IL CRISTALLO, 2008 L 1 [stampa]

TACCUINO LONDINESE

di GRAZIA BRAVETTI MAGNONI

Tra i poeti minori del Novecento vale ricordare Libero de Libero, nato a Fondi nel 1906, morto a Roma nel 1961. Dai confini della provincia presto affrontando la Capitale, anche delle lettere e dell'arte. A Roma conobbe i letterati del momento, e con Alvaro, Bontempelli e Moravia fondò il quindicinale "Interplanetario", collaborando poi a "Belvedere" e "L'Italia letteraria". Assiduo frequentatore del Caffè Aragno vi conobbe Falqui, Sinisgalli, Ungaretti, Mafai, Scipione, Cagli, Gentilini. Come critico d'arte dal 1935 al 1938 diresse la galleria della Cometa, pubblicando poi su "Domus" un interessante sommario della stessa. Per De Libero, come critico d'arte, Mafai era l'artista che più lo commuoveva per il suo incantato lirismo pittorico.

Come poeta, pur inserito nell'ermetismo, egli resta fondamentalmente staccato dagli italiani contemporanei, sentendosi più vicino ai francesi ed agli inglesi, adatto dunque, ad un'Europa lontana dalle sue origini. Quindi, mentre della poesia ermetica coglie più a fondo quella del secondo Ungaretti, meglio si accosta in realtà al surrealismo. Tuttavia, anche se il suo ritmo è ribelle agli schemi tradizionali, la sua grammatica è sempre ineccepibile, il suo enunciato razionalmente insolubile. La prima raccolta poetica "Solstizio" (1932) viene pubblicata da Ungaretti sulle pagine dei "Quaderni di Novissima", seguita poi da "Proverbi" (1934), "Testa" (1936), "Eclisse" (1940), "Epigrammi" (1942), "Banchetto" (1945), "Di Brace in Brace" (1956). Anche altre, pur se minori, sono le raccolte di De Libero, che si concludono con "Scempio e Lusinga" nel 1972. Dopo la guerra emerge anche la sua attività di narratore e saggista che culmina negli scritti su Mafai, Masaccio e Maccari. Nella scrittura la sua è sempre lezione della parola poetica e del paesaggio, legata al tema costante della solitudine che gli appartiene come una scelta più che come questione di carattere. Per questo De Libero non fu mai poeta del grido, ma poeta di raccoglimento, sì che di lui Carlo Bo sottolinea "l'ostinato rigore" e l'"intrepida fede" in una sorta di "religiosità poetica che andrebbe ancora e meglio analizzata".

Nella raccolta "Di Brace in Brace" si denuncia la crisi dell'ermetismo, in un'epoca, quella del dopoguerra, il cui il poeta viene in urto con il nuovo concetto di letteratura. Inserito in questa raccolta appare, in cui il poeta viene in urto con il nuovo concetto di letteratura. Inserito in questa raccolta appare, come parte di un momento poetico assai particolare, "Taccuino inglese", nato da un soggiorno a Londra nel 1956, quando De Libero fu ospite dell'amico Filippo Donini, il direttore dell'Istituto Italiano di Cultura. Nel 1956 Londra è ancora metropoli ordinata, legata alle tradizioni, orgogliosa di altezzosità imperiale, intessuta di toni cosmopoliti ma anche di chiusure isolane. Sulla trama di tale realtà distante dal tessuto ove affondano le sue radici d'uomo e di poeta, i versi del suo "Taccuino" diventano un momento a se stante nella già varia ricchezza delle sue tante raccolte. Le "voci di fuoco" che caratterizzano "Di Brace in Brace", la loro drammaticità esasperata paiono affievolirsi a Londra e stemperarsi nel liquido cristallino di una natura apparentemente suadente. Anche se intesa come gelida e sfuggente "….Ogni domanda è ghiaccio di una lagrima, / luce svanita altrove ogni risposta." ("Serpentine").Anche se nulla cambia e neppur si modifica, tuttavia sul tappeto dei prati di Hyde Park si registra un'alchimia estraniante, "….Per tutto quel verde così verde incidi / presto il bagaglio rovente del mio Sud / e già in cenere è ridotto il suo profumo". (Serpentine). È così che il poeta lontano dai miti della cruda solarità del suo Sud, si accosta ai ritmi di questo nuovo momento di vita, certo a lui lontana, forse incomprensibile, ma che assapora come qualcosa di morbido e di tenero. Gli resta l'ansiosa ricerca di risposte e riscontri, ma qui a Londra, il suo tracciato tonale è più pacato, il linguaggio si smorza ed i toni appaiono più dimessi mentre il barocco del verso si stempera, s'ammorbidisce, si distende verso echi elegiaci. Le voci poetiche più distese nella loro incidenza si rifrangono nella diversità della nuova realtà, voci distanti da quelle della sua terra, dei brulicanti succhi del suo Sud; "Si sfoglia nell'aria guantata di Oxford Steet/ il mio catalogo di eccetera slabbrati" (Elegia in Oxford Street).

Rispetto ad altri percorsi più o meno degli stessi anni, come "Nodi di carta giapponese", i versi londinesi de Taccuino staccano decisamente da ogni atteggiamento di maniera, da ogni stereotipo folklorico, per farsi più leggeri, vuotati farsi urti improvvisi e drammatici, tipici per De Libero, quasi volesse puntare qui i suoi aculei in una più pacata limpidità. Mentre il senso doloroso del suo esistere pare smorzarsi in una più consapevole giustificazione del vivere. Suggestivo, ma in fondo vanificante, il ricordo, al Caffè Mozart, della sosta londinese di Mozart bambino, che abitò in Piccadilly. Per il poeta resta solo il nome, e neppure serve più l'armonia "…Cercami in quel caffè di smemorati/Al Mozart dov'entrano tutte le speranze / E n'escono le mie in fumo di sigarette" (Elegia in Oxford Steet). La sua sinuosità lascia spazi brevi a modeste illusioni, appena quelle de "…..la marcetta grinzosa d'un tamburo", o quelle del "…canto di un passero fannullone".

L'idea di Londra, oggettivata come precisa realtà geografica, in un procedere lievemente ondeggiante tra rarefazione e metafisico ricanta, mento elegiaco, stimola e registra impressioni nuove, pur sempre di estraniamento, aridità, solitudine, incomunicabilità. Sotto il loro smalto fragile e fugace, "Il cielo appassito nel tuo stagno" riflette il fallimento d'impossibili incontri, un continuo sbagliare di indirizzo, il senso di una vita senza speranza, né rincuora il ricorso al grottesco sfrontato, pur nel recupero di un'infanzia introvabile e sparita.

Inutile, dunque, il verde cristallino di Hyde Park, come l'aria guantata di Oxford Street. In ogni luogo si rinnova e riacutizza anche il senso doloroso ma inevitabile di frattura con la natura, come non era stato in nessun'altra parte della produzione poetica di De Libero. È una frattura che, nel fermo cristallino di una diversa atmosfera, qui può apparire più perfida e crudele: " ….Cacciatrice di volti sfatare il mio / Tu vuoi col sibilo infido della serpe (Serpentine). Sono indicazioni per confermare l'inutilità di luoghi "altri ", che, seppure sotto diversi cieli codifica il tempo di Greenwich, e sempre più s'incrina l'attesa e la ricerca di un vano impossibile "altrove".

I luoghi deputati dalla tradizione storica e nazionale, quelli dell'eleganza, della compostezza, del sex-appeal londinese, mentre effettivamente smorzano i bruciori della "brace" e gli accesi fulgori del suo "bagaglio rovente", ne limitano, però aperture ad altre speranze, sì che, anche quei luoghi, finiscono per apparirgli a loro volta corrosi, smontati dai loro miti, dalle loro leggende e rimontati nel solito punto focale che è sempre il magma sentimentale del poeta.

La Oxford di De Libero, così estranea e indifferente, chiusa ad ogni offerta d'amore, ritagliata nella solitudine, ricorda ben più che la via del progresso rutilante del benessere, quella allucinata dell'oppiomane Thomas De Qincey. A lui, che stava morendo, nessuno seppe porgere neppure un'occhiata, se non, infine quella di una sfiorita "belle de nuit" che lo soccorse con un più letale bicchiere di Porto. Si può passeggiare con grande eleganza per Rotten Row osservando, se si vuole, cavalli e cavalieri che caracollano, anche senza sapere che fu Giorgio I nel 1536, a rendere il parco aperto a tutti, mentre fu Giacomo III che, per farvi cessare i continui duelli serali e notturni, vi collocò ben 360 lumini ad olio, facendola divenire la prima strada illuminata di Londra. Per il poeta si sente invece il flebile lamento della cornetta del mendicante "….che canta / ogni sera alle anime risorte a Rotten Row". Anche nel Mall, l'ampio viale trionfale che da Trafalgar Square porta a Buckingam Palace, le panchine, fatte per plaudire al caracollare della guardia reale, diventano, nella poesia, "arrese spettatrici d'alienanti amplessi".

A Limehouse gli occhi dei fati illuminavano, un tempo, un'acqua imputridita da chiazze di nafta. La tensione tonale dei versi è alleggerita dalla mediazione culturale: A Limehouse, ove il poeta si reca con l'amico Donini, non ci sono più i docks e neppure il Grapes, il pub ove si recava Dickens per poi scrivervi "Our mutual friend". Fuori da Grapes si godeva uno spettacolo che riportava al romanticismo impressionistico di Turner, oppure alla leggenda del mostro di Limehouse, non tanto diverso da quello di Jack lo squartatore. Leggenda e realtà si intrecciano ed intersecano, moderni simboli di estraniamento, di incomunicabilità, di disperante solitudine: "L'ospite di Londra è armadio chiuso…./ Londra straniera a alloggia e non parla……/consegna la chiave di una casa/ mai quella cercata al suo indirizzo" (Suite londinese).

Anche a Londra manca sempre l'obolo per dimenticare la propria sconfitta. Anche Londra è dunque niente altro che la solita metafora, ma inserita nel quadro di una realtà, e quindi di un'ipotesi diversa, appunto quella anglosassone che, ammorbidendo i toni, contribuisce a rendere più netta la linearità di un vuoto esistenziale, di cui ancora una volta solo la poesia può tentare il riscatto. È forse questo il messaggio che giunge delle lettere chiuse - un topos della poesia di De Libero -, quelle lettere che, passeggiando per Londra, il poeta vede gettare sugli scalini alle soglie delle case, insieme forse, alle bottiglie del latte. E, in ogni caso, quanto il poeta stesso testimonia, in cifra aperta, questa volta, nel Elegia in Oxford Street "...restami tu presenza melodiosa, /in filigrana d'un verso spaurito / sulla pagina di questo mattino".