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SPIETATAMENTE GIOVANE - Il rottamatore d'Italia, 6 anni fa ed oggi

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  Marino Biondi      "Spietatamente giovane"  Un sindaco al potere[1]  

Il titolo dell’articolo che state leggendo è l’inizio d’una poesia di Giuseppe Giusti, “Il brindisi di Girella”, dedicato dall’autore - pensate un po’ - a Talleyrand, una delle teste più fini e più ipocrite della diplomazia europea ai tempi di Napoleone. Vale la pena di leggerla tutta, quella poesia, perché descrive argutamente e crudelmente i vizi della politica di tutti i tempi e di tutti i Paesi, in particolare dell’Italia della sua epoca (gli anni Trenta dell’Ottocento) ed anche e più che mai dell’Italia di oggi. Si attaglia a molti dei leader attuali, da Berlusconi a Grillo, a Renzi e a molti “rottamati” e a loro volta rottamatori.

(Eugenio Scalfari, Girella emerito di molto merito, 13 aprile 2014)[2]

I primi cento giorni di Renzi come Obama, i capelli imbiancano.

(La Repubblica.it, 5 giugno 2014)

Il PD deve chiudere le sezioni e aprire alle sensazioni.

(Maurizio Crozza, Renzi Nel paese delle meraviglie, 20 giugno 2014, La7)

Da centocinquanta giorni ho cambiato ruolo, vita e domicilio. Spero dunque di apparire ai miei amici delle E-News “assente giustificato”. Anche perché se in questo periodo non vi ho scritto, vi ho comunque intasato la vita con i tg, le interviste, la campagna elettorale.
Adesso torno alle E-News.

(Matteo Renzi, eNews 383, 30 luglio 2014)

Si legge nel capolavoro del nostro diritto, Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria: «Le macchine politiche conservano più d’ogni altra il moto concepito e sono le più lente ad acquistarne un nuovo.» (XXII). Ebbene il renzismo fu interruzione del moto a lungo concepito e sferza alla lentezza d’acquistarne un nuovo. In un’Italia pirandelliana in cerca d’autore, Renzi è sicuramente un personaggio e se non il regista è l’attor giovane protagonista[3]. Che cominci a essere percepito a livello di massa come uomo di spettacolo, dello star system, lo rivela anche una certa editoria da sbarco in edicola, che lo tratta come una qualuque Belen, intitolando una biografia non autorizzata al suo Lato B[4]. È entrato ormai nel mondo di quella particolare storiografia d’establishment targata Porta a Porta, di cui ogni anno esce un volume[5]. Anche Giuliano Ferrara lo ha battezzato, scrivendone. Il più brillante dei nostri rinnegati, un monsieur Komarovsky che dichiara senza infingimenti il suo amore a Renzi-Larissa Antipova. Non è stata propriamente una biografia politica quale potevamo attenderci, ma un inno alla gioia, un sabba rigenerante, un nunc est bibendum. Sì, Ferrara, il Giuliano l’Apostata della Sinistra Storica, l’erede maschio dell’aristocrazia di Botteghe Oscure, si è levato un gran peso, altro che sassolino, un masso che gli oscurava l’orizzonte: il berlusconismo non era morto su una manzoniana deserta coltrice ma si era riprodotto, più giovane, fresco, pimpante. I cromosomi erano intatti, forgiando l’erede. Era stato un miracolo dell’andrologia, in questo paese alle vongole, che il Ferrara coltissimo e teppista adora e tutela da tutti i soloni dell’etica e delle Belle Arti. Dal padre il figlio. Da padre in figlio. Al momento non è dato predicare nelle teologie contemporanee di una trinità, ma una dualità, una diarchia, si è costituita. E uno stil novo (le Madonne fiorentine). Una genealogia, una neorazza, dal vetusto e venerato precedessore, che faceva girare la Patonza, a questo suo figliolo, che fa girare la Leopolda, e sembra incarnarlo secondo le stimmate che Ferrara preferisce, quelle dell’atipico, dell’anomalo, del deviante, del burlante, atipicità anomalia e devianza che si fanno beffe delle istituzioni, o meglio dell’allure di quelle, che comprendono una vasta congerie di figure valori immagini idee e soprattutto virtù, dall’azionismo vendicativo del lazzaronismo italico allo Studio Ambrosetti di Cernobbio[6]. Ora, dopo il colpaccio di Sergio Mattarella, presidente della Repubblica dal 31 gennaio 2015, la leadership di Renzi esce confermata e potenziata. Chapeau al royal baby.

Ma anche la intellighenzia cattolica oggi dominante, quella dei Gesuiti, ne ha ricavato un identikit tutto sommato benevolo: «Renzi è capace e intuitivo, empatico e veloce, simpatico e informale, ma soprattutto è deciso.»[7] Antonio Polito, in un’acuta disamina dei guasti che certe sconsiderate abitudini sessuali hanno provocato agli uomini potenti e ai loro paesi (Enrico VIII, Berlusconi, Strauss-Kahn, Hollande, l’ultimo fatto a brani da un libro killer di Valérie Trierweiler), di fatto riducendoli all’impotenza, e chiedendosi la ragione per cui uomini che hanno tutto, successo e potere, si giocano la reputazione per il piacere, ha concluso che essi si annoiano, che la politica, come il carcere e il servizio militare, è noia, ozio senza riposo, e pertanto ha bisogno di scosse estatiche e pause veneree (spasmodica e ossessiva, dunque, la «ricerca di spazi ricreazionali», vale a dire la dipendenza dal sesso). Donde - questa la conclusione ad personam - «stavolta ci siamo affidati a un boy scout», per il quale conta evidentemente di più, almeno fino ad ora, il gioco del potere che l’attrazione del piacere[8]. Raffaele La Capria ha lamentato in un suo articolo l’incomprensibilità (voluta) del discorso politico. Anche chi scrive queste note si è cimentato a fatica con un caos teleguidato e urlato di talora finte analisi e sovrabbondanti quanto contraddittorie cifre. La Capria ha scritto anche che leggendo La Casta di Stella e Rizzo ha pensato alla Rivoluzione Francese «alla «casta rinchiusa a Versailles, ai patiboli e alla ghigliottine. Associazioni di idee involontarie e pericolose, ma inevitabili.»[9] Quando si parla della politica italiana di oggi, screditata e impunita, bisogna comprimere il giacobinismo tagliateste che può allignare anche nel più pacioso dei cittadini di questo paese, spremuto e deluso, quando non ne può proprio più.

Diceva Koestler che «la creatività è l’arte di sommare due e due ottenendo cinque». Nelle somme e nelle moltiplicazioni Renzi ha dimostrato di cavarsela egregiamente. Ormai ha assunto un ruolo, una parte in commedia, e la recita. Si sta cominciando a rivelare la cifra della sua recitazione, da quale Actors Studio provenga, dal vasto retrobottega dello spettacolo. Renzi ha puntato sul linguaggio dei media, propriamente connesso allo star system, e allo show business, e lo adopera con innata predisposizione, talvolta con un grado basso di significazione (assai vicino allo stereotipo), talvolta con il grado più alto e creativo, talvolta con il grado dell’allusione e della comunicazione indiretta, politicamente più raffinata. Sembra anche che faccia tesoro dell’umorismo della satira che lo colpisce nei difetti più vistosi, come l’ipertrofia dell’ego e i luoghi comuni arroganti e bambineschi cui indulge, una satira però che nel circuito dello spettacolo ha l’effetto di esaltare i propri bersagli piuttosto che denigrarli (parlatene male ma parlatene). Alla conferenza stampa di fine anno da premier, il 29 dicembre 2014, ha detto testualmente: la parola d’ordine del 2015 sarà la stessa del 2014, ritmo. Quindi ha precisato di sentirsi come Al Pacino nel film Ogni maledetta domenica[10]. Sulle nevi di Courmayeur, dove un fotografo l’ha beccato mentre sciava nelle vacanze di fine anno, il commento è stato che stava sciando con ritmo. E via ai comici che lo imiteranno. E in seconda battuta ai politologi che ne analizzeranno le mosse. Notizia di fine anno, quasi una strenna per il premier. Anche lo sceriffo Cioni, storico vicesindaco di Firenze indagato ed espulso dalla politica (forse per non intralciare l’ascesa di Renzi), autore di un libro dal titolo non equivocabile neppure nella città degli ermetici (Cioni ti odia)[11], ha fatto palinodia su Renzi. È un uomo - ha detto, chi sa se citando il mafioso don Mariano Arena nel Giorno della civetta di Sciascia - e mette passione e faccia nelle cose che fa. Questa palinodia è venuta in concomitanza con la tragedia del traghetto Norman Atlantic, in fiamme nell’Adriatico in tempesta con il suo carico di terrore e di morte a bordo (28 dicembre 2014). Renzi, come si dice in un linguaggio da brivido, ha saputo cavalcare il fuoco di quel rogo. Ma se stiamo ai piani alti delle istituzioni repubblicane, il giudizio politico che lo accompagna a un primo bilancio è stato positivo. Il presidente Giorgio Napolitano, nel suo commiato dalla nazione affidato al discorso del 31 dicembre 2014, ha detto: «Gli Stati Uniti, da cui partì - anche per errate scelte politiche - la crisi finanziaria, conoscono un’impennata della ripresa già avviata e guardano all’Europa per uno sforzo corrispondente, benché in condizioni assai diverse. In effetti, l’Italia ha colto l’opportunità del semestre di presidenza del Consiglio per sollecitare un cambiamento nelle politiche dell’Unione che accordi la priorità a un rilancio solidale delle nostre economie. Tra breve il Presidente del Consiglio Renzi tirerà le somme dell’azione critica e propositiva svolta a Bruxelles. Nulla di più velleitario e pericoloso può invece esservi di certi appelli al ritorno alle monete nazionali attraverso la disintegrazione dell’Euro e di ogni comune politica anti-crisi.»[12]

Il sindaco e ormai ex sindaco Matteo Renzi (Firenze, 11 gennaio 1975, in realtà Rignano sull’Arno, un fiorentino dal contado, secondo dei quattro figli di Tiziano e Laura Bovoli)[13], anche con il suo personale successo e la dichiarata ambizione di trasgredire ogni cautela della Firenzina di un tempo, ha scosso la città, con un sisma d’intensità tale come da tempo i sismografi sotto il cupolone non registravano. A Firenze non succede quasi mai niente, tranne la recita periodica delle beatitudini sulla più bella città del mondo. Alcuni fiorentini se la suonano e se la cantano. Altri, i fiorentini famosi, se ne stanno lontani e devono la loro carriera all’essersene andati per tempo. Franco Zeffirelli, fra questi famosi nel mondo, ha poi fatto ritorno ed è il più radicale nell’affermare il genius loci, il primato della stirpe, all’uopo si porta appresso come totem di quella superiorità uno schizzo della cupola brunelleschiana, fiero nemico dei vagabondi culturali in torpedone (i turisti) che infestano la città e le danno di che vivere.

In fondo anche per Dante fu decisivo e provvidenziale alla brillante carriera poetica che ancora dura l’esilio, e l’odio per i compatrioti fu il combustibile della prima cantica, la più popolare di sempre. L’altro tema forte della città sono i Viola, intesi come squadra di calcio, croce e delizia, oggetto di idolatria, di scavi dietrologici[14], fonte perenne di esegesi stremanti e sottili più del Talmud, paranoie complottistiche, passioni ed entusiasmi ogni anno sopiti, all’apparir del vero, come la giovinezza nella poesia di Giacomo Leopardi. Sicché il Renzi, con il suo scatto, il suo ridanciano machiavellismo incorporato, ha sorpreso Firenze, non tanto per quello che ha fatto da sindaco (dal 2009, quando non era nessuno, giunto adesso che è già altrove alla scadenza del primo e unico mandato), ma per quello che è lui, per come si è rivelato essere. Dagli scranni di un consiglio comunale al tavolo delle trattative europee di Bruxelles. Pensoso di politica estera sugli atlanti guerreggiati del globo, statista precoce, già con qualche filo bianco a incanutirgli i lobi frontali, troppo presto strappati alla spensierata giovinezza[15]. Matteo Renzi, più giovane premier italiano, primato che vede al secondo posto Benito Mussolini (29 luglio 1883, primo ministro dal 28 ottobre 1922).

Dai tempi in cui Massimo D’Alema gli consigliava paterno e sprezzante: o Renzino, sta bono, aspetta il tuo turno, fai un altro mandato in provincia, e poi ti metti in fila per Palazzo Vecchio. Come alla Coop per la spesa, la spesa della politica come professione, e carriera. Il Renzino s’era sciroppato la Provincia, dove contava nulla ma una volta aveva accolto in quella carica invisibile un inviato del «Foglio», rammaricandosi che sulla sua poltrona di Palazzo Medici c’era stato qualche secolo prima un Magnifico. E ora c’era lui che appunto non contava nulla, ma - forse questo il messaggio subliminale - si apprestava a contare, costasse quello che doveva costare. Quando lessi quell’intervista, lungi dall’essere visitato da una premonizione della futura carriera, avvertii però una legittima curiosità per la nostalgia medicea di quel giovane politico, a me ignoto.

L’acrobata sul filo[16]. Renzi deve tutto alla sua ambizione, che non è proporzionata a nulla, né al merito, né alla preparazione, ma al coraggio dell’ascesa, ed è per questa dismisura che riesce a essere sconcertante e, fino ad ora, sorprendentemente vittoriosa. Renzi non c’è stato al gioco dei percorsi guidati, della pazienza d’apparato, gli ha dato un calcione al D’Alema figlio prediletto del Partitone da quando nel 1959 aveva dieci anni e già offriva sul palco le rose al Migliore, intonando il suo primo ferrigno comizio di fanciullino delle Botteghe Oscure. Molto per contrasto il Renzi deve a D’Alema, e sembra essersi costruito in antitesi a quel volto arcigno, a quell’algido parlare, alla secrezione d’antipatia come naturale distillato dell’intelligenza, lui che della simpatia, in parte naturale e in parte recitata, ha fatto il suo cavallo (per ora vincente) di battaglia politica.

Matteo Renzi ha scompaginato i quadri dell’organizzazione comunista che tentava di sopravvivere a comunismo scaduto, caduto e sepolto dai calcinacci berlinesi del Muro. Ha afferrato al volo il collasso di quella cultura politica, non ha perso tempo a compiangerlo in memoria (non una lacrima alla Occhetto, stile Bolognina, anche perché di quel collasso era ben lieto). Ha compreso che nel berlusconismo non c’era solo del marcio, ma intenti liberali, cose buone, non realizzati e ingoiati nel vortice degli scandali. Angelo D’Orsi ne ha concluso che il renzismo è un populismo di marca berlusconiana, una variante peggiorativa di quella politica[17]. Ha capito altresì che gli Italiani non ne potevano più delle solite facce (della Sinistra inconcludente e litigiosa, votata al fallimento e al martirio, di un Sindacato dal bilancio disastroso con i salari più bassi d’Europa e la generazione giovane decapitata) e ha inventato una parola da lessico epocale, e con la rottamazione ha realizzato una sostituzione di ceto politico (che andrà valutato e che non sembra superiore al precedente ma solo nuovo, e affiliato alla retorica imperante delle quote di genere, sì che si promuove al vertice della politica estera europea una giovane lady senza esperienza ma determinatissima nella carriera, come il suo capo)[18]. Lui, il boy scout post-ideologico (Ferrara) ha nel frattempo imparato in fretta il mestiere e soprattutto gli atteggiamenti del leader, decisionista, sprezzante, ostentatamente superiore alle singole beghe dei ministri e dei Parlamenti, un giovane Craxi, ma non ancora antipatico alle masse, al di qua del limite della intollerabilità che l’altro aveva superato e che gli costò carissimo ma che non spense il suo orgoglio[19].

All’origine della carriera, Renzi fece uno scarto, saltò la fila. Se solo fosse stato politicamente e gerarchicamente disciplinato e osservante, sarebbe stato ingoiato dall’anomia storica che punisce i non audaci. Invece è violentemente emerso. Dapprima i fiorentini, suoi primi e quasi inconsapevoli mentori, lo premiarono facendolo sindaco; gli italiani lo hanno premiato dopo per le stesse ragioni: lo scompaginamento degli organigrammi predisposti e ufficiali dalla cosiddetta casta. Hanno premiato una leadership visibile e accentratrice, semplificante il retaggio delle mediazioni, una personalizzazione della politica che è ormai un dato di questa «Repubblica “preterintenzionale”», alimentata ibridamente a leaderismo e rete[20]. Destra o sinistra non fa nessuna differenza. Come sostanza politica, siamo ancora ai preliminari ma non vi è dubbio che la rampa di lancio del Renzi da Rignano fu precisamente quello scarto dalla disciplina del nepotismo di partito. Come lo sta diventando ora dalle regole del parlamentarismo, dalle sue inevitabili lungaggini, e l’esplicita insofferenza per ogni forma di opposizione («l’ostruzionismo è come un sasso sul binario del treno Italia»)[21]. Tutto questo insieme di atti e di gesti e di eloqui pone una serie di interrogativi sulla sua reale affezione alla democrazia.

Parole che producono fatti, questo il mantra del renzismo. I suoi alleati del centro-destra, che gli si sono attaccati alla carrozzeria come foglie morte cadute dagli alberi dell’autunno della politica, lo attaccano strumentalmente su questo piano di lesa democrazia, come fa Renato Brunetta allorché tuonava in un Mattinale del 23 novembre 2014 che Renzi è un despota fiorentino scelto in un qualche conciliabolo segreto. Forse che la fiorentina induce al segreto? Credo che Renzi non sia antidemocratico, frutto spontaneo di un democratismo largo e invadente, più che lievemente disposto alla demagogia populista (tirannide figlia di democrazia impetuosa, scriveva Aristotele nella Politica), selezionato da primarie e innumerevoli esami televisivi: «Gli osservatori gli hanno dato vari nomi. Qualcuno lo chiama dispotismo democratico. Altri autoritarismo o centralismo democratico. Altri ancora egemonia individuale.»[22] Ancora: «e qui nasce il problema: un’egemonia individuale o una democrazia personale è quanto merita il nostro Paese?»[23]. Lasciamo stare quello che si merita la povera Italia che ne ha viste di peggio. Potrebbe anche essere «una critica seria», quella di riforme non accettabili sotto il profilo della democraticità - ha scritto un commentatore noto per il suo equilibrio - «se non la si spinge al punto di paventare poco credibili esiti cesaristico-autoritari»[24]. Un’altra considerazione scalfariana: «Un esecutivo forte è quanto ci vuole per farci uscire dalla depressione; se invece il suo principale miraggio è quello di rafforzarsi sempre di più, allora bisognerà ridiscutere non solo di depressione e di deflazione ma anche di democrazia individuale e sovranità popolare fittizia, una strada che rischiamo d’aver già imboccato riducendo il Senato a un’istituzione che prima sarà del tutto abolita e meglio sarà.»[25]

Democrazia, si comincia a farne un po’ di satira nei media. Un attore di successo, Kevin Spacey, protagonista di un political drama televisivo, House of Cards, in cui interpreta il ruolo di Frank Underwood, presidente Usa, ha pronunciato una battuta allarmante: «la democrazia è sopravvalutata». Si potrebbe dire che la democrazia che va in onda, che sta andando in onda (che si trasmette più che la si viva o la si partecipi veramente) è una democrazia virtuale. E che il ceto politico governi - o tenti di farlo - un paese virtuale che esiste per la rifrazione di immagini che a quel ceto perviene da sondaggi e comunicazioni di massa. C’è anche un’altra domanda da porsi: ma quanto può essere forte un leader in democrazia? Non è che la sua forza se ne va tutta o quasi nel mostrarsi forte e deciso nel momento topico dell’offerta politica, cioè quello di farsi accettare, durante le campagne elettorali. Poi questa forza scema in un concerto di contrappesi, di freni, o semplicemente si arrende alla necessità di tutti i leader (anche quelli di regimi autoritari) di lavorare in gruppo, o di far lavorare il gruppo, certo su un proprio mandato. La comunicazione, in altri termini, nelle attuali democrazie videocratiche assorbe la forza, o la forza apparente. Quindi si dà a vedere una specie di entropia di quella forza nelle lunghe fasi del governo.

Renzi ha maturato come molti italiani una evidente insofferenza nei confronti delle forme quand’esse siano molto rispettose di se stesse ma nettamente insufficienti a mandar avanti la nazione. Ogni cittadino si rende conto della paralisi. Lasciamo ai comici divenuti, come Roberto Benigni, grand’ufficiali della Repubblica quirinalizia, le sviolinate alla Costituzione più bella del mondo che sanno di melenso nelle amare contingenze del lavoro che non c’è (fra poveri assoluti e poveri relativi, in stato di non abbienza come si dice pietosamente, l’Istat pur nel balletto statistico anch’esso piuttosto screditato dà cifre apocalittiche intorno ai sedici milioni di connazionali), nonostante che quella bellissima fra le Costituzioni, oggetto di contemplazione costituzionalista, sul lavoro sia fondata fin dal primo articolo (per non dire della guerra ripudiata, e combattuta extra moenia). Renzi ha significato anche un po’ di piazza pulita da questi solfeggi virtuosi. Senza fare della scienza politica, che non ci compete, si potrebbe dire, visto anche il modo dell’ascesa di Renzi, la scalata favorita da gruppi economici suoi tifosissimi, che il renzismo è stato il frutto, più che di una democrazia, di una poliarchia – così la chiamava il politologo americano Robert Dahl - un pluralismo di gruppi di potere e di pressione, che si contendono in democrazia il potere, i quali, come in questo caso, hanno agito per portare in pool l’identità politica di riferimento. Poi l’arrancante e ormai solo rituale democrazia elettorale, in coincidenza con le Europee, ha potuto e voluto sanzionare la scelta.

Come folgore dal cielo, come nembo di tempesta, ricordo che c’era scritto sulla carta intestata della Brigata Paracadutisti della Folgore ai tempi del mio servizio militare. Folgore e nembo, per la scalata messneriana al vertice. La tempesta politica dell’anno 2014. Mentre scriviamo, il PD, partito dialetticamente epilettico, con la sua guida ha raggiunto il risultato storico oltre la soglia del 40% dei consensi alle elezioni europee del 25 maggio 2014. Il PD è diventato, come del resto gli altri, un partito ad personam: «è un partito personale ed il suo rappresentante è Matteo Renzi e alcuni collaboratori da lui scelti e adibiti ad allacciargli i calzari. Renzi credo sarebbe molto infastidito se i calzari gli venissero scelti da altri.»[26] Il suo governo continua a governare ed è, per dirlo con Enrico Mentana[27], un governo molto promettente. Non fa che promettere[28].

Anche la velocità dell’ascesa è stata impressionante: «Conoscerete la nostra velocità è un libro di Dave Eggers che Renzi cita spesso. Sulla propria pelle, la sua velocità, l’hanno conosciuta soprattutto i compagni di partito, sconfitti e non». Citazione tratta dalla prima pagina di un suo profilo, scritto da un analista non superficiale del fenomeno, David Allegranti[29]. Velocità, sì certo, ma anche e più enorme ambizione, a cui vanno aggiunti in quote da analizzare il coraggio, o la temerarietà, l’audacia, l’energia, la sfacciata sicurezza di sé, un egocentrismo ebbro[30], la politica succhiata col latte, come una tecnicalità appresa alla nascita, la considerazione e la confortante certezza di essere, lui di altezza media, in un mondo di nani, ispirato se si vuole andreottianamente dalla piccolezza altrui, dal minimalismo morale e cerebrale, dal magma di viltà e ipocrisia e nanismo del ceto politico nella sua quasi totalità. Abbiamo avvertito anche un altro scarto, in una condizione di asfissiante realtà è difficile vivere, ed ecco la leggenda Renzi. Il tutto, che sia coraggio o sia cinismo, che sia lungimiranza o folle volo di scommessa sul futuro, altrettanto fuori dei canoni consueti di misurazione. The boy si è imposto come il nuovo, l’anagraficamente nuovo, e giovane, e ha patinato di antico, come fosse modernariato politico, il berlusconismo, invero all’anagrafe ormai ottuagenario, con il quale non manca, ed è tuttavia ben visibile a occhio nudo, un bel florilegio di affinità elettive. Tanto che il vecchio pirata, ormai solo debosciato despota arcoriano, fra un processo e l’altro, una condanna e un’assoluzione, guarda a questo suo figliolo che ha occupato tutto lo spazio disponibile in natura, lo guarda con un mesto orgoglio, un sorriso represso, come si guarderebbe al frutto di una relazione adulterina di gioventù: vorrebbe abbracciarlo, perché i figli sono pezzi di cuore, riconoscerlo, dargli nome e cognome, ma non può, e allora si limita allo struggente (per un padre) patto del Nazareno (18 gennaio 2014)[31]. Patto che non è estraneo - e il figlio lo sa bene - alla resurrezione del padre. Ha commentato Eugenio Scalfari: «Per Renzi alcune cose vanno bene. Molto bene. L’assoluzione di Berlusconi a Milano è una di quelle. L’ex Cavaliere di Arcore ormai è un padre della patria confermato dal libero convincimento della corte d’Appello. Questo ruolo potrà conservarlo fino a tutto il 2018. Allora avrà 84 anni e poi può anche darsi che ottenga la nomina di senatore a vita fino al 2025. Morire in bellezza, questo conta, e lasciare un figlio che rappresenta il meglio di sé.»[32] Dopo mesi di commenti settimanali, la convinzione del Fondatore sul tramando genealogico da padre in figlio di un testimone di democrazia che assomiglia sempre più a un sogno seriale raccontato dalle reti Mediaset si è rafforzata: «Per il resto avrà Renzi come figlio nel senso che ha sempre detto e previsto: il “figlio buono” che potrà prendere il suo posto per altri vent’anni e così probabilmente sarà. La democrazia intesa in senso vasto, comprende anche questo.»[33]

Da fresco premier, dopo avere ammutolito compagni e avversari, distrutto serenamente Enrico Letta, zittito il partito più litigioso del mondo (il suo)[34], ipnotizzato quella che fu Forza Italia[35], rivestito dal sarto Ermanno Scervino, con i figli in braccio e la famiglia, l’Obama bianco è tornato a Firenze per lo scoppio del carro in Piazza Duomo nella sua prima Pasqua al potere. Fosse chiara la sua radicalità fiorentina, particolarmente orgogliosa in lui che è del contado. Si è mostrato attento alla folla, si è ingegnato a piacerle, a compiacerla, a donare a chi la volesse la sua immagine. È la sua arte, o il suo artigianato politico, l’innato talento. Forse gli danno fastidio gli individui, le individualità, ma la folla gli piace vistosamente, senza un volto, o un volto provvisoriamente adorante, e senza un nome (il popolo italiano?). Beppe Severgnini, in un suo libro[36], ha scelto una parola nuova, tonificante, “resilienza” per l’Italia di Renzi: un’Italia che ne ha viste tante, tante ne ha subìte, ma ammaccata risponde, atterrata risale, prostrata risorge, un’Italia che rimbalza, con tenacia e senso del futuro[37]. Dopo la Resistenza, un’Italia nata, o rinata, dalla resilienza.

La lotta politica in Italia, per dirla con il libro famoso di Alfredo Oriani, si è spesso atteggiata a lotta fra il bene e il male, presunto bene o presunto male, mentre, come ci insegnano anche i classici della letteratura (Stendhal), dovrebbe essere semplicemente una scelta fra il preferibile e il detestabile. Allora preferibile il Renzi o detestabile? La sua mobilità verbale, la sua schiettezza (apparente), sono davvero spiazzanti. Ricorre all’occorrenza a un camaleontismo linguistico-espressivo che plasma frasi derivate da altre matrici ideologiche ma utili in quel momento retorico a fare il suo gioco di premier giovane e combattivo. Un premier espressionistico. Così, pur essendo un europeista convinto, commentando in Senato la solitudine dell’Italia nell’arginare l’immigrazione dal Sud del mondo, quasi fosse un leghista, ha gridato in un pomeriggio d’estate davanti all’aula che vorrebbe estinguere e rottamare: «Tenete la vostra moneta, e noi ci teniamo i nostri valori»[38]. I nostri valori? E cosa c’entrano con la moneta? E a chi rivolto quel “tenete”, se non ai suoi partner abituali di Bruxelles, incontrati e omaggiati il giorno prima? Un “tenetevi la moneta” assolutamente inapplicabile. Mentre si dichiara impavidamente di voler suonare le proprie campane. Una scena, dunque, e una scenografia. I linguisti a questo proposito teorizzano il cosiddetto contatto fatico, una modalità interiettiva, solo espressiva, puramente esclusivamente verbale.

Fin qui abbiamo solfeggiato sullo spartito del renzismo neoepico. Ma esiste già collaudato, e in queste ore (28-31 luglio 2014) a duro cimento fra risse diurne e notturne nell’aula del Senato, dove il governo è andato sotto ed è stato evocato lo spettro della carica dei 101 franchi tiratori che impedirono a Prodi di salire al Quirinale, il renzismo come metodo, catalogato e analizzato in apposite trasmissioni televisive[39]. Renzi lascia ai suoi (alla ministra Boschi) la difesa delle barricate e s’inarca nel frattempo a statista. Perché il conflitto istituzionale sembri una bega, l’espressione caotica della casta in disarmo (l’è cum’è una repubblica, ha scritto Mauro Magatti rievocando un suo antenato monarchico)[40].

«In Italia è andata bene. Nel resto d’Europa vincono i movimenti di destra […] Da noi stravince Renzi […] La differenza è abissale», è il ponderato commento di un filosofo della politica[41]. Ma non mancherà in seguito l’antirenzismo robusto e anche livoroso del suo principale antagonista, l’attore ex comico, Beppe Grillo, da Genova, il simbolo dei valori non negoziabili (per quanto già in fase di negoziazione), il quale ha rivolto e continua a rivolgere al suo più giovane avversario i peggiori epiteti (dapprima in vista delle elezioni europee del 25 maggio, del cui esito favorevole a Renzi ha poi dovuto prendere atto).

È corso in soccorso, pronosticandolo vincitore («coraggioso e combattivo. Vincerà le Europee»), il socialdemocratico Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo e aspirante presidente della Commissione esecutiva (bocciato alle elezioni, è uscito per ora di scena, ma vi è tornato come Presidente del stesso Parlamento)[42]. Qualche siluro gli è venuto anche dall’interno, intra moenia, quando un cantante rock fiorentino, Piero Pelù, ha sparato da un palco romano del 1 maggio che Renzi è il boy scout di Licio Gelli, l’aretino massone deviato. In quel caso si è riproposto agli osservatori l’antico odio che fiorisce naturale intorno al bel San Giovanni e che già dettò l’umana Commedia di Dante. Alle accuse il nostro ha risposto serafico nel corso di un’intervista di essere stato allevato dal padre zaccagniniano della sinistra Dc nel culto della partigiana Tina Anselmi[43]. Un perfetto contropiede: a Gelli si risponde con Anselmi, la sua nemica.

Renzi, sveltissimo per costituzione, si è abituato a ribattere colpo su colpo come in un ping pong. Consapevole di come le parole in Italia siano sindacalizzate e protette, come categorie sociali, e non abbiano libero corso, neppure per metafora, già ha mostrato di saper cavalcare questo ipercorrettismo etico. Così, quando il senatore Corradino Mineo, che gli si è opposto sulla riforma del Senato, gli ha dato del ragazzo autistico, Renzi ha avuto buon gioco nel dire seraficamente: se la prenda con me ma lasci stare quei poveri ragazzi e le loro famiglie. E Mineo, colto in fallo, si è scusato. Se gli avesse dato, che so, del camionista, i trasportatori si sarebbero ribellati e anche la Cgil li avrebbe difesi. Il nostro Paese è una scenografia del teatro di Molière dove si recita continuamente il Tartufo e l’ipocrisia impera sovrana (come il debito).

La punta del discredito, piuttosto impressionante per la modalità di convinzione con cui è stata espressa in una confidenza fuori onda, l’ha raggiunta l’ex sindacalista Fiom torinese Giorgio Airaudo, deputato di Sel, il quale ha così scolpito un ritratto di Renzi: «È spregiudicatissimo. È un democristiano digitale, ha la capacità di cogliere l’attimo, è velocissimo. Ma è quasi solo quello. Io non gli girerei mai le spalle, non gli darei mai il portafoglio. È un delinquente politico.»[44] Non so se Airaudo, che in quello stesso contesto, commentando una telefonata di Nichi Vendola ad Archinà sul caso Ilva di Taranto, aveva definito il governatore pugliese non un politico ma un “poeta sociale” (azzeccando in pieno, questa volta, la fisionomia di discorso di questo inconcludente erede del pasolinismo), avesse ricordato, quasi una citazione, che delinquente politico era stato riservato da José Saramago a Berlusconi, premier in terra di mafia, omologo e omeopatico alla criminalità: «nella terra della mafia e della camorra che importanza può avere il fatto provato che il primo ministro sia un delinquente?». Il libro s’intitolava Il Quaderno, e suscitò qualche nervosismo nell’Einaudi mondadoriana, che infatti lo rifiutò[45]. Come si vede, Italia come Chicago, dove a qualcuno piace caldo.

Un noto attore teatrale Alessandro Haber, che ha interpretato alla Pergola di Firenze dall’11 al 16 marzo 2014 Una notte in Tunisia, per la regia di Andrée Shammah, testo teatrale sulle sfortune del potere, scritto da Vitaliano Trevisan, nella fattispecie caduta ed esilio di Bettino Craxi, ha commentato che l’esule socialista aveva duramente scontato nella solitudine di Hammamet la sua colpa consistente nel finanziamento pubblico al partito, mentre oggi i politici illecitamente si arricchiscono rubando per sé. Colto al balzo un possibile oracolo sul presente e futuro politico del Premier, su ascesa e potenziale caduta di un leader, interrogato su Renzi, Haber ha risposto: «Diamo fiducia a questo ragazzo, forse è la nostra ultima salvezza. E poi è un grandissimo attore.»[46]

Un notista politico ha osservato che la sinistra dalemiana, quella cresciuta a togliattismo e storicismo dialettico, spocchiosa e perdente, ma sempre pronta a impartire lezioni, prima e dopo il Muro, ha ritenuto inizialmente che Renzi da Firenze fosse come regista «un Pieraccioni buono al massimo a guidare una squadra parrocchiale», a fronte di un ceto politico attrezzato come l’Ejzenstein della corazzata Potemkin: «Per questa sinistra, Renzi è sempre stato una piuma, un palpito, un fenomeno marginale e passeggero, un leader assolutamente inadeguato alla ricostruzione di un’egemonia nel Paese.»[47] Un’analisi del renzismo è stata fatta da Vittorio Sermonti e Pietrangelo Buttafuoco in termini generazionali. Lo scrittore siciliano lo ha definito un giovin astro (in ascesa) ma che suonava anche come giovinastro, bullo. A entrambi il tipo non piaceva, ma al dantista Sermonti l’antipatia era per certi aspetti una garanzia, visto l’esito catastrofico di altre sue simpatie politiche[48]. Al quadro del renzismo aggiungiamo un altro colore, tipicamente toscano, un noir di marca labronica. Mentre nel corso di un’intervista a una tv locale, Renzi si commuoveva o faceva finta di farlo al suo prossimo ritorno a Palazzo Vecchio per chiudervi la campagna elettorale, Livorno, dove pure era atteso, in che modo anticipava la sua venuta in città? Sui muri della Venezia era apparsa una foto del Matteo nazionale e la scritta in profondo rosso: Il mostro di Firenze[49]. «Il Vernacoliere», opinion leader in città, ha poi battezzato la vittoria del sindaco grillino[50]. Così è se vi pare[51].

In questa sede, prima d’inoltrarci in una sia pure succinta analisi del personaggio, del capitolo Matteo Renzi nella storia della Firenze contemporanea, poiché si tratta della più eclatante novità espressa da Firenze negli ultimi decenni, mi occorre raccontare un episodio marginale, ma significativamente legato alla nostra cultura cittadina e al nostro lavoro di studiosi nelle istituzioni della città. Matteo Renzi, nell’ottobre scorso (2013), inaugurò il convegno internazionale su Vasco Pratolini nel Salone dei Cinquecento. Disse parole generiche, ufficialmente congrue. Poi, a passi falcati, già presidenziali, seguito dallo staff arrancante che gli correva dietro, se ne andò, ma non è questo il punto. Lo fanno tutti, sindaci e assessori, dopo aver celebrato messa sull’altare della cultura, non vedono l’ora di sparire e lasciarla alla genia mal sopportata dei professori, così come la materia e l’ufficio della morte la si lascia volentieri ai necrofori, che hanno il fisico e l’abito del ruolo. Quello che voglio dire è però un’altra cosa, e riguarda nello specifico la modalità tutta renziana d’incrociare in quell’occasione il cronista dei “poveri” (e sottolineo poveri) amanti. Modalità che definirei circospetta se non sospettosa, prudente, politicamente consapevole, sottilmente antagonistica. In che senso?

Mi sembrò di cogliere che il primo cittadino, visto che c’era in agenda, si era indotto a parlare di Pratolini e della sua gloria letteraria con persuasione istituzionale (che avrebbe dovuto fare il sindaco di Firenze?), ma facendo attenzione a non mandare il messaggio del pratolinismo come nostalgia dei quartieri, dei vicoli, dei poveri e belli, delle trippe all’Arco di San Pierino, dell’operaismo puro e duro, magari anarchico e intransigente. Insomma sembrava che il sindaco dicesse agli astanti - i compunti studiosi riuniti a celebrare fra i quali forse fiutava un residuo di comunismo postsessantottesco - non fate di Pratolini, o con la scusa della sua opera, un’apologia della città com’era, perché io ne ho in mente un’altra, e quella com’era non mi è mai piaciuta, o solo nelle favole che da bimbo (cioè ieri) mi raccontavano. Dopo poche ore, quando nella sala Ferri del Vieusseux assistemmo al documentario di Caterina Mangini sulla Firenze di Pratolini, dove imperava il brand della semplicità e di nuovo della povertà, tute, e osterie, e dopolavoro operaio, e renaioli sull’Arno, schiantati dalla fatica, fu chiaro che di quel mondo il sindaco-presidente, naturalmente assente alla cerimonia del ricordo, non avrebbe saputo che farsene.

Matteo Renzi, con l’accelerazione vertiginosa della sua stessa ascesa, ha risvegliato dal dolce coma del suo benessere una città abituata a ben diversi ritmi, ma soprattutto avvezza a criticare rosicando dalla sua fortezza di Palazzo Vecchio un potere che è da oggi, 22 febbraio 2014, la sua diretta municipale emanazione. Dalla città più felpata e conservatrice d’Italia, dove ciascuno ha la sua loggia, ciascuno è il massone di se stesso, è venuto fuori questo “discolo” del potere. L’impressione soggettiva di chi scrive è che l’accelerazione al potere del trentanovenne Renzi non sia da leggersi però solo in una chiave di personale ambizione, come pure si tende a fare per l’ostentata sicurezza del moto ascensionale e il disprezzo delle regole di buona creanza, partitica e di consorteria. C’è chi ha notato (Francesco Merlo su «Repubblica» TV) che Renzi e Letta, nella cerimonia di passaggio delle consegne (la campanella), si sono odiati e che l’odio schietto potrebbe essere meno venefico di quello adulterato o confezionato di rispetto. Non sapremmo pronunciarci in proposito, né aggiungere altro odio al malessere che sta fermentando in Italia mi sembrerebbe buona cosa. C’è chi ha evocato il colpo di Stato, entrato ormai stabilmente tra le procedure di una democrazia senza elezioni né rappresentanza[52]. Quello che è certo è che Renzi ha mostrato (e sta mostrando in queste ore, mentre scrivo, 24-25 febbraio 2014) di sapere resistere a situazioni psicologicamente ardue (come in questo momento, in TV, l’odio manifesto dei senatori costretti a votarlo per disciplina di partito, o di molti senatori nei suoi confronti, del bullo strafottente, al potere, con la metà dei loro anni). Sì, è anche una questione d’età, la giovinezza del Magnifico Lorenzo che va presa per il collo prima che dilegui[53].

Tuttavia sarebbe riduttivo un quadro puramente personalistico. Renzi è indubbiamente una personalità che mostra in eccesso l’ambizione in un paese dove di solito la si tiene coperta, per sfoderarla nei modi obliqui in cui eccellono i sicari: «Si sa com’è andata: la volgarità dell’ambizione ostentata ha trasmesso un sapore autentico»[54]. È arrogante in modalità addirittura plateali, studiate e recitate come tali. Ha imparato sguardi e movenze di fronte alle telecamere e alla selva dei microfoni, da Craxi a Berlusconi. Ma è più simpatico di loro. Più innocente (ancora innocente). Inoltre ama il potere in maniera netta, e fanciullesca. Probabilmente (a meno di sorprese nelle quali non credo) non ama, né amerà, i soldi, di cui i primi due sembravano, specie il secondo, perdutamente invaghiti. Come Obama preferisce la camicia senza giacca. Non ha niente delle antiche segreterie sacrali della sinistra comunista (e infatti è democristiano). Destra e sinistra sono rivisitati dal Renzi ideologo con un manifesto piuttosto elastico che affianca adesso con celere operazione editoriale il vecchio testo di Norberto Bobbio: «la parola “sinistra” come un laboratorio, sempre in trasformazione, sempre ineludibile. Una frontiera, non un museo. Curiosità, non nostalgia. Coraggio, non paura.»[55] C’è lui in quelle parole: frontiera, curiosità, coraggio (e sogno). Lui, il sindaco della città dei musei, che i musei non li ama. I modelli: Bill Clinton e Tony Blair per evitare Scilla e Cariddi (Guelfi e Ghibellini, altro retaggio fiorentino). Dato il magma attuale, la diade uguaglianza-disuguaglianza non gli appare più così nitida e la sostituisce con quella conservazione-innovazione. Altri mentori teorici: Ulrich Beck e Amartya Sen. È un affabulatore: «Serve una narrazione temporale, dinamica, più ricca.»

«Spietatamente giovane», lo ha definito Ilvo Diamanti[56]. In un paese aggressivo, con «una venatura paranoica» (Claudio Mencacci), abitato da vecchi ma non per vecchi («How Terribly Strange To Be Seventy», com’è terribile avere settant’anni, in Old Friends cantavano Simon and Garfunkel), tranne per la quota di gerontocrazia ben salda al potere, sì che quando un giovane emerge, in virtù dell’odio che tale gerontocrazia dominante suscita, si prende il banco e il fatto dell’appartenenza generazionale può premiarlo oltre misura e merito[57]. Perché non c’è nessun merito a essere giovani, ma più energie, e riflessi più pronti, e i riflessi politici del Renzi sono da olimpionico. Uno squilibrio italiano, dai tempi della primavera di bellezza (giovinezza, giovinezza), mito su cui Renzi pure si è giocato la sua partita, mostrando una fretta strategica finalizzata a non superare i quarant’anni prima del gran battesimo del potere. Un barbaro - lo ha detto il suo vicesindaco Dario Nardella - tornando a Firenze come reggente, poi sindaco a pieno titolo, e suo portavoce televisivo. Barbaro, aggettivo malapartiano, da Italia barbara, il libro edito da Gobetti.

«Quando penso a Matteo Renzi - ha scritto Sebastiano Vassalli - penso a Pontassieve», alla sua pieve e a Ernesto Ragazzoni, autore della filastrocca Ciclone in Toscana[58]. Ghe Renzi mi, suonava la versione meneghina dell’uomo provvidenziale. Un investitore internazionale, il bolognese Alberto Forchielli, fondatore di Mandarin Capital Partners e di Osservatorio Asia, casa in Pacific Place nel centro di Hong Kong, uno di quei manager che raccolgono i denari dei fondi pensione in giro per il mondo, e parlano della Cina come fosse la frontiera di Chiasso («io sono uno che ha ribaltato il mondo»[59]), ha detto in una trasmissione televisiva che il ragazzo ha culo[60]. Né La Rochefoucauld né Kraus avrebbero potuto coniare aforismi più succinti, luccicanti, veritieri. Sì, il ragazzo ha culo, e si sta diffondendo, tipico del bel Paese, un culto di quell’avere culo. Culto del culo. Attenzione: la frase è delicata. La diagnosi fu prontamente quanto sostanzialmente accolta da tutti gli astanti.

Giovanni Sartori, fiorentino e politologo illustre, nel corso di un’intervista, ha perfezionato la definizione neopascoliana di fanciullino (senza gravitas, peso politico), e la categoria di «velocismo», che sostituisce quella avanzata da altri di decisionismo[61]. Commentando l’ostentato presunto trionfo del primato della politica, di cui il renzismo dovrebbe essere l’epifenomeno, Giuseppe De Rita ha sostenuto che siamo un sistema eterodiretto dall’esterno e quindi «il primato della politica resterà un ballo solitario, e di puro spettacolo.»[62] Corrado Guzzanti l’ha messa sul piano cosmico, dettando un twitter di questo tenore: Renzi ha abbassato le tasse. Il fenomeno sarà visibile per qualche minuto anche in Italia verso la mezzanotte[63]. Un’intera puntata di una trasmissione d’approfondimento, Bersaglio mobile, gli è stata dedicata: il punto su cui convergeva l’ammirazione unanime (Carlo Freccero, Bruno Vespa) era il talento del comunicatore; la preoccupazione, pure aleggiante e condivisa, se dietro il vestito ci fosse un corpo (Ferruccio de Bortoli)[64]. Conte Mascetti della supercazzola, e bugiardo seriale, è stata un’altra delle attribuzioni elargitegli dal giornalista Andrea Scanzi[65].

La cultura di Renzi, liceista al classico Dante di Firenze, laureatosi in Giurisprudenza nel 1994 con una tesi su Giorgio La Pira sindaco di Firenze, scout per tradizione di famiglia[66], cattolico popolare e segretario dal giugno 1999 del PP fiorentino, partito allora guidato da Franco Marini, si esprime in termini assertivi e sloganistici, e quando ricorra a paragoni, allora vuole esplicitamente ricondursi a fonti non solo libresche, che vistosamente teme convinto che spaventino l’uditorio. Enrico Berlinguer, di cui ricorre il trentesimo anno dalla morte sul campo della politica, poteva parlare di Benedetto Croce (conosciuto a Salerno nel 1944) e individuare in Vico il momento in cui nella storia del pensiero si sarebbe verificato uno scarto, una frattura tra filosofia e scienza, all’origine delle due culture in Italia[67]. Come Gramsci, come Togliatti, era un intellettuale. Renzi non è un intellettuale, è un uomo d’azione (secondo la sua dizione, uomo del fare). Ha in uggia gli intellettuali in quanto tali, gli interventisti (specie quelli che lo contraddicono), e ritiene il prestigio intellettuale (professorale) una delle rendite di posizione da rimuovere (troppo brutto il termine che lui ha coniato). Gli intellettuali, scrittori, accademici, opinionisti, sono categoria giustamente sotto tiro per la loro vanità e l’amministrazione quasi esclusiva del proprio tornaconto di immagine: «Piffero si è messo in proprio, suona per sé»[68]. Il suddetto confronto, con l’ultimo dei capi carismatici della Sinistra, stante anche lo stato autistico dei chierici, non è fatto per marcare polemicamente, ciò che non avrebbe senso, un deficit ma per osservare la diversa formazione di una leadership in uno stesso partito in evoluzione. La cultura di Renzi è contesta di fonti condivise, di massa, per grandi e piccini.

Un suo discorso continuo verte sulle scuole, dove i suoi e i nostri figli trascorrono il maggior numero di ore della loro prima vita. Scuole che dovrebbero tornare a essere belle, da cadenti e decrepite quali sono nella realtà, magari ricamate da un intervento di Renzo Piano[69]. Questo è uno dei momenti in cui il linguaggio insegue il sogno. I sogni in politica, sono come le emozioni. La filosofa americana Martha Nussbaum, presentando in Italia il suo bellissimo libro Political emotions. Why love matters for Justice (tradotto nel 2014 dal Mulino: Emozioni politiche. Perché l’amore conta per la giustizia), ha avvertito il pubblico di Bologna (presenti nell’Aula Magna Prodi, l’ex ministro Saccomanni e il governatore Visco) che il sogno, le emozioni, se non sono ben calibrati, possono avere effetti retrattili insidiosissimi, e che «certo, la speranza, il desiderio sono nocivi in assenza di competenza e buone politiche». Anche Roosevelt sarebbe andato a ramengo senza una squadra di economisti e di tecnici. Insomma, guai a sognare a vanvera, e occorre temere i sogni solo se non portano doni. Ma per Renzi il sogno è un metodico correttivo dell’arido vero (Istat, BCE, Moody’s). A una televisione locale cui è affezionato, ha detto in una intervista estiva dal Forte dei Marmi che Firenze sta tornando a sognare e non per merito del premier ma perché sono finiti gli anni in cui rimpicciolivamo i sogni (così a un di presso)[70].

Torniamo alle scuole. L’architetto planetario, divenuto senatore a vita, e nel frattempo reclutato, per l’articolo apparso su «Il Sole 24 Ore» il 26 gennaio 2014 Il rammendo delle periferie, fra i temi e i pensamenti degli esami di Stato (18 giugno 2014), non ha declinato - s’immagina per buona creanza - l’implicita e fiabesca offerta, ma l’incredulità in una possibile committenza è stata pressoché totale. Poi sono arrivate le cifre e le statistiche che sono le grandi nemiche dei sogni, e dei discorsi onirici che piacciono al premier. Un rapporto del Censis, Diario della transizione, sullo stato dell’edilizia scolastica, reso noto il 31 maggio 2014, ha decretato in centodieci anni il tempo necessario per aprire e chiudere cantieri di restauro o di rinnovo del vetusto patrimonio. Le cifre, le stime le statistiche sono l’ostacolo del dover essere, del dover fare. E intorno ai numeri, all’econometria matematizzante, l’oratoria di Renzi, dopo che dall’Istat fu decretata la recessione tecnica e Draghi dalla sua torre banchiera chiosò con la necessità di cessione da parte degli Stati di quote di sovranità nazionale, è apparsa contorta fino a rimembrare ai più anziani teologismi dialettici di prime primissime repubbliche dorotee[71]. Il suo meglio Renzi lo dà altrove, quando gli viene offerta, negli spazi mediatici ludici e lietamente ruffiani, facoltà di parabola e invenzione. Ormai gli si riconosce una facoltà miracolosa, quella di salvare i talk show, specie se decotti e screditati, della televisione italiana. Nel corso di un’intervista a Mago Fazio, guru della specie “Sinistra” in evoluzione transgenica, Renzi ha citato Disney, a proposito delle date e del loro impiego metodico da parte sua, per spiegare la ragione per cui i provvedimenti di governo, dalla legge elettorale all’abbattimento delle tasse per le famiglie, vengano sempre da lui ancorate a una data precisa. Il padre di Paperino soleva dire che una data è quell’elemento che distingue un progetto da un sogno. E giù applausi[72].

In un’altra trasmissione, Bersaglio mobile, dialogando con Mentana, un Renzi già affaticato e in debito di argomenti ha rivelato che una delle motivazioni che lo convinsero a iscriversi a Giurisprudenza fu il sacrificio di Falcone e Borsellino (23 maggio – 19 luglio 1992). Un facoltà, simbolo dunque di un non più differibile anelito alla giustizia[73]. Tutto il suo lessico è parte del copione virtuoso e delicatamente compunto in cui noi italiani eccelliamo. La materia è la banalità del bene, i morbidi condoni che ci concediamo: navi della legalità, bandiere e bandierine sventolate nei giorni comandati al ricordo, e una corruzione e criminalità endemiche che semplicemente e brutalmente se ne fottono. Unicuique suum, come recita l’intestazione dell’«Osservatore Romano». Maurizio Crozza, editorialista satirico delle tv di Urbano Cairo, ha attribuito a Renzi una consonanza programmatica con la testata del noto periodico della moda internazionale «Vanity Fair», che, declinato al renzismo, suona come «Vanity fare». In seguito Crozza ha creato l’antitesi, paradossale più che comica, di un leader del partito della Sinistra che è a destra e di un papa di una curia di destra che è a sinistra e si batte nelle vertenze sindacali (con Meridiana compagnia aerea in crisi affronta il regno dei cieli). Susanna Camusso leader della CGLI non lo sa e crede che ci sia ancora Pio IX[74]. Ugualmente Maurizio Landini, leader della Fiom, è rimasto fermo al western sindacale di ombre rosse. Questo il quadro comico del dramma. A proposito del “velocismo”, come marca distintiva del renzismo, Crozza ha riadattato una strofa della canzone degli Whem, Wake me up before you go go, affidandola come a interprete ideale al “suo” Renzi, fresco vincitore delle primarie: «Li ho stesi tutti perché sono smart, io sto al traguardo e loro ancora allo start, e sapete perché?, perché per primo io sono pazzo di me... Mi fingo nuovo, mi fingo cool, D’Alema ha un tris, ed io ho un full, dai compagno, non far così, a cosa può servire ormai il PD?»[75]. L’educazione Mediaset, nel corso della irresistibile vocazione politica di Wilhelm Meister - Renzi, è stata puntualizzata da Maria Latella, nota giornalista del coté Veronica Lario, durante un altro esame televisivo del renzismo. Affinità elettive di formazione nel passato unirono inconsapevoli l’uno dell’altro Matteo Renzi e Pier Silvio Berlusconi: mentre l’erede Mediaset frequentava Drive in, con le sue statuarie ballerine, il futuro premier, diligente e parsimonioso, partecipava alla Ruota della fortuna di Mike Bongiorno[76].

Rendere la politica bella in tutte le sue forme. Come anche predicano i testimoni di Renzi (variante, secondo il vangelo di Crozza, del Geova che suona ai nostri portoni la domenica mattina)[77]. La bellezza della politica fu il mantra di Veltroni, ormai ridotto a celebrare nozze da favola nella Venezia che morta rivive di catering miliardari. Anche questa venustà politica (non solo), la mission di Renzi, secondo la conduttrice televisiva Simona Ventura e la politologa Elisabetta Gualmini, ospiti della trasmissione La bellezza al potere[78]. Il contesto in cui si inseriva questo confronto era l’imminente, e sulla stessa rete, finalissima di Miss Italia, dalla quale la Gualmini si è augurata che non uscisse un nuovo ministro per il governo Renzi. Allora, tutta qui la cultura della generazione al potere? Giuseppe Civati, un compagno della dura vigilia Leopolda, ha scritto un libro, dove diverso è lo stile e d’altra matrice le citazioni. Anche se lo schiacciamento televisivo a cui il Pippo secessionista di buon grado si sottopone, minaccioso e inconcludente, lo logora giorno per giorno: «filosofo brianzolo prestato al web e alla politica. Specializzato nel dire qualcosa di sinistra ma fortemente indiziato di fighettismo mediale»[79]. Premesso che il debito pubblico, da cui siamo oppressi, dovrà essere compensato dal credito pubblico che la generazione nuova dovrà conquistarsi, Civati ha raccomandato di cogliere l’attimo fuggente (il carpe diem oraziano, tradotto nel film di Peter Weir, Dead Poets Society del 1989) ma anche, diversamente da Ovidio che non confidava nel futuro, il carpe diem dovrà disporsi a incontrare auspicabilmente anche un futuro migliore. Sperarlo quel futuro, almeno sperarlo. A proposito di generazioni, questa la sua analisi: «Purtroppo in Italia, per usare una metafora, è Anchise a portare sulle spalle Enea mentre la città brucia (un’immagine che fa pensare alla fuga verso una terra promessa che non è la nostra). Non il contrario, come sarebbe naturale.»[80] Detta con proprietà di echi classici, la crisi italiana è disegnata come una Troia combusta da cui prendere il largo. Ma intanto Pippo si brucia nei talk show.

Il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, intervistato dal quotidiano «Il Fatto», ha affermato che il renzismo è un maquillage (giovanilistico) della casta, quella che un tempo era stata battezzata la razza padrona[81]. Lo stesso Zagrebelsky, insieme a Stefano Rodotà, ha attaccato Renzi sullo smantellamento del Senato come seconda camera elettiva. Il costituzionalista ex garante è molto critico nei confronti di una leadership a deriva plebiscitaria, criticatissima, e demolita per i risultati deludenti e per ombre massoniche, anche da un editoriale del direttore del primo giornale italiano[82]. In dialogo con Luciano Canfora, esperto di tirannidi antiche e moderne, ha sviluppato sistematicamente la deriva oligarchica presente[83]. La risposta - la reazione - è stata improntata a un manifesto fastidio per quello che una volta fu detto (da Scelba) il culturame: non ho giurato sui professoroni, ha risposto Renzi. Gli ha dato man forte sul punto Ernesto Galli della Loggia, aggiungendo alla schiera dei professoroni-contro Roberta De Monticelli e Salvatore Settis[84]. L’editorialista del “Corriere” ha insistito nell’identificare il nemico interno di Renzi: tutto l’apparato a rischio di rottamazione, dalla burocrazia al sindacato, le cricche parassitarie che vivono ingegnandosi a sopravvivere tra i gangli della pubblica amministrazione[85]. La questione della polemica con i professori-professoroni (le star degli Atenei, reclutati dai media, i professori ex ministri d’incredibile spocchia[86]) riguarda il rapporto fra gli intellettuali e il potere, che potrebbe ambire al suo massimo grado a dare forma e perfezione alla polis, se la politica fosse davvero filosofia applicata, e che invece si è andato tecnicizzando in una competenza di settore, la competenza e la consulenza dell’esperto, avocata a sé dal potere e impiegata appunto come competenza senza critica[87]. Intellettuali sconnessi (dalla critica) e connessi, via marketing, alla sola comunicazione. Quando si manifesti la critica, scatta il fastidio e l’iperbole della pedanteria penalizza l’intellettuale fin nel nome (professoroni[88]). Uffa, che noia.

Eugenio Scalfari, lo storico della razza padrona fin dagli anni Settanta, che pure non lo ama, non sentendolo suo discepolo, e ne patisce vistosamente il gap di età, ma non fa che scriverne, ha cominciato a posizionarsi di volta in volta, editoriale per editoriale, in un giro intorno a Renzi e al suo volto politico prismatico. Si sa come si muove il Fondatore: dove sia il centro, lui lo occupa. Papista militante, miscredente sempre più devoto e francescano ad honorem, ora pratica un renzismo metodicamente scettico. L’editoriale di Pasqua, intonato alla resurrezione e all’amico pontefice, sua ultima scoperta, portava un titolo possibilista: Questa volta il premier mi piace ma….[89]. Un editoriale successivo sentenziava: «L’attuale presidente del Consiglio è, come più volte ho detto, il figlio buono di Berlusconi, il principe dei seduttori; i programmi vincolati alla coerenza non sono il suo forte.»[90] Infine, a un passo dalle elezioni europee, ha preso netta posizione con una esplicita dichiarazione di voto: «I lettori mi perdoneranno questa lunga ma indispensabile premessa. Indispensabile perché ora debbo infatti dire agli elettori che rappresentano la parte responsabile del Paese e che mi auguro siano una cospicua maggioranza del corpo elettorale, che debbono a mio avviso votare per il Pd e quindi per Matteo Renzi che ne è il leader. Naturalmente il mestiere che faccio mi impone di dimostrare il perché di questa esortazione ed è quanto ora mi accingo a fare.»[91] Dopo il trionfo elettorale, Scalfari è tornato al suo lavoro di commento e Renzi è stato descritto come un pifferaio magico di Hamelin che forse anche l’Europa ci invidia[92]. In seguito, dopo i vertici europei, in cui Renzi ha mostrato le sue arti diplomatiche, di durezza e sorrisi nel trattare con la Germania e nel silurare la candidatura di Letta al vertice dell’Unione, così il giornalista-filosofo, dopo avere meditato su Montaigne e Nietzsche, si è di nuovo espresso problematicamente sull’ontologia renziana: «Un vero fico che la sorte ha regalato all’Italia e - diciamolo - al Partito socialista europeo e all’Europa intera. Però... »[93]. Ma le cose da ultimo non sembrano mettersi al meglio, e Scalfari ha ondeggiato nel giudizio ma il lieto fine è assicurato: «Non mi sembra che per il governo italiano le cose vadano così bene come ci si aspettava e come Renzi e la banda di musicanti che accompagnano il suo piffero ci avevano fatto intendere. Non sembra a Bruxelles e neppure a Roma, tanto che lo stesso nostro presidente del Consiglio ha detto: “Attenzione. O le riforme andranno a buon fine nel tempo e nei modi giusti oppure io me ne andrò”. Non è un bel modo di ragionare… Resta il tema dell’Europa. In quello Matteo è bravissimo, personalmente confido che risolverà ogni cosa nel modo migliore rispetto agli obiettivi da ottenere.»[94] Infine, commentando la battaglia intorno al Senato per il monocameralismo e i rischi d’autoritarismo: «Fanno tutti bene ma attenti perché con tutti questi divieti, a volte chiamati ghigliottina e altre volte tagliola senza che sia chiara la differenza tra quelle due parole, l’autoritarismo rispunta inevitabilmente. Rispunta non perché qualcuno lo voglia ma perché se ne creano le condizioni. Se parla e decide solo il capo, la democrazia dov’è?»[95]. Il tema del pifferaio piace al fondatore e la sua narrazione continua ogni domenica, si intreccia a ricordi, a memorie di personaggi del tempo che fu, di cui fu buon amico, Guido Carli il pilota della miracolo economico e Gianni Agnelli, l’avvocato di panna montata. Dovevo darla quest’ultima connotazione, perché si comprenda quanto segue: «Oggi ci troviamo di fronte ad un abilissimo Pifferaio e ad una deflazione dalla quale solo Draghi potrà salvarci. La frase per definire il crollo della domanda, usata nei circoli finanziari è: il cavallo non beve, ed è appunto quanto sta accadendo. Perciò non vi stupirete se quest’articolo, accoppiando due immagini fortemente connesse con la realtà che scorre sotto i nostri occhi, è titolato: “Il cavallo è assetato, ma non beve panna montata”. Spero che sia chiaro il suo significato.»[96] La delusione intanto monta, come la panna: «È un artista della comunicazione come scrive Ferrara, io lo definirei un seduttore come Berlusconi, ma tutti e due si credono statisti e questo è il guaio grosso del paese.»[97] Intanto l’Europa, e la sua temibile commissione (il mastino Katainen), macinavano la propria agenda e mettevano nell’angolo quella di Renzi. Il riferimento è al vertice europeo che si è svolto a Milano nel week end di metà settembre 2014. Renzi era andato al sud in quella occasione ed era stato contestato per l’Ilva di Taranto. Scalfari commentava nell’editoriale dal titolo eduardiano (O presepe nun me piace): In casa Cupiello il presepe di Renzi piace a pochi[98].

Lo abbiamo visto ispirarsi anche a un poeta satirico antiaustriaco come Giuseppe Giusti. Un precedente editoriale era ispirato a Trilussa. Sulla questione del Senato non l’ha seguito e ha descritto nel rampantissimo e spericolato acrobata: «una tendenzialità autoritaria estremamente rischiosa specie in tempi di partiti personalizzati.»[99] Quanto all’abbassamento delle tasse, questo il commento improntato alla tradizione italiana del melodramma: «Renzi promette ed è utile che lo faccia per conquistare consensi in vista delle imminenti votazioni europee, ma affinché quegli annunci si trasformino in fatti concreti ci vogliono mesi e spesso anni come del resto ha avvertito il nostro ministro dell’economia Pier Carlo Padoan. “In povertà mia lieta, scialo da gran signore” dice il protagonista della Bohème a Mimì. Non vorremmo applicare questa parola al nostro presidente del Consiglio, ma il rischio c’è e non è affatto da poco.»[100] Dapprima ne aveva fatto un paragone calcistico, e lo aveva paragonato a Mario Gomez, un giocatore tedesco bravo sì - almeno così si dice nell’ambiente - ma fragile e sempre in panchina per infortunio[101]. In un editoriale antifrastico, in memoria di Berlinguer nel trentennale della morte, ha scritto che «il nostro è un popolo abbastanza strano: s’innamora più spesso dei clown che dei politici impegnati a mettere il bene comune al di sopra di ogni interesse personale e di partito. Abbiamo tanti pregi, ma questo è un difetto capitale che spiega la fragilità della nostra democrazia e dello Stato che dovrebbe esserne il titolare e il contenitore.»[102] Seguendo diligentemente i suoi editoriali abbiamo verificato un progressivo avvicinamento al personaggio, alla sua energia prorompente, alla sua voglia di successo, al coraggio della sfida, fino, citando il Nenni tribuno che nel giugno 1946 sentenziava davanti alla scelta istituzionale «o la Repubblica o il caos», a pronunciare la frase: «o Renzi o il caos». Dato il dilemma, queste le conclusioni: «Ma la considerazione con la quale concludo, molto personale, è la seguente: se è vero, ed è vero, che il seduttore Renzi è più bravo del seduttore Berlusconi, esiste l’ipotesi che l’eventuale successo di Renzi sui vari tavoli del gioco porti con sé dopo vent’anni di berlusconismo vent’anni di renzismo. Questa ipotesi la considero un incubo. Ma magari piacerà agli italiani che in certe cose sono molto strani.»[103] E ancora, dopo il primo vertice mondiale: «“Yes we can” ha detto Renzi nel suo recente incontro con Obama facendo proprio lo slogan con il quale il senatore di Chicago vinse la sua battaglia per diventare presidente degli Stati Uniti. “Yes we can”, ma che cosa esattamente?»[104].

Il renzismo per ora è una pagina bianca. Personalmente ho trovato suggestiva un’intervista in cui il premier rispondeva solo e immerso nella quiete solenne e minacciosa di palazzo Chigi e diceva che non sarebbe stato prigioniero di quel palazzo. Nel frattempo le telecamere spaziavano intorno sulle architetture del potere e dei segreti della Repubblica[105]. Ma abbiamo notato in corso d’opera che il tipo di intervista è cambiato in fretta. Renzi sa già come non rispondere ai microfoni, avanza su strada senza voltarsi (come Enrico Cuccia), mentre i giornalisti lo rincorrono pateticamente. È accaduto quando gli è stata chiesta ragione su un fatto oggettivamente strano: il sottosegretario plenipotenziario Graziano Del Rio era stato avvistato mentre di buon mattino entrava nella casa dell’imprenditore De Benedetti. Che ci faceva il governo in casa di un privato, proprietario di note testate repubblicane? Renzi ha tirato diritto[106].

Come si vede, la strada è stata aperta a ogni tipo di coniazione categoriale, di valutazione comparativa e quindi di freddura definitoria. Dario Fo, che ha scritto una biografia di Lucrezia Borgia, rivalutandola, nel confronto con la leggendaria presunta avvelenatrice, figlia di Papa Borgia, ha affermato la sua netta superiorità di rivoluzionaria su Renzi, che quindi uscirebbe perdente anche da un confronto con la proverbiale schiatta di scellerati rinascimentali[107]. Il Nobel autorizza ad affermazioni che verrebbero sanzionate da qualsiasi autorità preposta se fossero dette da semplici cittadini. Anche il teatro classico, rivisitato e attualizzato, si è occupato del giovane uomo al potere. Il Teatro d’Almaviva, compagnia fiorentino-senese, con sede ai Rozzi di Siena, ha riproposto Gli Uccelli di Aristofane, dotandoli di un sottotitolo Genesi di una dittatura, con un retrogusto e un avvertimento: «Il nostro dittatore è un giovane che si ritrova d’improvviso tra le mani il potere – ma non è Renzi, quando l’ho scritto pensavo alla gerontocrazia italiana, i giovani rottamatori dovevano ancora arrivare sulla scena» (regia di Lorella Serni e adattamento di Duccio Barlucchi, Flog, Firenze, 25-26 marzo 2014)[108].

Conta il giudizio, anche se ancora impressionistico, della grande stampa internazionale: «Un giovane uomo che va di fretta», ha titolato il suo articolo il «Financial Times» del 18 marzo 2014. Machiavelli avrebbe messo l’accento sulla fortuna, la quota rosa (o azzurra) della fortuna, della sorte, senza la quale non c’è Borgia o Renzi che tenga, fortuna di cui il succitato Forchielli ha invocato da par suo una bella botta nella parte anatomica idonea e addetta a riceverla. La fortuna, questa grande protagonista anche (forse) nell’azzardo odierno: «Se sbagliasse, “rovinerebbe”, ecco un verbo tipico del lessico tragico di Machiavelli.»[109] Lo ha ricordato in un libro intervista un grande studioso del pensiero politico del Segretario fiorentino, analizzato e definito come un pensiero nato nel limo della decadenza e della corruzione, limo dal quale, come da sabbie mobili, Machiavelli sapeva essere molto difficile, e forse impossibile, liberarsi. Ha ricordato altresì che «se sei impetuoso, e la realtà di quel momento richiede l’impeto, se insomma riscontri il tempo adatto alle tue qualità, allora trionfi, Machiavelli dice: “feliciti”.»[110] Speriamo che sia questa la soluzione.

Fosse che fosse la “svolta buona” si augurava una parte della pubblica opinione nel vedere che il prode Matteo in camicia bianca affrontava in conferenza stampa con palese e spavaldo ottimismo cifre e prospetti, promesse e impegni (80 euri in busta paga per il maggio radioso), da fare accapponare la pelle con la tecnica dello slide. La forma della moderna comunicazione che celebra ogni volta il suo tecnico trionfo comunicativo. La svolta buona nel linguaggio dei politologi, che hanno apprezzato l’aver reso definitivamente il PD un partito aperto e il vigoroso dinamismo di un’iniziativa politica che ha contagiato anche la destra mostrando un nuovo metodo di leadership, è diventata la volta buona, il verso giusto[111]. La satira ne ha già fatto, del Renzi da Rignano, residente da qualche mese con famiglia a Pontassieve (la prima grana un appartamento abitato da sindaco in via Alfani), eloquio facile e bullismo da contado fiorentino, inevitabilmente un bersaglio. L’interessato non se ne adonta, sa che la satira premia la popolarità e non è quasi mai vera e antipotere, ed è disposto ad accrescere le dosi della sua arroganza di posizione.

Crozza ha trattato a lungo il personaggio, ne ha colto la voglia di fare, del fare “detto fatto” e “più detto che fatto”, ha incrociato quella smania e quella retorica su alcune questioni millenarie della storia d’Italia. Ne è risultato un elenco piuttosto esilarante di parole-mantra (la cui risultante algebrica è il niente), e di scadenze in calendario, il cosiddetto cronoprogramma: venerdì Renzi porterà a termine la TAV scavando a mani nude nella roccia. Poi costruirà entro sabato la terza corsia della Salerno Reggio Calabria. Domenica sera sconfiggerà la mafia, ma poi la cosa è stata fatta slittare a lunedì per una opposizione in Parlamento. Potrebbe essere annunciata da un momento all’altro e a reti unificate la soluzione della Questione meridionale[112]. Ultimamente ha inventato un pupazzo semovente e ventriloquo e lo ha chiamato Riformino. Il pelouche ha sostenuto fra l’altro che i ragazzi delle scuole minacciate di crollo saranno forniti di caschetti dai molteplici colori: non infrastrutture ma cromatiche sovrastrutture[113]. Da ultimo Riformino prometteva di conquistare Berlino (sempre l’Angela sullo sfondo semitenebroso dell’Europa germanica)[114]. Poi si è messo a stabilire equivalenze con alcune esternazioni di papa Bergoglio sul formato di un’enunciazione che fece scalpore: chi sono io per giudicare i gay? Il Renzi di Crozza afferma: chi sono io per giudicare uno che si masturba in un parco pubblico?[115]. Nel suo settimanale Paese delle meraviglie, oltre che come formidabile venditore di dulcamara e altri specifici circensi, lo ha descritto come un erede biologico-testamentario di Silvio Berlusconi, un ventriloquo delle sue formule vane, condensate in: «Il mio governo sarà uno show bellissimo». Corrado Augias ha coniato la formula di «eredità obliqua»[116]. Il filosofo Cacciari, al solito iracondo con chi non capisce e non sa, ha sostenuto che l’analisi e l’eziologia del comico genovese sono storicamente infondate, poiché il renzismo non è una derivata del berlusconismo, ma una evoluzione autonoma dell’ingegno italico, di quella che un tempo Eco chiamò l’industria del genio italico. Se di vuoto dunque si tratta - e si sospetta che vuoto possa essere (sotto il renzismo niente) - è altro vuoto, altra qualità di vuoto, altra vacuità[117].

Per l’attrice satirica Sabina Guzzanti, Renzi era già in un documento di progetto alternativo del berlusconismo come l’erede, e di nuovo l’ipotesi di un renzismo di schietta genealogia berlusconide ha scatenato le ire esegetiche del filosofo veneziano, che ormai sta in televisione più di ogni altro, ma indignatissimo e quasi sempre di profilo, a nome della casta degli scribi e dei pensatori[118]. Effettivamente il berlusconismo ha fatto scuola almeno nel suggerire la meticolosa costruzione d’immagine che ha portato tre quotidiani («Il Resto del Carlino», «La Nazione», «Il Giorno») a proporre ai propri lettori un volume apologetico Renzi. Nascita e successo di un leader bambino, con in copertina l’immagine di Matteo alla prima comunione, ai limiti della decenza giornalistica[119]. Lui stesso sa trovare le formule promozionali, e se Squinzi di Confindustria e Camusso della Cgil sono la palude, ebbene lui, Renzi, è il torrente[120]. Abbiamo letto anche di una «nuova folata cool portata dal renzismo e dall’iPd (il Partito democratico in versione Apple)» come «apologia della velocità con i suoi corollari: accelerazione, intraprendenza, decisionismo.»[121]

In televisione, dati i tempi, le asserzioni sono destinate a restare tali, a non maturare mai in ragionamenti compiuti, non essendoci margine alle argomentazioni approfondite. Vagano nell’etere coriandoli di definizioni, sberleffi, figure senza testo, come in un libro pieno di immagini senza didascalie. Matteo Garibaldi, secondo Michele Santoro, il taumaturgo di Samarcanda, il quale riciclava una definizione di Tony Blair, mentore di vecchia data del nostro premier[122]. Pitti bimbo o Renzusconi, secondo un fiero e risentito detrattore romano, Roberto D’Agostino, il quale ha insistito nel corso di una trasmissione identitaria sul bullismo fiorentino, del ragazzo di paese, indegno e impari all’ambiente romano, pronosticandone la fine. «Attrattore caotico» è la definizione di Alessandro Amadori, massmediologo universitario[123]. Beppe Grillo, commentandone le visite alle scuole (da Treviso a Siracusa), e i bagni nella tenera folla infantile, folla di innocenti coristi-cantori inneggianti al giovane capo della nazione, ha ricordato per analogia la pubblicità mussoliniana dell’Istituto Luce negli anni Trenta. In un’intervista, la prima concessa a una televisione, ha cambiato linguaggio e metro di giudizio, e ha definito il bambino Renzi «spietato e cattivo»[124]. Quando qualcosa di più di una chiacchiera o di una battuta riesce a depositarsi al fondo dell’informazione, si apprende allora dalle analisi dei giornalisti specializzati (De Vico, Livadotti) che il renzismo, nato dal rifiuto del confronto con le parti sociali, sentito come rituale e obsoleto, si sta profilando come il superamento, “sconcertante”, della cosiddetta politica della concertazione e ha segnato pertanto il passaggio dall’Italia dei sindacati all’Italia dei sindaci[125].

Il renzismo viene preso a modello anche della successione fra le generazioni (quattro in un secolo), e di seduzione della politica (in questo caso è il giovane che seduce dentro le stesse pareti domestiche). Sulla questione che vedeva Renzi sullo sfondo, icona della violenta successione (rottamazione), hanno dibattuto il filosofo Remo Bodei, autore del libro Generazioni, e la giovane autrice Elisa Fuksas, in libreria con il romanzo La figlia di[126]. Renzi sembra far parte di quella generazione Erasmus che sicuramente ha contribuito a svecchiare il paesaggio umano delle esperienze di formazione[127]. Né poteva mancare, per un politico in ascesa dalla terra di Toscana, terra di logge, l’interrogativo su una sua estrazione massonica. Lo si è detto del padre suo, il quale ha smentito. Grillo ha sparato un inverificabile (anche con il DNA): Renzi è figlio di Gelli (figlioccio, ha corretto). Una trasmissione è stata dedicata al Grande Oriente d’Italia e al suo nuovo Gran Maestro, il senese Stefano Bisio, il quale ha escluso (con timidezza) la provenienza[128].

In realtà il trentanovenne premier appare senza rete («ora mi gioco la faccia», la sua prima dichiarazione da presidente; la responsabilità, se falliremo, sarà soltanto mia, ha rincarato nel discorso al Senato il 24 febbraio). Bersaglio di richieste, di speranze, di minacce, di ricatti, di fraternissimi odi. Di responsabilità immani, di assai problematica soluzione. Il volto seriamente macerato e precocemente decrepito del ministro Padoan è il suo ritratto di Dorian Gray, invecchia al suo posto. Duellando con la stampa, Renzi premier rinvia costantemente a documenti ministeriali che faranno chiarezza (come il documento della politica economica, il DEF, previsto per l’8 aprile 2014), ma soprattutto quando è in difficoltà nel rispondere a precise domande, quasi sempre di natura economica (dove troverà i soldi che promette alle buste paga del maggio, problema che pare risolto mentre scriviamo), allora scatta, imperiosamente emozionale, l’appello agli italiani. Li chiama quasi per nome, per categorie, gli italiani che sono babbi, mamme, nonni, insegnanti, ragazzi delle scuole. Loro sono gli interlocutori diretti, non la casta politica da cui fa ogni sforzo per dissociarsi in immagine. E per casta intende non solo i politici ma anche gli intellettuali della costituzione, gli intelletti custodi, rigorosi e probi e critici (i costituzionalisti che gli fanno ombra). Gli Italiani, i poveri e i semplici, sono il gregge di questo giovane pastore. I poveri forse sono più il gregge di un’altra appartenenza, di don Vincenzo Paglia per esempio, che di poveri e povertà si intende sul serio[129]. Sono loro, gli italiani, che ce lo chiedono (prima era l’Europa notoriamente). Quella, del Paese reale, è la sua parete, dove gioca una partita personale: la popolarità, oggi mentre scriviamo molto alta e in ascesa[130].

Ma si sa, le simpatie sono volatili, le ostilità nei suoi confronti sono radicate, destinate a crescere. Il fuoco amico ha ammassato artiglierie da guerra di trincea di lungo periodo. Se cadrà, sarà un bel tonfo che nessuno però si augura. Intanto si è messo a lavorare sul territorio (come si addice a un ex sindaco), oggi (26 febbraio) a Treviso, per assicurarsi una base di consensi, quelli che non vennero dalla ordalia elettorale (il suo peccato originale), risanato con le Europee. Agli italiani, abituati a tutte le tipologie dei detentori di potere, a delinquenti abituali ma anche a virtuosi apparenti e a velenosi ipocriti, forse piace anche per questa mistura di ambizione suicida (almeno fino ad ora, che è niente nel tempo).

Nell’aula del Senato ha parlato a braccio, con le mani in tasca, esordendo con una citazione festivaliera d’antan (non ho l’età), e mentre chiedeva la fiducia al suo governo, annunciava ai senatori che li avrebbe licenziati. Loro guardavano assopiti nell’odio, e speravano nel giorno della vendetta. La discontinuità nella forma è stata indiscutibile, assai meno nella sostanza del ministero. Ma non è un discorso politico che si vuole fare qui, sì piuttosto antropologico, sulla tipologia junghiana del Renzi, un campione della politica, nato per farla (anche se ancora non abbiamo capito come). Un ampio schieramento anche extrapolitico, soprattutto economico e finanziario (tutta l’Italia del Made in Italy, da Farinetti a Cucinelli, da Montezemolo agli stilisti della moda, agli amministratori delegati, Andrea Guerra e Mauro Moretti, l’Italia dei poteri non so se forti ma certamente glamour, compreso il padrone di «Repubblica», Carlo De Benedetti, che riceve il governo in pantofole, forse con l’eccezione della nomenclatura ministerial-burocratica[131]), lo ha trascinato verso la presidenza del Consiglio (ma senza assumere posti di responsabilità nella squadra di governo), lo ha spinto in alto, in altissimo, a furor d’élite, non di popolo, tranne il cosiddetto popolo delle primarie, ideologicamente motivato, segno di una crisi che (forse) non ammetteva altri indugi e ritardi. Ciò che comporta qualche onere, legato sempre all’immagine e al successo.

Acuta osservazione di massmediologo è venuta da Carlo Freccero, il quale la stessa sera in cui la Nazionale di calcio veniva buttata fuori con disonore dal Mondiale brasiliano, ha commentato: «Prandelli è molto amico di Renzi. Prandelli sconfitto è la prima sconfitta di Renzi»[132]. Il primo insuccesso dell’Italia nell’era Renzi, titolava l’Huffington Post del 25 giugno 2014: «Si dimette il “renziano” Prandelli». Aldo Cazzullo, inviato del «Corriere» ai mondiali, alla vigilia della finale Germania-Argentina che ha confermato il primato tedesco in Europa e non solo, ha scritto: «il nostro bilancio è molto meno brillante. Nella rassegnazione con cui è affondata la nazionale si è intravisto il riflesso della sfiducia che sembra attraversare una parte del Paese.»[133] Il calcio porta voti, se deve portare “sfiga”, meglio disfarsene subito. Renzi l’ha capito al volo. Un paio d’ore prima della finale commentava nella solita intervista: noi italiani ci dimenticheremo presto di questo mondiale. Ma mi lasci dire – e qui intensificava lo sguardo e deglutiva compunto con pausa - che il pianto dei bambini brasiliani è l’immagine che resterà, e finché ci saranno lacrime di innocenti vorrà dire che il calcio non è solo un grande affare[134]. Cioran, che Renzi non ha letto, ha scritto che saranno le lacrime versate a salvarci il giorno del giudizio. E Renzi conosce da buon italiano il valore aggiunto della lacrima. Ha capito che doveva svicolare nella commozione edificante e untuosa e i bambini, specie se piangono, sono un toccasana.

Legare le fortune politiche di Andreotti a Bearzot o ad Azeglio Vicini, per non dire di Mussolini a Vittorio Pozzo, sarebbe stato paradossale (Spadolini si giovò in modi palesemente strumentali, lui che non aveva mai visto una partita in vita sua, del trionfo del Bernabeu, l’11 luglio 1982, per tenere in piedi il suo periclitante governo), ma nella equazione di Freccero c’è qualcosa di vero: in una politica d’immagine, affine, intima alle immagini, la sconfitta di un’immagine strettamente collaterale (Prandelli, Firenze, la squadra viola), finisce per avere un suo peso, anche se Renzi è stato - lo abbiamo constatato sopra - ben attento a smarcarsi dal cadavere calcistico del malcapitato Prandelli, subito dimissionario dalla carica di CT, e poi suicidatosi con un contratto turco (Galatasaray) che lo ha esposto alla gogna mediatica.

Marco Travaglio ha sostenuto, commentando gli annunci sulla riforma della giustizia del ministro Orlando, che il renzismo ha scatenato la più grande ondata di conformismo nella recente storia d’Italia[135]. Travaglio-Saint-Just, ammirevole archivista di malefatte e iter giudiziari, significa rigorismo giudiziario. Ora non vi è dubbio alcuno che Renzi, se si è smarcato da Prandelli, desidererebbe e a maggior ragione smarcarsi anche dall’ombra di Banquo della magistratura inquirente perché non è disposto ad affidare le sorti della politica agli avvisi di garanzia. Accetterà o respingerà gli interventi a gamba tesa, a seconda delle situazioni e degli uomini. L’abbiamo visto quando ha difeso il governatore dell’Emilia-Romagna Vasco Errani, ma aveva invitato alle dimissioni il sindaco di Venezia, Orsoni. Autonomia del politico dal giudiziario, su cui ha scritto acutamente Paolo Ermini, come il sentiero più stretto che il renzismo è chiamato a percorrere[136]. La questione qui si fa grave e davvero complessa, annunciando una partita dura in cui si potrebbe schierare anche qualche giocatore berlusconiano.

Il renzismo-glamour, il renzismo leopoldino e cortese (da corte, di corte), lo si può leggere allora anche come un’emergenza, una variabile dipendente da luci e lustrini del gran varietà dei media, di cui è espressione politica e configurazione emergenziale. Un’emergenza attenuata, reso meno drammatica, e mascherata d’interventismo giovanilistico: il lupo di Firenze, dai denti insaziabili, così come brilla nei cinema l’astro del lupo di Wall Street. Una scena variamente cucinata per la cittadinanza piuttosto disorientata, ma diversamente propinata rispetto al luttuoso incipit dell’era Monti-Fornero, tutta lacrime e sangue in una TV di novembre 2011. Ma emergenza tuttavia, a cui hanno messo la divisa di un fanciullino bulimico che sa interpretare, senza per ora indurre a pensieri funesti, l’antica mitologia italica dell’uomo solo al comando[137]. Non solo, se quest’uomo, pur di stare al comando, tratta, patteggia anche col diavolo: «S’è capito ormai che il vero modello del segretario fiorentino del Pd è il Segretario fiorentino, l’immortale autore de “Il Principe”.»[138]

Renzi, renzismo, come personalizzazione della leadership senza più freni (e di una leadership giovane, osannata come tale, Napoleone Primo console, liberi e semplici, ha detto lui il primo giorno di scuola)[139], una politica senza consenso elettorale, sia pure rettificata con le Europee del maggio 2014 (votare in Italia è considerato disdicevole, dà fastidio ai mercati e urta i nervi della BCE), né una vera rappresentanza, né di categorie né di popolo, ma consenso tuttavia, consenso scritto dalla stampa che appoggia e visualizzato dalle televisioni che guardano e tifano, consenso eterico-mediatico, oracolare-identificatorio («siamo l’Italia, ce la faremo», un’altra sua frase nel giorno del giuramento al Quirinale). Il sociologo Domenico De Masi, presentando in televisione il suo libro Mappa Mundi[140], ha affermato che nessun vento è peggiore di quello che spira nelle vele del marinaio che non sa dove andare. Quel marinaio sarebbe Renzi, nocchiero senza modelli, come tutti i politici del globo. Se restasse - ha aggiunto - con lo spread a zero e la piena occupazione, non saprebbe più cosa fare[141]. La leggerezza di Italo Calvino è stata evocata da Mauro Calabresi. Si sa che un Calvino s’indossa su tutto. Le forze politiche, tranne Grillo che ha invocato, da quel genovese incattivito che è, l’eruzione del Vesuvio sul basso impero («versione sordida e surreale degli ultimi giorni di Pompei»), si sono imbarcate su questo vascello della disperazione e della speranza.

Prandelli, l’austero CT naufragato nel fallimento e nelle polemiche più astiose che seguono in Italia ogni rispettabile fallimento, diede la sua benedizione, e disse che Matteo era un fuoriclasse (non specificò in che ruolo, ma avrebbe potuto forse ricoprirli tutti). Dato l’esito della spedizione brasiliana, il giudizio è stato ritenuto destituito di fondamento. Ben altra prudenza da Oltretevere. L’arcivescovo di Firenze Betori, meno che meno Papa Francesco, fan di Lionel Messi, ma soprattutto raffinato gesuita, non si sono pronunciati. Libera Chiesa in libero Stato, se ancora regge il verbo cavouriano. Ma soprattutto sagace Chiesa che le ha viste tutte ormai, morti e resurrezioni. Firenze, da troppo tempo orba di protagonisti nazionali e in grado di calamitare su di sé un’attenzione generale, senza strafare di ammirazione, pure ne è stata e ne è fiera, e lo ha messo, quel trionfo tanto annunciato, al netto delle responsabilità su quanto potrà fare o non fare quel figliolo tanto felicemente prodigo di sé, nel conto degli attivi in bilancio di questo Duemila, fin qui tanto avaro di soddisfazioni. Nel conto della sua cultura ambientale. È nato qui, vorrà pur dire qualcosa, si argomenta tra i teorici del beneficio da etnia. Anche Machiavelli è stato evocato, ma poi si è detto che sarebbe stato meglio non farlo, perché porta sfortuna (per lo meno al Valentino). I suoi principi, oltre che con spiccate tendenze a sopprimere gli avversari non proprio per vie dialettiche, finivano male, ma erano altri tempi. Auguriamo a Matteo Renzi di finir bene (e anche all’Italia), quando avrà finito il lavoro. Lui e la sua famiglia. Lui e la moglie Agnese, donna semplice e naturale, in palese disagio come first lady[142].

Renzi e il renzismo, oltre che fenomeno politico molto appariscente (sulla consistenza e durata è presto per pronunciarsi ma appare come stile di vita e politica di lungo periodo), è un fatto culturale, espressione della cultura di questa città, cultura linguistica, gestuale, recitativa. L’Ésprit florentin porterà bene o male alla nostra beneamata Italia?

 


[1]Segnalo altresì che le cose si stanno evolvendo in modi problematici, fra divisioni e lacerazioni, e l’immagine di un premier meno giovane esce ogni giorno usurata da attacchi e critiche che provengono da più parti. Una lunga intervista di A. Cazzullo a Carlo De Benedetti titolava «Renzi energico e spregiudicato. Mi ricorda il Fanfani degli anni ’50», in «Corriere della Sera», 14 novembre 2014, con il seguito di F. Camarlinghi, Rieccolo di nuovo, Fanfani, in «Corriere Fiorentino», 16 novembre 2014. Sotto attacco, il premier ha scritto una lettera aperta a un quotidiano per ribadire la sua appartenenza alla Sinistra: «Dalla parte dei più deboli, dalla parte della speranza e della fiducia in un futuro che va costruito insieme.» E questi i nomi del pantheon: «Per noi la sinistra è storia e valori, certo, è Berlinguer e Mandela, Dossetti e Langer, La Pira e Kennedy, Calamandrei e Gandhi.» (Ecco la mia sinistra: sta con i più deboli e non ha bisogno di esami del sangue, in «la Repubblica, 22 novembre 2014). «Quella lettera mi è piaciuta», ha risposto a stretto giro uno degli analisti del sangue della sinistra (E. Scalfari, Le nuove povertà che bussano alla nostra porta, in «la Repubblica», 23 novembre 2014). Tuttavia, la luna di miele è finita: «L’insoddisfazione degli italiani nei suoi confronti è in costante aumento, la diminuzione delle tasse e la sconfitta dell’evasione fiscale sono favole che hanno molto poco da spartire con la realtà.» (Id., La Banca centrale e l’acquisto di Bond: i veri obiettivi di Draghi e quelli di Renzi, in «la Repubblica», 7 dicembre 2014); «L’azione politica del governo Renzi in Italia ne sarà fortemente condizionata. Se a Bruxelles dovesse fallire, la crisi italiana gli sfuggirebbe di mano e non gli resterebbe altra via che quella elettorale, sempre che il futuro inquilino del Quirinale glielo consenta. Renzi insomma rischia d’essere rottamato a Bruxelles e quindi anche a Roma.» (Id., La partita dell’Italia si gioca interamente in Europa, in «la Repubblica», 14 dicembre 2014); «Non era facendo il bullo nei confronti della Merkel che si risolveva il problema.» (Id., Tutto comincia da tre parole di Conrad sulla vita, in «la Repubblica», 21 dicembre 2014). I paragoni si cominciano a fare con i leader (rimpianti) della rimpianta DC. Converrà pertanto - già dal sabato 24 ottobre 2014 - fra manifestazione sindacale a Roma («Renzusconi», «Il verso giusto è quello dei diritti!») e trionfalistica convention Leopolda n. 5, 1 di governo, rito di fondazione che ha già una tradizione (secondo l’antropologa Amalia Signorelli), a Firenze (23-26 ottobre 2014), con manifesti per chi non capisce il futuro (il futuro è solo l’inizio, diventato in una manifestazione della Fiom “il futuro è solo l’inizio di un massacro”), e lo spin doctor di Obama, Mike Moffo, telecronaca di Fabio Volo, collegato a Fazio, ma in puro stile Mediaset (Striscia la notizia politica, e fanne cabaret), la Leopolda divenuta oggetto di una satira feroce per le modalità di svolgimento, certe fatuità divistiche, l’enfasi su un futuro che non si vede, e “leopoldate”, dopo gli incidenti di Roma con gli operai della Thyssenkrupp di Terni, sono diventate sinonimo di manganellate, ebbene dopo tutto questo conviene - dicevamo - mettere punto alla registrazione dei primi mesi di luna di miele, che era l’intento speranzoso e anche un po’ ingenuo di queste pagine di diario.

[2]«La Repubblica», 13 aprile 2014.

[3]E. Scalfari, È l’Italia il personaggio pirandelliano in cerca d’autore, in «la Repubblica», 9 novembre 2014.

[4]E. Perucchietti, Il lato B. di Matteo Renzi. Biografia non autorizzata. Documenti aneddoti interviste retroscena, Bologna, Arianna Editrice, 2014.

[5]B. Vespa, Italia Volta gabbana. Dalla prima guerra mondiale alla Terza Repubblica sempre sul carro dei vincitori, Milano-Roma, Rai Eri, Mondadori, 2014, con capitoli quali La scalata al governo di quattro amici al bar e frasi epiche: Renzi non ebbe paura di tirare il rigore.

[6]G. Ferrara, Il royal baby. Matteo Renzi e l’Italia che vorrà, Milano, Rizzoli, 2015.

[7]F. Occhetta S. I., Il Presidente Renzi, il governo e la crisi dei partiti, in «La Civiltà cattolica», 3947, a. 165, 6 dicembre 2014, p. 478 (La corsa del Governo d’urgenza).

[8]A. Polito, Vizi privati e pubblici default, in «La Lettura» «Corriere della Sera», 21 settembre 2014, pp. 2-3.

[9]R. La Capria, Che confusione l’Italia in tv: la politica è incomprensibile, in «Corriere della Sera», 21 dicembre 2014.

[10]TG1, Rai, 29 dicembre 2014.

[11]G. Cioni, Cioni ti odia. La voce di un politico fuori dal coro, introduzione di M. Mancini, Firenze, Sarnus-Polistampa, 2010.

[12]Discorso dal Quirinale, a Reti unificate, 31dicembre 2014.

[13]Chi è davvero Matteo Renzi, La Redazione in «Il Foglio», 17 febbraio 2014.

[14]M. Sandrelli, Viaggio nella Viola. Fiorentina: tutto quello che avreste voluto sapere e che non è stato possibile raccontare, prefazione di M. Sconcerti, Firenze, Mauro Pagliai Editore, 2014.

[15]A. Friedman, Intervista a M. Renzi, Ammazziamo il Gattopardo, La7, 24 luglio 2014

[16]E. Mauro, a Otto e mezzo, a cura di G. Floris, La7, 7 ottobre 2014.

[17]A. D’Orsi, Il renzismo fase suprema del berlusconismo, in «MicroMega», 8, 2014, pp. 30-40.

[18]G. Orsina, L’Italia fiorentina, in «Aspenia», n. 66, 2014, pp. 13-20.

[19]Vd. B. Craxi, Io parlo, e continuerò a parlare. Note e appunti sull’Italia vista da Hammamet, a cura di A. Spiri, Milano, Mondadori, 2014.

[20]I. Diamanti, La democrazia per caso, in «la Repubblica», 4 agosto 2014.

[21]Commento al voto sulla riforma del Senato (Tg, La7, 20 luglio 2014).

[22]E. Scalfari, Il concetto vi dissi… ora ascoltate com’egli è svolto, in «la Repubblica», 3 agosto 2014: «Ma la sostanza è la stessa, i pessimisti ad oltranza rievocano addirittura i rapporti tra il Direttorio e Napoleone Bonaparte. Personalmente sono meno pessimista e quando penso al nostro presidente del Consiglio il cursus di Napoleone non mi viene neanche in mente e neppure quello di Benito Mussolini. Però mi viene in mente Bettino Craxi, quello sì, e debbo ammettere che non mi piace per niente.» Il titolo dell’articolo è ispirato ai Pagliacci di Leoncavallo.

[23]Id., Matteo Renzi è bravissimo ma la pagella finora è negativa, in «la Repubblica», 10 agosto 2014.

[24]M. Salvati, Riforme costituzionali, poi l’economia. Le ragioni di un disegno strategico, in «Corriere della Sera», 10 agosto 2014.

[25]Scalfari, Roosevelt non ci riuscì, ora ci prova lo scout italiano, in «la Repubblica», 17 agosto 2014.

[26]Id., Bismarck la Cancelliera e il premier nell’Italia alle vongole, in «la Repubblica», 26 ottobre 2014.

[27]Tg La7, 10 luglio 2014.

[28]A. Polito, Crescono solo le promesse, in «Corriere della Sera», 27 luglio 2014. Una nuova patologia del governo, dopo il varo del pacchetto Mille giorni, con la formula Passo dopo passo, è stata diagnosticata e analizzata: l’«annunzite» (In onda, 1 settembre 2014).

[29]D. Allegranti, The boy. Matteo Renzi e il cambiamento dell’Italia, Venezia, Marsilio, 2014, Premessa, p. 11.

[30]Carlo Freccero a Otto e mezzo, a cura di L. Gruber, 22 maggio 2014.

[31]Struggente quel patto, ma utile, se l’appello sul caso Ruby l’ha mandato assolto (Corte d’Appello di Milano, 18 luglio 2014). La vignetta di Giannelli pure è eloquente del miracolo compiuto dal Nazareno-Renzi (in «Corriere della Sera», 20 luglio 2014). Oggi, 6 agosto 2014, si replica, con il quarto incontro, in un giorno nero dell’economia (Istat annuncia recessione tecnica).

[32]E. Scalfari, La sentenza forse è giusta ma disonora il paese, in «la Repubblica», 20 luglio 2014.

[33]Id., Gesù Cristo non si è fermato ad Eboli ma davanti all’Articolo 18, in «la Repubblica», 12 ottobre 2014.

[34]C. Cerasa, La catena della sinistra. Non solo Renzi. Lobby, interessi, azionisti occulti di un potere immobile, Milano, Rizzoli, 2014.

[35]Ipnotizzati da Renzi, scrive Raffaele Fitto a Berlusconi, e suona la sveglia dall’ipnosi (TG La 7, 14 luglio 2014)

[36]La vita è un viaggio, ivi, 2014.

[37]Ballarò, a cura di G. Floris, Rai3, 15 aprile 2014.

[38]Senato della Repubblica, 24 giugno 2014.

[39]Il metodo di Renzi, in In onda, La7, con M. Travaglio, 4 luglio 2014; In onda, La7, 1 agosto 2014.

[40]La mancanza di spirito costituente alla base dello scontro sulle riforme, in «Corriere della Sera», 27 luglio 2014.

[41]R. Caporali, Renzi. E la Sinistra, in «La parola», Terza serie, a. XXII, n. 9, giugno 2014, p. 1.

[42]A. Cazzullo, Schulz: «Grillo è soltanto vento. Mi ricorda Stalin. O Chávez», in «Corriere della Sera», 11 maggio 2014.

[43]Id., «I sindacati non mi fermano», intervista al premier, in «Corriere della Sera», 4 maggio 2014.

[44]G. Airaudo, fuori onda, in Taxi Populi, a cura di N. Lusenti, Sky, La3, 15 maggio 2014.

[45]Vd. Saramago, Il Quaderno, trad. di G. Lanciani, prefazione di U. Eco, Torino, Bollati Boringhieri, 2009.

[46]M. L., Craxi, l’esilio e la fine (nella versione di Haber), in «Corriere Fiorentino», 9 marzo 2014.

[47]M. Demarco, La sinistra Pd che s’inchina al renzismo, in «Corriere della Sera», 15 giugno 2014.

[48]Otto e mezzo, La7, 2 giugno 2014.

[49]RTV 38, 21 maggio 2014. Un aggiornato résumé di insulti, in Ballarò, Rai3, 6 maggio 2014.

[50]Livorno alle elezioni ha confermato la spiccata idiosincrasia, eleggendo un esponente del Movimento 5 Stelle, l’ingegnere Filippo Nogarin. Vd. «Il Vernacoliere», 981, a. 54, n. 7, luglio 2014, Il duce Beppe ha preso Livorno! In città principia la Resistenza! Grillo a noi ce lo puppi!, con un editoriale che è un programma: Intanto ‘r Sindao Grillino annuncia In Comune ora devano lavorà! L’impiegati: e la bonadonna di tu’ ma!. Monografico e spumeggiante nel turpiloquio politologico antirenziano. Nel numero in edicola (novembre 2014), intitolato Renzi s’è caàto addosso!, vd. il commento dell’antagonista Civati: «Ora sì che siamo nella merda!».

[51]Un ampio dossier renziano è stato pubblicato, a titolo Stile Renzi. Democristiano e populista, veltroniano e berlusconiano, vincente. Renzi, ascesa del nuovo padrone d’Italia. L’incredibile parabola politica dell’uomo che in sei mesi si è preso il Pd, governo ed Europa. Un Berlusconi 2.0?, a cura di L. D’Ammando, in «Il Foglio», 2 giugno 2014.

[52]P. Becchi, Colpo di Stato permanente. Cronache degli ultimi tre anni, Venezia, Marsilio, 2014.

[53]E. Scalfari, Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia, in «la Repubblica», 2 marzo 2014: «Chi vuol essere lieto, sia / di doman non c’è certezza. Così poetava il Magnifico Lorenzo che a mezzo millennio di distanza Matteo Renzi ha certamente eletto a proprio modello e questi suoi versi ad insegna della sua operazione politica.» Premessa la genealogia medicea, all’editorialista fondatore vengono in mente modelli di comizi e comizianti (Pietro Nenni, Enrico Berlinguer, Luciano Lama, Ezio Vanoni, naturalmente Mussolini): «Renzi non somiglia a nessuno di loro, la sua è un’eloquenza casual di notevole efficacia. Racconta la sua vita, le sue speranze, il suo desiderio di successo.» È vero, c’è una narrazione autobiografica, direbbe un altro narratore (Vendola).

[54]F. Merlo, Ambizioso o sbruffone, il dilemma del leader, in «la Repubblica», 15 febbraio 2014.

[55]Vd. N. Bobbio, Destra e sinistra, nuova edizione, introduzione di M. L. Salvadori, e due commenti di D. Cohn Bendit e M. Renzi, Roma, Donzelli, 2014.

[56]I. Diamanti, Renzi e il mito dei giovani al governo, in «la Repubblica», 25 febbraio 2014.

[57]F. M. Cataluccio, Immaturità. La malattia del nostro tempo, Torino, Einaudi, 2014.

[58]S. Vassalli, Un augurio ricordando il poeta Ragazzoni, in «Corriere della Sera», 9 marzo 2014.

[59]P. Salom, «Non sarà un’altra Tienammen». Il manager Forchielli: qui la nostra democrazia non funzionerebbe, in «Corriere della Sera», 16 novembre 2014. Vd. contestualmente la cronaca degli incidenti provocati da Occupy Central: G. Santevecchi, Hong Kong, bloccati i tre studenti. Per loro divieto di andare a Pechino, ivi.

[60]Piazza pulita, a cura di C. Formigli, La7, 3 marzo 2014. Stesso protagonista, Forchielli, per una definizione dell’articolo 18: un morto nella bara che ha mosso un dito e viene riportato al pronto soccorso (Piazza pulita, 22 settembre 2014).

[61]Lo Speciale di Fischia il vento: Renzi il fanciullino e lo spettro di Silvio. Incontro con Giovanni Sartori di G. Lerner, Repubblica TV, 2 marzo 2014.

[62]G. De Rita, Il primato inesistente, in «Corriere della Sera», 9 marzo 2014.

[63]Servizio pubblico, a cura di M. Santoro, La7, 13 marzo 2014.

[64]Bersaglio mobile, a cura di E. Mentana, La7, 14 marzo 2014.

[65]Otto e mezzo, La7, 2 aprile 2014.

[66]Ha riservato alla Route scoutistica di San Rossore uno dei suoi discorsi più battaglieri, di autonomia dalla BCE e dalla Commissione Europea (San Rossore, Pisa, 10 agosto 2014).

[67]E. Berlinguer, Casa per casa. Strada per strada. La passione, il coraggio, le idee, prefazione di E. Scalfari, a cura di P. Farina, Milano, Editore Melampo, 2013, p. 40 (Volevo fare il filosofo, intervista a O. Fallaci, in «Corriere della Sera», 26 luglio 1980).

[68]Vd. L. Mastrantonio, Intellettuali del piffero. Come rompere l’incantesimo dei professionisti dell’impegno, Venezia, Marsilio, 2013.

[69]Risponde a Renzi, l’archistar: «È la prima volta che succede, per ora non c’è niente di definito, ma io mi metto a disposizione. Sono contento che mi abbia interpellato perché credo che insieme si potranno fare buone cose.» (S. Bucci, La mia architettura è come un film, in «Corriere della Sera», 16 marzo 2014). Vd. F. Lorenzoni, Cari architetti rifateci le scuole!, in «Il Sole 24 Ore», 16 marzo 2014.

[70]RTv38, 23 agosto 2014.

[71]La lunga intervista esclusiva del premier, In onda, La7, 7 agosto 2014.

[72]Intervista a Matteo Renzi, a cura di F. Fazio, Che tempo che fa, Rai3, 9 marzo 2014.

[73]Bersaglio mobile, a cura di E. Mentana, La7, 20 maggio 2014.

[74]Natale nel paese delle meraviglie, La7, 27 dicembre 2014.

[75]Suggerimento che devo ad Alice Cencetti, e. mail del 31 agosto 2014.

[76]In onda, La7, 9 luglio 2014.

[77]Il paese delle meraviglie, La7, 10 ottobre 2014.

[78]Otto e mezzo, La7, 13 settembre 2014.

[79]A. Grasso, Civati, filosofo della scissione mediatica, in «Corriere della Sera», 2 novembre 2014.

[80]G. Civati, Qualcuno ci giudicherà. La sfida per il cambiamento dell’Italia, Torino, Einaudi, 2014, pp. 3-4, p. 5 (Nelle nostre possibilità. Central Park).

[81]S. Trulli, Zagrebelsky: “Renzismo”? Maquillage della Casta. E il Colle favorisce la conservazione, in «Il Fatto», 9 marzo 2014.

[82]Otto e mezzo, a cura di G. Floris, La7, 24 settembre 2014. Vd. F. de Bortoli, Il nemico allo specchio, in «Corriere della Sera», 24 settembre 2014: «Devo essere sincero: Renzi non mi convince. Non tanto per le idee e il coraggio: apprezzabili, specie in materia di lavoro. Quanto per come gestisce il potere. Se vorrà veramente cambiare verso a questo Paese dovrà guardarsi dal più temibile dei suoi nemici: se stesso. Una personalità egocentrica è irrinunciabile per un leader. Quella del presidente del Consiglio è ipertrofica. Ora, avendo un uomo solo al comando del Paese (e del principale partito), senza veri rivali, la cosa non è irrilevante. […] L’oratoria del premier è straordinaria, nondimeno il fascino che emana stinge facilmente nel fastidio se la comunicazione, pur brillante, è fine a se stessa. Il marketing della politica se è sostanza è utile, se è solo cosmesi è dannoso.» Un patto, infine, quello del Nazzareno, che puzza di vecchia Massoneria in terra di logge come la Toscana («stantio odore di massoneria»). Ha commentato Sabina Guzzanti, regista del film La trattativa (dal 2 ottobre 2014 nelle sale), collegando il patto del Nazzareno alla Trattativa Stato Mafia, che se lo dicono quelli del «Corriere», allora ci si può credere (Servizio pubblico, a cura di M. Santoro, La7, 25 settembre 2014). Un affondo durissimo e inatteso contro Renzi e l’inconcludenza del suo governo - Renzi e Marchionne definiti dopo l’abbraccio di Detroit, due «sola» - è venuto dall’ex sodale Diego Della Valle (Otto e mezzo, 26 settembre 2014): «alla domanda di Floris sull’ipotesi di una sua discesa in campo, Della Valle risponde: “Io non faccio politica ma se serve mi rendo disponibile a dare una mano”». Anche Scalfari si è associato all’articolo del collega corrierista: C’è solo acqua nella pentola che bolle sul fuoco, in «la Repubblica», 28 settembre 2014: «Debbo dire: mi ha fatto piacere che anche il Corriere abbia capito che il personaggio che ci governa è il frutto dei tempi bui e se i tempi debbono essere cambiati non sarà certo quel frutto a riuscirci.» Rompe il fronte del dissenso A. Panebianco, con l’editoriale Veleni interni barriere infrante, in «Corriere della Sera», 28 settembre 2014, in cui sostiene che il renzismo, scarso di risultati pratici, è stato una rivoluzione culturale: «Renzi sta cambiando l’identità della sinistra. O almeno si sforza di farlo. Ma non sta cambiando, grazie al Cielo, la natura della politica democratica.» Exploit oratorio di Renzi al ritorno dagli USA («c’è nel mondo una voglia pazzesca di Italia»), in trance televisiva (Che tempo che fa, a cura di F. Fazio, 28 settembre 2014).

[83]Canfora Zagrebelsky, La maschera democratica dell’oligarchia. Una dialogo, a cura di G. Preterossi, Roma-Bari, Laterza, 2014.

[84]E. Galli della Loggia, I sacerdoti del non si può, in «Corriere della Sera», 30 marzo 2014.

[85]Id., Ciò che Renzi ancora non ha, in «Corriere della Sera», 29 giugno 2014: «Pure in politica nulla si costruisce e nulla dura senza le idee, senza un’idea-forza. E le idee nascono dall’impulso a conoscere, a studiare, a pensare. Matteo Renzi è giovane d’anni ma appare un politico già sagace abbastanza per non capirlo.»

[86]G. A. Ferrari, Quell’Italia arcaica e illetterata che teme il potere dei professori, in «Corriere della Sera», 6 aprile 2014. Il professor Guarino, giurista eminente, ministro nei governi Fanfani e Amato, ha assegnato alla politica europea di Renzi il voto più alto a patto che segua i suoi (del professore) consigli (Otto e mezzo, a cura di L. Gruber, 1 novembre 2014).

[87]E. Traverso, Che fine hanno fatto gli intellettuali, conversazione con R. Meyran, Verona, Ombre corte, 2014 (edizione francese, 2013). Anche l’evento cardine dell’Europa moderna non si è sottratta al processo entropico in atto: «Nel 1989, con la celebrazione del suo bicentenario, la Rivoluzione francese si è trasformata in un puro spettacolo messo in scena per l’industria culturale.» («Alfabeta2, 23 marzo 2014, online).

[88]Franca Valeri in uno sketch di molti anni fa, interpretando il comune sentire, diceva: «I professoroni sono quelli che curano i matti».

[89]E. Scalfari, Questa volta il premier mi piace ma…, in «la Repubblica», 20 aprile 2014.

[90]Id., Guardiamo la fregata sul mare che sfavilla, in «la Repubblica», 27 aprile 2014: «Bastano forse questi nomi per comprendere che la qualità di Renzi è cento volte maggiore di quella dell’ex cavaliere. Ma si tratta pur sempre di due dongiovanni, con una differenza di fondo: Berlusconi finirà nell’abbraccio d’un Convitato di pietra che metterà la parola fine alle sue imprese. Renzi troverà invece un Figaro che venda per lui una “pomata fina” di ottima qualità. Ormai Renzi fa parte dei quadri della politica ed ha le qualità e la grinta per rimanerci. Potrà essere un eccellente primo violino; un direttore d’orchestra no. Sebbene nello strano Paese che è il nostro tutto possa accadere.»

[91]Id., Il 25 maggio bisogna votare per Renzi e per Schultz, in «la Repubblica», 18 maggio 2014; Id., Non amo Renzi ma oggi lo voterò e vi spiego il perché, in «la Repubblica», 25 maggio 2014. Dopo il trionfo elettorale, l’esaminatore Scalfari non demorde: Per fortuna Renzi ha vinto ma ci sono altri esami da superare, in «la Repubblica», 1 giugno 2014: «Ma il bello, anzi il difficile, viene adesso. Per Renzi, per l’Italia, per l’Europa. Ed anche per noi che di mestiere siamo testimoni del tempo che passa.»

[92]Id., Il pifferaio magico fa miracoli e prende cantonate, in «la Repubblica», 15 giugno 2014: «In sua assenza però sono accadute alcune perturbazioni ad Hamelin: qualche giorno fa una cinquantina di parlamentari ha votato contro nel segreto delle urne; l’indomani un rompiscatole di professione senatore, ha inscenato una protesta a cielo aperto con altri 13 colleghi. Tutti e due sono brutti segnali e il pifferaio è rientrato in tutta fretta dalla Cina. Stavolta però non ha preso il piffero ma un nodoso bastone. Nei prossimi giorni si vedrà come andrà a finire. La favola dei fratelli Grimm termina qui.»

[93]Id., Quant’è bravo il premier, ma chi ripara gli errori che sta facendo, in «la Repubblica», 29 giugno 2014.

[94]Id., Rompere il cerchio magico per salvare il governo, in «la Repubblica», 6 luglio 2014.

[95]Id., Se il pifferaio stona il concertone diventerà una gazzarra, in «la Repubblica», 27 luglio 2014: «Speriamo nella Madia. E nella Boschi. E nella Pinotti. E nella Mogherini. Se il pifferaio suona bene, loro faranno un buon coro, ma se il pifferaio stona, il concertone rischierà di diventare una gazzarra. Il pericolo è questo.»

[96]Id., Il cavallo è assetato ma non beve la panna montata, in «la Repubblica», 31 agosto 2014.

[97]Id., Noi siamo bravi ragazzi e nessuno ci può fermar, in «la Repubblica», 7 settembre 2014.

[98]«La Repubblica», 14 settembre 2014.

[99]Id., In povertà sua lieta sciala da gran signore, in «la Repubblica», 6 aprile 2014.

[100]Ivi.

[101]Id., Caro Matteo, chi fa da sé non fa per tre, in «la Repubblica», 9 marzo 2014.

[102]Id., Berlinguer, perché ti abbiamo voluto bene, in «la Repubblica», 16 marzo 2014.

[103]Id., Se Renzi vincerà vent’anni durerà, in «la Repubblica», 23 marzo 2014.

[104]Id., Yes we can, ma Gesù prese anche il bastone, in «la Repubblica», 30 marzo 2014.

[105]Ballarò, Rai3, 1 aprile 2014.

[106]In onda, La7, 17 luglio 2014.

[107]Otto e mezzo, La7, 26 aprile 2014.

[108]E. Semmola, Teatro in maschera, del potere, in «Corriere Fiorentino», 23 marzo 2014.

[109]A. Gnoli G. Sasso, I corrotti e gli inetti. Conversazioni su Machiavelli, Milano, Bompiani, 2013, p. 26 (Il ritorno del «Principe»).

[110]Ivi, pp. 39-40.

[111]S. Vassallo, Liberiamo la politica. Prima che sia troppo tardi, Bologna, il Mulino, 2014, p. 179, p. 183 (Cambiare verso! La volta buona?).

[112]M. Crozza, Editoriale satirico di «Ballarò», Rai3, 11 marzo 2014. Vd. il bilancio di Geca Italia su dati Auditel, a cura di M. Scaglioni: Le parodie di Crozza battono i talk seriosi, in «Corriere della Sera», 16 marzo 2014.

[113]Crozza nel paese delle meraviglie, La7, 16 maggio 2014.

[114]Crozza nel paese delle meraviglie, La7, 23 maggio 2014.

[115]Crozza nel paese delle meraviglie, La7, 13 giugno 2014.

[116]Otto e mezzo, a cura di L. Gruber, con P. Buttafuoco, 5 novembre 2014.

[117]Sulle affinità elettive, vd. M. De Lucia, Il Berluschino. Il fine e i mezzi di Matteo Renzi, Milano, Kaos Editori, 2014.

[118]Otto e mezzo, La7, 10 aprile 2014.

[119]Renzi. Nascita e successo di un leader bambino con foto inedite e i racconti della moglie Agnese e degli amici, a cura di S. Cecchi e M. Mancini, introduzione di G. Canè, «Il Quotidiano Nazionale, 22 marzo 2014.

[120]L’Huffington Post, 23 marzo 2014.

[121]S. Modeo, L’ossessione della velocità. Ovvero il difficile equilibrio tra impazienza e impasse, in «La Lettura» «Il Corriere della Sera», 23 marzo 2014, p. 7.

[122]Servizio pubblico, La7, 3 aprile 2014.

[123]Ecce homo, In onda, La7, 11 agosto 2014.

[124]Intervista di Beppe Grillo a E. Mentana, Bersaglio mobile, La7, 21 marzo 2014.

[125]La politica (s)concertante, TV7, Rai1, 21 marzo 2014.

[126]Otto e mezzo, La7, 5 aprile 2014. Bodei, Generazioni. Età della vita, età delle cose, Roma-Bari, Laterza, 2014; Fuksas, La figlia di, Milano, Rizzoli, 2014.

[127]Vd. il vol. Generazione Erasmus: l’Italia dalle nuove idee, a cura di F. Cappè, prefazione di H. Ceri Jones, Milano, Franco Angeli, 2011.

[128]Rispettivamente nelle trasmissioni Piazza pulita e Otto e mezzo, La7, 7 aprile 2014.

[129]V. Paglia, Storia della povertà. La rivoluzione della carità dalle radici del cristianesimo alla Chiesa di Papa Francesco, Milano, Rizzoli, 2014.

[130]Dati presentati dall’Istituto Demopolis di Pietro Vento, in Otto e mezzo, La7, 3 aprile 2014.

[131]R. Mania M. Panara, Nomenklatura. Chi comanda davvero in Italia, Roma-Bari, Laterza, 2014.

[132]Otto e mezzo, La7, 24 giugno 2014.

[133]A. Cazzullo, Organizzazione, humour, economia. Il Brasile ha vinto il suo Mondiale, in «Corriere della Sera», 13 luglio 2014.

[134]TG1, Rai, 13 luglio 2014.

[135]Otto e mezzo, La7, 26 giugno 2014.

[136]P. Ermini, La giustizia di Matteo Renzi, in «Corriere Fiorentino», 13 luglio 2014.

[137]«Non ci può essere nessun “uomo solo al comando” per la semplice ragione che manca il luogo del comando. Palazzo Chigi non lo è e non lo è mai stato.» Vd. A. Panebianco, Il velocista e il pachiderma, in «Corriere della Sera», 23 febbraio 2014. Un altro commento: un uomo solo al comando era un grande ciclista. Non prendiamocela sempre con lui (P. Crepet, Otto e mezzo, La7, 28 febbraio 2014). Un uomo solo al comando, e gli piace molto (P. Ostellino, Otto e mezzo, la7, 30 ottobre 2014). Vd. ancora E. Scalfari, La Storia non si fa con un uomo solo al comando, in «la Repubblica», 2 novembre 2014: «Così si dimostra a sufficienza che il Pd si è trasformato in un partito personale guidato da un uomo solo. Del resto ciò sta avvenendo in tutta Europa, dove il partito personale prevale su ogni altra forma fin qui applicata o almeno ostentata.» Ma l’articolo sviluppava un altro titolo del renzismo (e del «leader leopoldiano»): lo sberleffo agli intellettuali. «Che avessero ragione? Che gli intellettuali siano dei vecchi o dei giovani bacucchi, delle impettite e spesso inutili presenze e supponenze? Che non siano mai stati loro a fare la storia, a prevedere un imprevedibile futuro e a sostenere a proprio vantaggio un passato che meriterebbe di essere collocato in soffitta o in cantina? Questo, per quel che vale, hanno detto Renzi e i suoi accoliti e su questo sono stato indotto a riflettere.» Quanto a Renzi: «Lui è convinto di essere l’uomo della storia di oggi.» A Scalfari Renzi ha risposto in uno dei suoi discorsi più duri e divisivi, tenuto davanti a un’assise confindustriale (Brescia, 3 novembre 2014). Scalfari a sua volta ha preso atto e ribadito le affinità goethiane con Berlusconi, con una citazione domenicale da Parini: «Affari e politica vanno d’accordo per un padrino del Partito della Nazione. E poi Berlusconi ha già detto più volte che Renzi lui sentimentalmente l’ha adottato.» (Id., Torni a fiorir la rosa che pur dianzi languìa, in «la Repubblica», 16 novembre 2014). Sulla tendenza a una organica e crescente diminutio del potere nelle leadership contemporanee, vd. M. Naím, La fine del potere, trad. di L. Santi e L. Tasso, Milano, Mondadori, 2013.

[138]Il Presidente Renzi ha giurato il 22 febbraio 2014. Il commento nell’editoriale di E. Mauro: «È un governo Renzi, e poco altro. […] La responsabilità è totale, il rischio anche. L’acrobata è sul filo, da solo e senza rete.» («la Repubblica», 22 febbraio 2014). Vd., sui segretari fiorentini, C. Maltese, Il Cavaliere e il Quirinale, ivi, 15 febbraio 2014. La sua scalata ai vertici del PD è cronaca e storia degli anni 2013 e 2014, fra l’8 dicembre 2013 e la conquista della premiership il 17 febbraio 2014. Su “Matteo il Conquistatore» è già cominciata a depositarsi una vasta bibliografia: vd. A. Ferrarese S. Ognibene, Matteo il conquistatore. La vera storia di un’ascesa politica, Firenze-Milano, Giunti, 2013. I commenti della stampa nei giorni dell’ascesa a Palazzo Chigi oscillavano fra l’ammirazione verso l’outsider dalla smisurata ambizione, la legittima preoccupazione sul futuro, l’analisi di un’acrobazia politica tale da ricordare gli acrobati sul filo ai quali il pubblico guardava anche nell’attesa inconfessata che precipitassero (E. Mauro, L’azzardo dell’acrobata, in «la Repubblica», 14 febbraio 2014), e per quanto riguarda la sua città il malcelato orgoglio municipale di alcune testate fiorentine [E. Nistri, I cinque fiorentini di Palazzo Chigi; D. Allegranti, La squadra comincia qui, nella Firenze ri-capitale: «Firenze insomma si (ri)fa Capitale, anche solo per pochi giorni», in «Corriere Fiorentino», 16 febbraio 2014]. Un titolo apparso su «Liberation» di Parigi, a firma di Eric Joszef, il 13 febbraio 2014, scandiva: Matteo Renzi, l’électrochoch de la gauche. Significativa di una tendenza quasi senza controllo l’apologia che ne ha fatto uno stilista, Roberto Cavalli, dichiarando: «È solo che a Firenze ogni 500 anni nasce un grande uomo. Matteo è uno di questi» (I. Ciuti, “Matteo è come un figlio, può ringiovanire l’Italia”, in «la Repubblica», 15 febbraio 2014).

[139]A una triade composta in ordine temporale da Alessandro Magno, Lorenzo il Magnifico, Napoleone, ha fatto riferimento Scalfari nel suo editoriale, Recondita armonia di bellezze diverse, «la Repubblica», 23 febbraio 2014.

[140]Milano, Rizzoli, 2014.

[141]Otto e mezzo, La7, 22 febbraio 2014.

[142]Segnaliamo alcuni titoli della bibliografia che si va accumulando: F. Bordignon, Il partito del Capo. Da Berlusconi a Renzi, Santarcangelo di Romagna (Rn), Maggioli Editore, 2014; N. Barile, Brand Renzi. Anatomia del politico come marca, Milano, Egea, 2014; F. Boschi, La grande illusione. Matteo Renzi 2004-2014. Dalla Provincia di Firenze a Palazzo Chigi dieci anni di giochi di prestigio, prefazione di A. Sallusti, Padova, Amon, 2014.

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