande riformatore, denunciatore delle ricchezze mal acquisite e della tirannide. Infine, perché è un grande scrittore, una sorta di Victor Hugo ebreo”: uno scrittore che ha subito l’esilio per ragioni simili.
E Attali aggiunge: “Amos si mostra estremamente violento contro i potenti” 4.
Anche Amos prefigura il tema dell’esilio come pena: “Di spada morirà Geroboamo e Israele sarà condotto in esilio lontano dalla sua terra” (Amos 8,11).
E Attali continua il suo commento: “Ma la sua profezia non è esclusivamente pessimista. Egli guarda al di là dell’esilio…Dio si riconcilierà con il suo popolo…Egli creerà una società ideale in cui il regno di Davide sarà riunificato, in cui la regalità non sarà più un luogo di ingiustizia”.
Un afflato nel quale anche Dante, afflitto dalla pena dell’esilio a causa del pessimo governo frazionato in mille “villani” che si credono degni di governare, ha accenti simili ad Amos e come rimedio prefigura l’avvento di una società ideale con una Monarchia universale governata con rettitudine e in cui “il giardino dell’impero sia riunificato” 5.

 

Rapporto conflittuale con la chiesa ufficiale

Un altro tema di affinità tra Dante e Amos è il rapporto conflittuale con il mondo corrotto della Chiesa e le sue interferenze con la politica e/o le pretese di assecondarla nella gestione peggiore del potere, foriera di disgrazie e esiti infausti.
In Amos 7,10-17, c’è un passo eloquente:
Amasia, sacerdote di Betel, mandò a dire a Geroboàmo re di Israele: «Amos congiura contro di te in mezzo alla casa di Israele; il paese non può sopportare le sue parole, poiché così dice Amos: Di spada morirà Geroboàmo e Israele sarà condotto in esilio lontano dal suo paese».
Amasia disse ad Amos:
«Vattene, veggente, ritirati verso il paese di Giuda; là mangerai il tuo pane e là potrai profetizzare, ma a Betel non profetizzare più, perché questo è il santuario del re ed è il tempio del regno».
Amos rispose ad Amasia:
«Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un pastore e raccoglitore di sicomori. Il Signore mi prese di dietro al bestiame e il Signore mi disse: Va, profetizza al mio popolo Israele. Tu invece mi dici: Non profetizzare contro Israele, né predicare contro la casa di Isacco. Ebbene, dice il Signore: Tua moglie si prostituirà nella città, i tuoi figli e le tue figlie cadranno di spada, la tua terra sarà spartita con la corda, tu morirai in terra immonda e Israele sarà deportato in esilio lontano dalla sua terra» 6.

 

Il dramma di Avignone

Manca solo il dramma di Avignone e Amasia sembra Clemente V, francese, con il quale ha inizio l’esilio avignonese dei papi, collusivi con i monarchi, soprattutto con Filippo il Bello, al quale Clemente V regalò l’infame accusa di eresia che permise al sovrano di non pagare i debiti che aveva contratto con l’ordine dei Templari e di impossessarsi di tutti i loro beni.
Amos fu espulso dalla sua città, Betel, e Dante fu anch’egli scacciato da Firenze, a causa della interferenza di un papa, che ripete il ruolo di Amasia. E anche Dante come Amos fu mandato in esilio dove “poté mangiare il suo pane e continuare a profetizzare”, ossia a svolgere la missione profetica che gli riconosciamo con la sua grande opera.
Ancora più simile alle invettive di Dante è il passo:
Guai agli spensierati di Sion e a quelli che si considerano sicuri sulla montagna di Samaria. Distesi su letti di avorio e sdraiati sui loro divani mangiano gli agnelli del gregge e i vitelli ingrassati…canterellano al suono della chitarra e altri strumenti musicali, bevono il vino in grandi flûte e si ungono con profumi raffinati e di marca, ma della rovina di Giuseppe se ne fregano. Perciò andranno in esilio in testa ai deportati e finiranno le loro orge7.

 

Osea: per la casta gli altri sono solo opzionali?

Sia la classe politica che la casta sacerdotale hanno in fondo una medesima opinione deleteria, che può essere considerata una perversione morale molto diffusa e che spinge soprattutto i politici, i grandi imprenditori, star e successful people, a comportarsi come se gli altri non avessero alcun valore, come se non esistessero: come se, dice Gilles Deleuze, “la presenza degli altri sia opzionale, perché l’unica cosa che conta è il loro io”. Come nel film italiano: Io, io, io e…gli altri di Blasetti.
Il senso di onnipotenza e credersi come dio, senza alcuna distinzione tra il bene e il male, è la radice di tutti i crimini, sia che si tratti di omicidio o attentati pilotati o tangenti, sia che si tratti di violenza sessuale, stupro o pedofilia, intesi come violenza espressiva di una auto-percezione di immunità e impunità.
E per concludere questa desolante condizione, Osea afferma:
I politici fanno ciance, giurano pronunciando promesse folli, stringono accordi segreti, il diritto per loro è come pianta velenosa” 8.
E aggiunge: “I capi di Giuda sono diventati come quelli che spostano i confini”: fanno cioè le leggi a proprio comodo.
Mentre per gli altri le pensioni, le retribuzioni e la sicurezza sono regolate da confini giuridici ben precisi, per loro questi vincoli non esistono e si fanno i “confini” che fanno loro comodo, rendendo il ruolo legislativo elastico e pieghevole 9.
Nessuno si sarebbe mai immaginato che già Osea dicesse la stessa cosa che Italo Calvino scriveva nel suo saggio “La decapitazione dei capi” 10: “I loro capi cadranno di spada per l’insolenza della loro lingua e nell’Egitto rideranno di loro11.

 

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1Abacuc 1, 3.

2Abacuc 2, 12.

3Abacuc 2, 15.

4Dictionnaire amoureux du Judaisme, (Fayard 2009, traduzione italiana in Fazi Editore, 2013.

5Nel versetto 105 del VI Canto del Purgatorio Dante, nella sua invettiva contro l’Italia, la definisce “’l giardin de lo’mperio”.

6Amos 7, 14-17

7Amos 6,1, 4-7.

8 Osea 10, 4.

9Dice Osea. “Canaan tiene in mano bilance false”: è proprio quello che accade alla frase stampata su tutti i tribunali d’Italia: “La legge è uguale per tutti”, ma ancor a più vera è quella di Orwell quando scrive che “tutti sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri” oppure la famosa battuta di Giolitti, che, conoscendo molto bene lo stile di governo dell’Italia, diceva che “le leggi per gli amici si interpretano, per i nemici si applicano”.

10Il riferimento è al racconto del 1969, intitolato appunto La decapitazione dei capi, nel quale Italo Calvino immagina un paese in cui è prevista l'eliminazione con la ghigliottina dei governanti alla scadenza del loro mandato.

11L’accenno di Osea al fatto che in Egitto rideranno di loro, richiama in modo esilarante quello che pensavano (e talvolta pensano ancora) di alcuni nostri politici e governanti le Grandi Potenze, paragonabili all’Egitto di quel tempo. C’è anche un accenno ai “cortigiani” dei politici quando Osea dice: “Con la loro malizia rallegrano il re, rallegrano i loro boss con le loro simulazioni e finzioni” (Osea 7,3). Soprattutto nei social con i like, gli emoji, i cuoricini ecc.

 

 

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