IL CRISTALLO, 2008 L 1 [stampa]

RIESAME DI UN DIBATTITO ERMENEUTICO

di HANS DRUMBL

Premessa

 

Il concetto di "riesame" mi è stato suggerito dal titolo di un piccolo racconto di Franz Tumler, autore sudtirolese che ha avuto grande impatto sulla generazione attiva negli anni 60, tant'è vero che Norbert C. Kaser gli ha conferito l'epiteto di "padre della letteratura sudtirolese"1. Ciò che Tumler ha fatto con il suo "riesame di un congedo", Nachprüfung eines Abschieds, per me è invece il riesame del processo di avvicinamento ad una tematica, il tradurre, in un contesto particolare, nel contesto del bilinguismo sudtirolese, "imperfetto" e sofferto per certi versi, meta di interessi teorici e pratici, e da diversi anni anche didattici. Man mano che il Sudtirolo stava diventando per me non solo la sede del lavoro universitario, ma anche una nuova patria dove vivere le mie esperienze pregresse di austriaco e di italiano, il tema di quel dibattito, affrontato per la prima volta più di vent'anni fa, proprio in occasione di un convegno internazionale sulla Traduzione organizzato a Bolzano, ha acquistato nuova importanza2.

Tumler aveva pubblicato, quasi contemporaneamente, due libriccini presso l'editore Suhrkamp, il racconto a cui ho appena accennato e lo studio poetologico, Wie entsteht Prosa3, di cui esiste anche una versione identica salvo per il titolo, che nella prima edizione suonava: Wie entsteht ein Gedicht4. Scritto affascinante, irrispettoso di ogni scrimine, tra generi letterari, ovviamente, ma anche tra esperienze sensoriali visive ed esperienze legate alla parola, la parola scritta e parlata, perché Tumler intendeva la parola sempre nella sua sostanza di graficità e sonorità.

Immagini e voci del passato ci appartengono, ci accompagnano fino al nostro presente, ma mutano nel momento stesso in cui diventano attuali. Si mescolano con immagini e voci che oggi ci circondano, mettendo in moto un processo che si potrebbe chiamare con il termine tecnico di "blending", termine messo a punto dalla critica letteraria cognitivista5.

Il riesame della tematica assai astratta e tecnica emersa nel 1951 da un carteggio tra uno dei massimi germanisti dell'epoca, Emil Staiger, professore a Zurigo, e Heidegger, il filosofo sospetto a molti ma tuttavia assai presente nella cultura tedesca del dopoguerra, veniva allora contaminato dai ricordi accademici del mio lavoro di insegnante presso la Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori a Trieste (dove avevo preso servizio come unico professore ordinario in Italia della neonata materia "Lingua tedesca con esercitazioni pratiche") e da una tensione creativa nata in occasione dell'invito a organizzare nel febbraio del 1986, assieme ad amici, il convegno bolzanino dal tema "Tradurre. Teoria ed Esperienze".

Il tema della traduzione e degli errori di traduzione si è imposto come risultato di una contaminazione tra dibattiti ermeneutici sulla letteratura, lavoro critico sul testo tradotto e gli innumerevoli momenti del lavoro in classe con studenti apprendisti traduttori.

La contaminazione tra passato e presente, antico e attuale, tra generi letterari e del discorso, metodologie e interessi conoscitivi disparati, ha il suo fulcro nella pertinenza del tema affrontato. La pertinenza, non a caso, è una delle categorie fondanti tra le "massime conversazionali" di Paul Grice6, a pari dignità con le massime della qualità, della quantità e della modalità. Nella ricezione del pensiero di Grice la pertinenza rimane spesso in sottofondo. Siamo infatti abituati a ritenere pertinente tutto quello di cui ci occupiamo per il mero motivo di averlo scelto come tema delle nostre indagini, come meta del nostro desiderio di conoscenza.

Mi avvicino oggi al dibattito ermeneutico di 50 anni fa non con lo scopo di proporre, dopo tanti anni di riflessione collettiva, l'interpretazione definitiva atta a risolvere una vecchia disputa, ma piuttosto con lo spirito di chi indaga le strategie comunicative, la retorica del dibattito, e gli insegnamenti che tale analisi può fornire per capire i nostri dibattiti attuali.

Nel 1986 sono partito dall'errore di traduzione. Avevo scelto il tema limitato agli errori di traduzione in testi di grande rilevanza per la comunità dei parlanti, per la quale questi testi erano stati prodotti. Ho messo a confronto tre momenti importanti: nel primo capitolo le primissime traduzioni dal latino in tedesco nell'Alto Medioevo, le traduzioni del Pater noster, un testo, appunto, di esemplare potenza e rilevanza per la comunità dei fedeli. Il secondo capitolo era dedicato alla disputa accesissima su un verso di Mörike - che entra nell'ottica della traduzione, perché Heidegger, per meglio differenziare la propria lettura critica da quella di Staiger, si è basato sulla traduzione in latino del verso tedesco sotto esame. Segue un terzo capitolo con l'analisi di testi giuridici bilingui, di leggi sulla scuola, pubblicati nelle due lingue nel Bollettino Ufficiale della Provincia Autonoma di Bolzano7.

Messi insieme sotto il titolo impegnativo (nonché ammonitore) di Die Verantwortung für das Wort, tradotto parafrasando Bisogna assumersi la responsabilità per le cose che si dicono, la relazione aveva il suo punto forte nella prima parte, dedicata alle traduzioni medievali. Contrariamente a quanto detto dai miei colleghi germanisti, ho messo in evidenza che le traduzioni in tedesco del Pater noster non erano affatto viziate da errori di traduzione. Le innumerevoli stranezze che colpiscono il filologo moderno rimandano a precise situazioni d'uso - catechetiche, didattiche e liturgiche - che conferiscono al testo tradotto una cornice precisa di riferimento pragmatico, entro la quale si poteva dispiegare il senso del testo nell'inusuale volgare.

Nel 1986 i tre traduttori del Pater noster - tra i quali il famoso monaco Notker da San Gallo - li ho dunque "assolti", i due partecipanti alla disputa ermeneutica, Staiger e Heidegger, invece no. Sono rimasti lì, né assolti, né colpiti da verdetto alcuno. E questo stato perdura ancora, nonostante mi ci fossi impegnato con due ulteriori relazioni congressuali sull'argomento e tre stesure scritte e pubblicate nel corso degli anni8.

L'occasione per il riesame di oggi mi è stata offerta dal Convegno internazionale Leo Spitzer: lo stile e il metodo, organizzato dal Circolo Filologico Linguistico Padovano (Bressanone, 10-13 luglio 2008). Rileggendo il contributo che Spitzer aveva aggiunto alle lettere di Staiger e Heidegger, e discutendone sullo sfondo della ricchissima produzione scientifica e saggistica di Spitzer, emerge con convincente naturalezza un approccio al testo, nonché una soluzione ai quesiti posti più di mezzo secolo fa.

 

L'Arte dell'interpretazione

Nel 1951 Staiger aveva chiuso quel famoso dibattito aggiungendo al contributo - non richiesto – del terzo incomodo, Leo Spitzer, famosissimo filologo romanzo austriaco emigrato negli Stati Uniti, la seguente nota:

Zu Leo Spitzers Beitrag sei folgendes hinzugefügt:

1. Ausdrücke wie "metaphysische Wortspiele" und "pretiöser Wortprunk" werden Heideggers ernsten und wesentlichen Bemühungen um die Sprache schwerlich gerecht.
2. Die ausführliche Erörterung des Gedichts, insbesondere auch seiner wehmütigen Grundstimmung findet der Leser in meinem inzwischen erschienenen Vortrag Die Kunst der Interpretation (Groningen 1951, Nr. 25 der Schriftenreihe der Allard Pierson Stichting).
3. Es widerspräche den in der Kunst der Interpretation entwickelten Grundsätzen, wenn ich die Diskussion weiterführen wollte. Schon unser Briefwechsel hat das Gedicht allzu schwer belastet.

Al contributo di Leo Spitzer aggiungo quanto segue:

(1) Espressioni come "metafisici giochi di parole" e "leziosa pompa verbale" non rendono certo giustizia agli sforzi interpretativi seri ed essenziali che Heidegger ha dedicato al linguaggio.
(2) Il lettore troverà un'ampia analisi della poesia, specie del suo sfondo nostalgico, nella mia conferenza, nel frattempo pubblicata, dal titolo L'arte dell'interpretazione.
(3) Contraddirei gli stessi principi da me adottati nel saggio L'arte dell'interpretazione, se volessi continuare la discussione. Già il nostro scambio epistolare grava sul testo poetico con una pesantezza eccessiva.

Addirittura di "distruzione" della poesia attraverso la pesantezza degli atti interpretativi parla Max Kommerell in un passo memorabile all'inizio del suo volume Gedanken über Gedichte:

Über Gedichte ist schwer reden. Schwer für den Undichterischen, schwerer für den Dichterischen. Und zu wem? Wer selbst mit Gedichten Umgang hat, will nicht belehrt sein. Wer ihn nicht hat, ist kaum zu belehren. Bedarf das stille Wirken eines Gedichtes unter den Menschen solcher Auslegungsversuche? Gewiß nicht. Besteht Gefahr, daß es dadurch zerstört würde? Allenfalls! Warum also reden?9

Parlare di poesie è difficile. Difficile per chi non ha una natura poetica, ancor più difficile per chi ce l'ha. E a chi parlare? Chi ha familiarità con la poesia non desidera indrottinamenti. Chi questa familiarità non ce l'ha difficilmente può essere indottrinato. Forse che l'agire silenzioso di una poesia fra gli uomini abbisogna di tali tentativi di interpretazione? Certamente no. C'è pericolo che essa venga distrutta dalle interpretazioni? Eventualmente. Perché allora parlare?

Sarebbe dovuto essere Kommerell l'arbitro nella disputa ermeneutica su Mörike e Goethe. Kommerell invece morì nel 1945 all'età di 43 anni. Nella nota commemorativa di Heidegger si trovano le famose parole. "Max Kommerell durfte irren"10.

E così, non senza un pizzico di ironia, parlerò del contributo di Spitzer, che mette in risalto proprio un errore interpretativo di Heidegger, ovvero di un interprete al quale forse non era concesso di "sbagliare".

Prima ascoltiamo la voce di Mörike:

Nel panorama della poesia lirica tedesca, Mörike – «certamente il più fine e sensibile temperamento lirico di tutto l'Ottocento», secondo il giudizio di Ladislao Mittner – si guadagna un posto di prestigio, meritato per il tono sereno e profondo, per la musicalità unita alla maestria metrica con la quale fa rivivere i metri classici in lingua tedesca. A modelli classici si ispira anche la poesia Ad una lampada che riprende il genere antico dell'ecfrasi, ekphrasis, poesia dedicata ad oggetti d'arte, che gli era nota grazie all'Anthologia Graeca e con la quale Mörike inaugura, in Germania, il genere del Dinggedicht.

Auf eine Lampe
Noch unverrückt, o schöne Lampe, schmückest du,
An leichten Ketten zierlich aufgehangen hier,
Die Decke des nun fast vergeßnen Lustgemachs.
Auf deiner weißen Marmorschale, deren Rand
Der Efeukranz von goldengrünem Erz umflicht,
Schlingt fröhlich eine Kinderschar den Ringelreihn.
Wie reizend alles! lachend, und ein sanfter Geist
Des Ernstes doch ergossen um die ganze Form –
Ein Kunstgebild der echten Art. Wer achtet sein?
Was aber schön ist, selig scheint es in ihm selbst.

Ad una lampada
Ancora, lampada bella, orni leggiadra,
appesa a lievi catene,
il soffitto della stanza di piacere caduta in oblio.
Sul paralume marmoreo e bianco, al cui bordo
si svolge una bronzea ghirlanda di edera verde e oro,
intreccia un allegro girotondo un gruppo di bambini.
Che incanto! ma uno spirito grave e soave
pervade la tua forma.
Una vera opera d'arte. Chi ti avrà mai badato?
Ma splende in se stesso beato ciò che è bello11.

Emil Staiger inizia l'interpretazione ponendo la stessa domanda che si era posto Kommerell – perché interpretare? –, ma a differenza di Kommerell, che pone l'accento sull'opera, Staiger assume l'ottica del lettore, spostando così la base della riflessione estetica nella sfera psicologizzante della ricezione:

Wir lesen Verse; sie sprechen uns an. Der Wortlaut mag uns faßlich erscheinen. Verstanden haben wir ihn noch nicht. Wir wissen noch kaum, was eigentlich dasteht und wie das Ganze zusammenhängt. Aber die Verse sprechen uns an. [...] Zuerst verstehen wir eigentlich nicht. Wir sind nur berührt; aber diese Berührung entscheidet darüber, was uns der Dichter in Zukunft bedeuten soll.12

Leggiamo dei versi: essi ci parlano. Il senso delle parole può anche sembrarci comprensibile, ma non l'abbiamo ancora capito. Sappiamo appena che cosa dice il testo e come le singole parti sono connesse tra loro. Ma i versi ci parlano [...] In un primo momento in realtà non capiamo. Sentiamo soltanto che qualcosa ci pare toccante, e questo tocco, questo contatto è decisivo per il significato che il poeta avrà per noi in futuro.

Nel prosieguo dell'interpretazione dedicata alla poesia Auf eine Lampe di Mörike, leggiamo le famose parole, a dir il vero un po' sorprendenti, se pensiamo al dibattito decennale suscitato dall'esegesi dello stesso Staiger: «Diese Verse bedürfen keines Kommentars. Wer Deutsch kann, erfaßt den Wortlaut des Textes» (Questi versi non abbisognano di alcun commento. Chiunque sappia il tedesco comprende quel che dice il testo).

E siamo pronti a compiere il primo passo della nostra indagine, riesaminando il commento proposto dallo stesso Staiger:

Ganz abgerückt ist das Schöne wieder, wenn es selig ist «in ihm selbst». Es ist, als habe der Betrachter das Lustgemach bereits wieder verlassen und denke nun über das Kunstwerk nach. Nachzudenken ist ihm gemäß, ihm, der sich als Nachgeborener fühlt. Im Nachdenken findet er aber den Trost, das Schöne bedürfe der Würdigung nicht; es sei sich selbst, ihm selbst genug – einen gültigen, aber doch schmerzlichen Trost, der jeden seinem Bereich überläßt, das Schöne dem fast vergessenen Raum, den Menschen der Gleichgültigkeit des Tages.

Il bello è di nuovo lontano quando si bea di essere «in ihm selbst», in se stesso. È come se l'osservatore fosse già uscito dalla stanza dei diletti e riflettesse (nachdenken= «post-pensare, pensare dopo») sull'opera. La riflessione gli si addice perché si sente nato "dopo", in ritardo (Nach-geborener). Ri-flettendo però si consola all'idea che il bello possa fare a meno di essere apprezzato, basta a se stesso, basta a lui – una consolazione valida, pur tuttavia dolorosa, che lascia ad ogni cosa il proprio ambito: al bello la sala quasi dimenticata, all'uomo l'indifferenza del quotidiano.

Heidegger

E proprio il verbo "scheinen", nell'ultimo verso di Auf eine Lampe, ha suscitato l'intervento correttivo di Heidegger, che aveva assistito alla conferenza durante la quale Staiger aveva reso pubblica questa sua Arte dell'Interpretazione:

Aber nun zum scheint im besonderen. Sie lesen «selig scheint es in ihm selbst» als felix in se ipso (esse) videtur. Sie nehmen das selig prädikativ und das in se ipso zu felix. Ich verstehe es adverbial, als die Weise wie, als Grundzug des «Scheinens», d.h. des leuchtenden Sichzeigens, und nehme das in eo ipso zu lucet. Ich lese: feliciter lucet in eo ipso; das in ihm selbst gehört zu scheint, nicht zu selig, das «selig» ist erst die Wesensfolge des «in ihm selbst Scheinens». Die Artikulation und der «Rhythmus» der letzten Verse haben ihr Gewicht im "ist". «Was aber schön ist» (ein Kunstgebild echter Art ist), «selig scheint es in ihm selbst!» Das «Schön-Sein» ist das reine «Scheinen».13

Adesso però occupiamoci in modo specifico della parola scheint. Lei legge «selig scheint es in ihm selbst» come se stesse per felix in se ipso (esse) videtur. Lei considera selig come predicativo e accosta in se ipso a felix. Io invece lo intendo come avverbio, come il modo e come la caratteristica del "Scheinen", ovvero del mostrarsi splendente, e accosto in eo ipso a lucet. Per me la frase corrisponde a feliciter lucet in eo ipso; "in ihm selbst" sta con scheint e non con selig, selig è solo la conseguenza esistenziale dell' "in ihm selbst Scheinens". L'articolazione e il ritmo degli ultimi versi hanno il loro perno nell' "ist". «Was aber schön ist» (l'opera d'arte vera è) «selig scheint es in ihm selbst!» l'essere bello è il puro "splendere".

Questa era la situazione critica stabilitasi dopo il primo round. Ci troviamo dunque con due versioni latine del verso tedesco o, meglio, con due versioni latine di altrettante interpretazioni di un verso tedesco.

Staiger: felix in se ipso videtur
Heidegger: feliciter lucet in eo ipso

Ogni atto interpretativo comporta delle scelte, e nell'interpretazione si ritrova sia ciò che è stato scelto, sia ciò che è stato scartato. Con la decisione di esprimere in traduzione latina quanto si "salva" nell'interpretazione, il «resto», cioè la parte scartata dall'interprete, va irrimediabilmente persa.

Ciò che «resta», e viene espresso in traduzione, non potrà più essere ri-tradotto in tedesco. L'interprete ha perso il legame con la propria materia ed ogni contributo successivo risente della perdita originaria, aumentando la rigidità dell'argomentazione.

Il testo da interpretare non può essere tradotto in latino in modo utilitaristico, perché ogni appropriazione ermeneutica è per sua stessa natura «traduzione» – traduzione del testo nell'orizzonte individuale – ovvero un processo che coinvolge due sistemi linguistici in movimento e affatto stabili14. La traduzione non è in grado di trasportare il significato del testo in una veste più stabile e definitiva di quanto non lo sia il significato dell'originale.

La lettura del testo e delle traduzioni, nonché la riflessione critica, portano ad un risultato non accessibile alla critica germanistica «monolingue», dove lingua del testo/oggetto e lingua della critica coincidono, portando – anche in questo caso – alla Horizontverschmelzung frettolosa e fuorviante.

L'obbligo del tradurre va salutato come momento che permette di cogliere aspetti del testo originale altrimenti destinati all'ombra. «La traduzione può portare alla luce connessioni presenti nella lingua tradotta, ma non esplicite. Da qui riconosciamo che ogni tradurre dev'essere un'interpretazione», scrive Heidegger nelle Osservazioni sulla traduzione, nate nel 1941 durante il corso sull'inno Der Ister di Hölderlin:

Es gibt überhaupt keine Übersetzung im Sinne, dass das Wort der einen Sprache mit dem Wort der anderen zur Deckung gebracht werden könnte oder auch nur dürfte. Diese Unmöglichkeit soll jedoch wiederum nicht dazu verleiten, die Übersetzung im Sinne eines blossen Versagens abzuwerten. Im Gegenteil: Die Übersetzung kann sogar Zusammenhänge ans Licht bringen, die in der übersetzten Sprache zwar liegen, aber nicht herausgelegt sind. Hieraus erkennen wir, dass jedes Übersetzen ein Auslegen sein muss. Zugleich gilt aber auch das Umgekehrte: Jede Auslegung und alles, was in ihrem Dienst steht, ist ein Übersetzen. […] Das Auslegen als Übersetzen ist zwar ein Verständlichmachen – freilich nicht in dem Sinne, wie der gemeine Verstand dies meint. […] Verständlichmachen darf nie heißen, eine Dichtung und ein Denken jedem beliebigen Meinen und dessen Verständnis-Horizont anzugleichen: Verständlichmachen heißt, das Verständnis dafür wecken, dass der blinde Eigensinn des gewöhnlichen Meinens gebrochen und verlassen werden muss, wenn die Wahrheit eines Werkes sich enthüllen soll.

Non c'è traduzione nel senso in cui sia possibile o anche solo lecito far combaciare una parola di una certa lingua con quella di un altra lingua. Tale impossibilità non deve indurre a screditare la traduzione come semplice fallimento. Al contrario: la traduzione può portare alla luce addirittura connessioni presenti nella lingua tradotta, ma non esplicite. Da qui riconosciamo che ogni tradurre deve essere un'interpretazione. Al tempo stesso però vale anche il contrario: ogni interpretazione e tutto ciò che è al suo servizio è un tradurre. […] Interpretare come traduzione è sì un render comprensibile – tuttavia non come lo intende il senso comune. […] Rendere comprensibile non deve mai significare assimilare una poesia o un pensiero ad un qualsivoglia intendere ed al suo orizzonte di comprensione; rendere comprensibile significa risvegliare la nostra disponibilità a spezzare ed abbandonare la cieca ostinazione del senso comune, se la verità di un'opera deve dischiudersi15.

Se sostituiamo «lingua» con «testo», le parole di Heidegger servono da fondamento alla critica traduttiva intesa come analisi conoscitiva dei testi tradotti, uno degli strumenti più efficaci di cui disponga la critica a cavallo tra analisi letteraria e linguistica.

Applicate al dibattito sul verso di Mörike, il passo di Heidegger filosofo contraddice tuttavia l'interprete. Se è vero che una parola di una lingua non potrà mai corrispondere pienamente ad una parola, creduta equivalente, di un'altra lingua, l'esercizio ermeneutico di affidare la propria interpretazione di questo passo ambiguo alla traduzione in latino non potrà rendere più chiaro il testo da interpretare; servirà solo a tracciare confini più netti tra le singole interpretazioni.

 

Spitzer

Con sicura sensibilità per i valori del testo poetico, Spitzer, nel suo contributo Wiederum Mörikes Gedicht "Auf eine Lampe", non segue la linea tracciata da Heidegger con l'analisi del verbo "scheinen", considerato in opposizione tra le due accezioni del verbo:

Wenn ich das Zwiegespräch zwischen Staiger und Heidegger über das Mörike-Gedicht um eine dritte Stimme vermehren darf, möchte ich auf einen Gesichtspunkt hinweisen, der weder von dem Literaturkritiker noch von dem Philosophen erwähnt worden ist: die sinnliche Gestalt des Kunstgebildes der Lampe und deren Symbolwert für das Gedicht. Vielleicht wird so neues Licht auf die umstrittene letzte Zeile (deren sprachliche Fügung vielleicht noch genauerer philologischer Analyse bedarf) und den letzten Sinn des Gedichts fallen.

Se mi è concesso di aggiungere una terza voce al dialogo tra Staiger e Heidegger sulla poesia di Mörike, vorrei indicare un punto di vista trascurato sia dal critico letterario sia dal filosofo, ovvero che da un lato abbiamo a che fare con la forma sensibile dell'oggetto d'arte quale lampada, dall'altro con il suo valore simbolico per la poesia. Così facendo si potrà forse gettare una nuova luce sia sull'ultimo verso tanto discusso (la cui costruzione linguistica meriterebbe forse un'ulteriore analisi), sia sul senso ultimo della poesia16.

Der letzte markige Vers ist dann ganz dem inneren Sein des Kunstwerks gewidmet, dessen Unabhängigkeit von Zeit und Raum der Umwelt, wobei gewisse Ansätze zu der Aussage über das Wesen des Kunstwerks schon vorhergingen: "selig" ist vorbereitet durch das oben erwähnte "lachend": in dem Relief der Lampe frohlocken die spielenden Kinder – das Lachen des (personifizierten) Kunstwerks war zuerst inhaltlich motiviert worden (durch das Lachen der dargestellten Kinder), aber nun stellt sich die Seligkeit in sich selbst als Wesen des Kunstwerks heraus. Und die wiederholte Betonung ('Efeukranz', 'Ringelreihn') der in sich geschlossenen Kreisform ist das Vorspiel zu dem 'in sich selig', ja es ist diese sinnlich geschaute Form, die den Dichter dazu führte, das Wesen des Kunstwerks in etwas zu sehen, was in paralleler, doch abstrakterer Weise (als in dem von Heidegger angeführten Satze) Hegel ausdrückt als "die heitere Ruhe und Seligkeit, dieses Sichselbstgenügen in der eigenen Beschlossenheit und Befriedigung".

L'ultimo potente verso è dedicato per intero all'intimo essere dell'opera d'arte, alla sua autonomia rispetto al tempo e allo spazio del suo ambiente. Vengono elaborati alcuni spunti riguardo all'essenza dell'opera d'arte apparsi in precedenza: il "beato" si trova anticipato nel "ridente" di cui sopra, sull'altorilievo della lampada i bambini giocano gioiosamente – il ridere dell'opera d'arte (personificata) in un primo momento era stato motivato contenutisticamente (dal ridere dei bambini raffigurati). Ora, tuttavia, l'essere beato si rivela come l'essenza stessa dell'opera d'arte. L'insistenza sulla forma in sé chiusa del cerchio ("ghirlanda d'edera", "girotondo") prelude alla formula dell'"in sé beato". In realtà è proprio il vedere e percepire questa forma che ha portato il poeta a individuare l'essenza dell'opera d'arte in qualcosa che Hegel rende in una modalità sì parallela, ma più astratta (che non nella frase citata da Heidegger) con "la pacata serenità e beatitudine, quell'autosufficienza nel proprio essere compiuto e soddisfatto".

Und nun zur Streitfrage, die den Ausgangspunkt der Diskussion zwischen Staiger und Heidegger bildet: der Auffassung des Zeitworts "scheint" als 'videtur' oder 'lucet', und dann dementsprechend der Beurteilung der Grundstimmung des Gedichts als eines melancholischen Rückblicks auf ein Sein des Kunstwerks, von dem der Dichter Mörike und seine Zeit unwiederbringlich getrennt wären (Staiger: das Kunstwerk 'scheint' selig, der Dichter "traut sich", im Gegensatz zu Goethes "Die Schöne bleibt sich selber selig", nicht mehr ganz zu, zu wissen, wie es der Schöne zumute ist") oder als einer wehmütigen Betrachtung der wesensmäßigen Fremdheit des Kunstwerks und seines Publikums (Heidegger: das Kunstwerk 'leuchtet' in sich, "die rechte Art des Kunstgebildes, die Schönheit des Schönen waltet nicht von Gnaden der Menschen").

E ora riguardo al contenzioso, dove s'innesca la discussione tra Staiger e Heidegger, e cioè se occorra intendere il verbo "scheint" nel senso di 'videtur' oppure di 'lucet', e se valutare di conseguenza il tenore della poesia o come sguardo nostalgico pieno di malinconia sull'opera d'arte che nel suo essere sarebbe irrimediabilmente scissa dal poeta Mörike e dal suo tempo (Staiger: l'opera d'arte "sembra" essere beata, Mörike, diversamente dal "La bellezza si bea di se stessa" di Goethe, non osa più esprimere un giudizio sicuro su come possa "sentirsi" la bellezza), o come l'osservazione dolente dell'estraneità esistenziale tra l'opera d'arte e il suo pubblico (Heidegger: l'opera d'arte splende in sé, "il vero modo di essere dell'opera d'arte, la bellezza del bello non lo è per virtù degli uomini").

Messo di fronte alla scelta, Spitzer non esita a scartare la lectio difficilior, anzi improbabile, proposta da Staiger, ma non accetta nemmeno il commento di Heidegger, con la sua insistenza sulla luce emanata dalla lampada spenta. Le parole a tale proposito sono un piccolo capolavoro di stile parodistico:

"Mir erscheint die bei Heidegger wohlbekannte mittelalterliche (augustinischisidorianische) adnominatio, jene Art des etymologisch-metaphysischen Wortspieles und der wiederholten Wortanklänge, die durch Rabelais' Parodie (moine moinant de moinerie…) endgültig aus dem modernen Tempel des Geschmacks vertrieben wurde, wenig zur Klärung der Dichterstelle beizutragen. (…)

All solcher preziöser Wortprunk kann nicht um die einfach-nüchterne sachliche Feststellung herum, dass von einem Leuchten der Lampe in unserem Gedicht sonst keine Rede ist.

A mio parere la figura retorica medievale (augustino-isidoriana) dell'adnominatio, ripresa con tanta insistenza da Heidegger, ovvero quei giochi linguistici etimologico-metafisici dalle assonanze insistite, che Rabelais con la sua parodia (moine moinant de moinerie…) aveva definitivamente scacciato dal tempio del moderno gusto, non offre molto riguardo al chiarimento del passo in questione (…).

Tutte questa leziosa pompa verbale non può invalidare la constatazione pura e semplice che in questa poesia non si parli altrimenti del fatto che la lampada risplenda.

Nella pars construens, Spitzer sferra l'attacco parodistico definitivo dopo aver parafrasato l'ultimo verso con le parole:

"'Das Schöne prangt selig in sich selbst' (ich wähle das mit 'prächtig' etymologisch verwandte Verb) – wäre Mörike Heidegger gewesen, er hätte sich nicht mit der Alliteration "schön – scheint" begnügt, sondern den Gedanken in altfränkischer adnominatio ausgedrückt: 'Was aber schön ist, selig schönt es in ihm selbst' (oder vielleicht: "was schönend schönt, selig-seligend selbstet es in sich selbst"?). Das 'Prangen' nimmt im letzten Augenblick noch den Gedanken der Wirkung des Schönen nach außen auf, der vorher durch 'schmückest' anklang – aber diesmal um jene äußereWirkung durch das Leben des Kunstwerks in sich selbst zu ersetzen.

"Das Schöne prangt selig in sich selbst" (scelgo il verbo "prangt", etimologicamente imparentato con l'aggettivo "prächtig"). Se Mörike fosse stato Heidegger non si sarebbe accontentato dell'allitterazione "schön – scheint", ma avrebbe espresso il pensiero tramite l'adnominatio altofrancone: "Was aber schön ist, selig schönt es in ihm selbst" (o forse: "was schönend schönt, seligseligend selbstet es in sich selbst"?).

"Prangen", "fare sfoggio di sé", riprende in extremis l'idea dell'effetto o influenza del bello sull'esterno, accennato in precedenza dal verbo "schmückest", "adorni" – ma questa volta nell'intento di sostituire quell'agire verso l'esterno con la vita dell'opera d'arte in se stessa.

Nun muss auch klar geworden sein, dass ich jede melancholische Stimmung der Ausgeschlossenheit des Künstlers Mörike vom Sinn und Sein des Kunstwerks, die Staiger auf die Auffassung von 'scheint' als 'videtur' (und auf die Kenntnis anderer Gedichte Mörikes) gebaut hat, ablehne. In Wirklichkeit sagt der Endvers dieses bestimmten Mörike-Gedichts nichts anderes aus als Goethes Wort 'Die Schöne bleibt sich selber selig' (und dies Goethe-Wort hat wahrscheinlich Mörike vorgeschwebt).

Er proklamiert in völlig sachlich-ruhiger Weise die alte Wahrheit von der Autarkie des Kunstwerks, das kein Publikum braucht, nur wird diese Wahrheit lyrisch vor uns Lesern erarbeitet durch die Betrachtung eines einzelnen, von Menschen vergessenen, aber in sich seligen kreisförmig geschlossenen und wohltemperierten Kunstgebildes. Für mich ist denn die Melancholie der Feststellung der modernen Fremdheit um das Kunstwerk herum überwunden in der idyllischen Gelassenheit des letzten Verses.

Und noch eines: die Maxime, die in dem Endvers enthalten ist, wie objektiv sie auch in ihrer Tendenz ist und wie sehr sie auch in die antikische Form hineinpasst, wird in einem persönlich-erlebten, temperamentvollen Vers geboten, der uns unvergesslich und teuer geworden ist. Dessen Lehrgehalt ließe sich ja durch die prosaischen Worte umschreiben: 'jeder schöne Gegenstand ist in seiner Schönheit selbstgenügsam'. (…)

Aber bei Mörike finden wir einen zwar in das klassische Metrum des jambischen Trimeters mit Zäsur nach der fünften Silbe eingepassten, aber im wesentlichen gesprochenen, umgangssprachlichen Satz, der sich wie von selbst aus dem vorhergehenden Gespräch entwickelt. Zuerst hatte nämlich der Dichter die Lampe angesprochen, dann hatte ihm der Anblick eine spontane Ausrufung entlockt ('wie reizend alles!'), schließlich bleibt er in seiner

Meditation mit sich selbst allein: er unterredet sich mit sich selbst: 'Wer achtet sein?' (…) und gibt sich selbst eine – gesprochene – objektive Antwort, unfeierlich, untragisch, gemäßigt (wie seine ganze Kunstauffassung).

Die zwei bodenständigen schwäbischen Sprechweisen im Endvers passen zu dessen gesprochenem unlehrhaften Charakter – und nicht minder die Ausdrucksweise 'Was aber schön ist…'.

A questo punto dovrebbe essere chiaro che io rifiuto ogni accenno a una sensazione di malinconia dovuta all'esclusione dell'artista Mörike dal senso e dall'essenza dell'opera d'arte, che Staiger ha costruito sulla sua interpretazione del "scheint" inteso come "videtur" (e basandosi sulla sua conoscenza di altre poesie dello stesso Mörike). In realtà, il verso finale di questa specifica poesia non dice altro che non quanto già espresso dal motto di Goethe "La bellezza si bea di se stessa", (motto goethiano che probabilmente ha ispirato Mörike). Mörike proclama in modo assolutamente oggettivo e pacato la ben nota verità dell'autarchia dell'opera d'arte, che non abbisogna di pubblico alcuno. Soltanto che questa verità viene elaborata in modo poetico al cospetto di noi lettori attraverso l'osservazione di una singola opera d'arte, dimenticata dagli uomini, ma in se stessa beatamente e circolarmente chiusa e conclusa e ben temperata. Per me, quindi, la malinconia nel constatare lo straniamento tutt'intorno all'opera d'arte viene sublimata nell'idillica pacatezza dell'ultimo verso. E un'altra cosa ancora: la massima che si esprime nell'ultimo verso, per quanto oggettiva possa tendenzialmente essere e per quanto si presti alla forma antichizzante, viene offerta in un verso che segnala temperamento e un vissuto personale, verso a noi ormai indimenticabile e caro.

L'insegnamento che questo verso trasmette lo si potrebbe esprimere in parole povere con "Ogni bell'oggetto è, nella sua bellezza, pago di se stesso". (…) Ma nella poesia di Mörike troviamo una frase colloquiale dal registro parlato, benché sia perfettamente articolata secondo lo schema metrico del trimetro giambico con cesura dopo la quinta sillaba. Questa frase emerge quasi di per suo a conclusione del parlottio che la precede. Dapprima infatti il poeta s'era indirizzato alla lampada stessa, poi il guardarla gli aveva estorto un'esclamazione spontanea ("Che incanto!" o: "Quanto è incantevole, il tutto!"), infine, rimasto solo a meditare fra sé e sé, come discorrendo, si chiede: "Chi ne ha cura?" (o: "Chi se ne avvede?") e si fornisce anche un'oggettiva risposta – esplicitata – , dal tono che non è né cerimonioso né tragico, ma moderato, come tutta la sua visione artistica.

Le due espressioni di colore dialettale, molto sveve, nell'ultimo verso, bene si inseriscono in questa caratteristica del linguaggio parlato, non dogmatico, e questo vale anche per l'espressione "Ma quel che è bello" ("Ciò che è bello…").

A quest'ultima espressione, "Was aber schön ist", Spitzer dedica un'ampia analisi linguistica, confutando in modo del tutto convincente l'esegesi heideggeriana dello stesso passo.

Le parole di Spitzer non impongono una visione della poesia, non estraggono un messaggio forte. Smussando gli angoli delle polemiche precedenti e concentrandosi sulla percezione della forma dell'oggetto d'arte intorno a cui orbita il testo, Spitzer ci offre un esempio in netto contrasto con quello di Staiger, che usa un testo poetico come oggetto dimostrativo del proprio metodo critico. Anche il giovane Peter Szondi – l'allievo di Staiger che in seguito sarebbe diventato il maggiore critico tedesco della sua generazione – assume una posizione del tutto analoga a quella di Spitzer, quando afferma, in conclusione delle sue interpretazioni delle Elegie di Rilke:

Am Schluss einer Interpretation soll der Leser oder Zuhörer den Eindruck haben, er hätte das Gedicht immer schon so verstanden: Nur die Interpretation hat ihre Bestimmung erreicht, die sich solcherart in das Werk selbst auflöst: bleibt sie dagegen neben ihm bestehen, so ist Anlaß zum Verdacht, daß sie sowohl in ihrer Absicht als auch in ihren Behauptungen verfehlt ist.17

Alla fine di un'interpretazione il lettore o l'ascoltatore deve avere la sensazione di aver da sempre capito la poesia proprio come l'interprete l'ha presentata. Solo l'interpretazione che sa similmente dissolversi nell'opera, diventando un tutt'uno con essa, raggiunge il suo scopo. Se, al contrario, l'interpretazione si afferma e resta distinta a lato dell'opera, allora è lecito il sospetto che essa abbia fallito sia nell'intenzione, sia nelle sue affermazioni.

Sono parole importanti perché tracciano un confine preciso tra l'attività critica corrente e la ragion critica utopica che dovrà essere riconquistata da ogni nuova generazione che si avvicini al mondo della letteratura e dell'interpretare.

 


NOTE

 

1 "Ich habe zwar etwas gegen Betitelungen, aber er ist der Vater unserer Literatur und unseres Erkennens."

2 Vedi i miei Scritti sudtirolesi, Bressanone, Wegener 2004.

3 Ristampato nel volume Volterra, Suhrkamp 1964.

4 Poetik, hrsg. von der Bayerischen Akademie der Schönen Künste, München:, Oldenbourg 1962. Gestalt und Gedanke, 7.

5 Cfr. http://markturner.org/blending.html. In italiano: G. Fauconnier e M. Turner, Amalgama Concettuale, Urbino, Quattroventi 2001. [Conceptual Integration Networks, trad. di Antonino Carcione e Michele Procacci.]

6 Su Grice cfr. P. Auer, Sprachliche Interaktion. Eine Einführung anhand von 22 Klassikern, Niemeyer, Tübingen 1999, 91-102.

7 "Die Verantwortung für das Wort", in: A. Destro, J. Drumbl, M. Soffritti (a cura di) Tradurre. Teoria ed Esperienze, Bolzano 1987, 57-79.

8 J. Drumbl, Traduzione e scrittura, Milano, Led 2003, 83-99.

9 M. Kommerell, Gedanken über Gedichte, Frankfurt a. Main, Klostermann, 1985 (1. Aufl. 1943), 7.

10 Max Kommerell, (gestorben am Abend des 25. Juli 1944), in: Heidegger, Werke, …

11 H.G. Gadamer, Persuasività della letteratura, a cura di F. Vercellone, 154, n. 11.

12 E. Staiger, Die Kunst der Interpretaton. Studien zur deutschen Literaturgeschichte, München, dtv 1971, 9.

13 Ristampa della disputa in V. G. Doerksen (ed.) Eduard Mörike, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1975, 241-269, con un contributo di L. Spitzer e il commento conclusivo di Staiger.

14 Cfrl. Il mio saggio 'L'idea di traduzione in Benjamin', in: J. Drumbl, Scrittura e Traduzione, Milano, Led 2003, p. 29-40

15 Martin Heidegger: Hölderlins Hymne "Der Ister". Frankfurt a.M.: Klostermann 1984, 74-76, traduzione italiana di D. Galasso, Martin Heidegger, Bemerkungen zum Übersetzen, in: inTRAlinea, testi a fronte, 1998, http://citam01.lingue.unibo.it/intralinea/.

16 Corsivi miei (HD).

17 P. Szondi, Das lyrische Drama des Fin de siècle. Studienausgabe der Vorlesungen, Band 4, Frankfurt a. Main, Suhrkamp 1975, 494.