IL CRISTALLO, 2008 L 1 [stampa]

IL BISOGNO DI TEATRO

di UMBERTO GANDINI

C'è una gran voglia di teatro in giro per l'Italia e forse anche del mondo. Gli spettatori accorrono numerosi come non mai, disposti ad applaudire anche qualche mediocrità pur di abbandonarsi alla sensazione piacevole dello «stiamo facendo qualcosa insieme», gli uni sul palcoscenico, gli altri seduti in platea, ma tutti carnalmente presenti a celebrare un evanescente rito dell'immediatezza che appaga un qualcosa d'importante, evidentemente, altrimenti il fenomeno non si spiegherebbe. Il teatro – il mondo del teatro – è ben consapevole di questo bisogno che c'è di lui, ma anche del rischio che continuamente corre di non riuscire a corrispondervi adeguatamente per non essere stato capace di rinnovarsi, per essere scaduto nella ripetitività, per essere diventato un qualcosa di museale.

Ed ecco quindi che, dalla tensione fra la domanda di teatro e il timore di non essere abbastanza vivamente all'altezza della situazione, scaturiscono gli esperimenti, i tentativi di uscire dalla tradizione, le invenzioni, i confezionatori di nuove ciambelle teatrali che però – come capita a volta a tutte le specie di ciambelle – non sempre riescono col buco.

Se ne è avuto un esempio suggestivo e clamoroso proprio dall'ultimo capitolo dell'ultima stagione teatrale di Bolzano alla quale sono dedicate queste considerazioni. Da Barcellona è venuta in Alto Adige, preceduta da una buona fama di troupe sperimentale e da un gran battage pubblicitario, la Fura dels Baus, a rappresentare una sua fantasiosa versione del «Boris Godunov», ovvero a discettare, in palcoscenico e in platea, sul problema del potere e di una delle armi più importanti a disposizione del potere (d'ogni specie di potere), la violenza.

Ben consapevoli della fame che c'è in giro di teatro, della voglia che ha la gente di partecipare dal vivo agli eventi, i teatranti catalani hanno pensato bene di venire incontro all'esigenza nella maniera più clamorosa: prendendo gli spettatori in ostaggio e puntando loro una dozzina di mitra in faccia. L'idea è stata ripresa da un evento vero: l'irruzione in un teatro di Mosca, anni fa, d'un gruppo di guerriglieri ceceni, proprio mentre vi si rappresentava il «Boris Godunov». Finì in un macello: le truppe speciali di Putin fecero irruzione nel teatro, accopparono i guerriglieri e con loro una buona parte degli spettatori. Lo spettacolo della Fura dels Baus ha ricostruito l'evento fin nei più minuti particolari, meno che per il finale bagno di sangue. Gli autori della pensata miravano evidentemente a coinvolgere del pubblico non solo l'attenzione ma anche le emozioni, facendogli provare dal vivo la paura. Non hanno tuttavia tenuto conto d'una cosa: la gente, sì, ha voglia di teatro, ma non è mica scema. Quando in sala irrompono gli attori con i passamontagna sul volto e i kalashnikov in mano, e si aggirano trucemente per la platea, gli spettatori non s'impressionano minimamente perché sanno che è tutto un trucco. Anziché farsela addosso dalla fifa, ridono. E ridendo, indicandosi l'un l'altro i finti terroristi, non prestano la benché minima attenzione al discorso sul potere che (abbastanza retoricamente, con molta enfasi e poco succo) gli attori si sforzano senza successo di comunicare.

Morale della favola: è vero, il teatro deve rinnovarsi, deve trovare linguaggi freschi per mostrarsi all'altezza del bisogno che c'è di lui; ma non sempre i suoi sforzi sono coronati da successo, come si è constatato al cospetto del teatro col mitra venuto dalla Spagna.

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L'innovazione più solida messa a punto dal teatro in cerca di nuove strade ha ormai qualche annetto, ma è sempre ancora valida: l'affabulazione. Un attore si piazza in scena con scarsissimo apparato scenografico attorno, guarda gli spettatori in faccia e gli racconta qualcosa. Se sa raccontare bene, se ciò che racconta è interessante, può andar sul sicuro: lo ripagheranno con tanti applausi e tanta reciproca soddisfazione. L'esempio più clamoroso di questo genere abbastanza recente di teatro ha avuto per protagonista, a Bolzano la scorsa stagione, non un teatrante ma un giornalista-scrittore che non aveva in precedenza mai calcato le scene: Marco Travaglio. Ha un suo pallino al quale si dedica, per lo più, scrivendo libri: vuole dimostrare che Silvio Berlusconi non è degno di governare l'Italia per ragioni che ormai tutti sappiamo a memoria, gli uni condividendole e gli altri no. Poco meno o poco più – a seconda degli umori politici contingenti – della metà degli italiani sono d'accordo con Travaglio, e quindi Berlusconi, a fasi alterne, sale sugli altari o precipita nella polvere. Marco Travaglio, non contento di spiegare le sue ragioni per iscritto, ha deciso ora di dirle anche a voce, nei teatri d'Italia. Con un successo strepitoso, come si è visto a Bolzano dove è venuto invitato dalla Comune. Due serate strapiene di pubblico, con centinaia di persone che hanno dovuto accontentarsi si vedere il fustigatore del Berlusca su un maxischermo, fuori dal teatro, perché dentro non c'era posto. E, dentro e fuori, entusiasmo alle stelle.

Si scopre così che moltissime persone vanno a teatro non per misurarsi con un problema, non per divenire parte di un rapporto di interazione dialettica, ma per essere complici. Gli spettatori di Travaglio sapevano benissimo prima che cosa il giornalista improvvisatosi narratore orale avrebbe loro raccontato. Nessuno aveva bisogno di togliersi dei dubbi. Sono venuti a teatro con la certezza già in tasca. Quelli che non erano d'accordo, i fan del Berlusca cioè, non si sono prestati al gioco e sono rimasti a casa. Le due serate di Bolzano, e presumibilmente anche le altre in giro per l'Italia, si sono risolte così in un tripudio teatrale a una sola dimensione.

Che ci sia il bisogno della complicità alla base del successo degli affabulatori lo si è potuto verificare a Bolzano, nella stagione appena conclusa, anche in almeno altri tre casi che hanno avuto per protagonisti tre attori-autori da una parte, e il loro pubblico di complici-fan dall'altra.

Moni Ovadia, in «Una bella utopia» (altro spettacolo proposto dalla Comune), ha rinunciato al suo tema prediletto, quello dell'ebraismo, per discettare sull'Unione Sovietica: un discorso pieno di nostalgia per ciò che l'URSS sarebbe potuta essere se l'utopia del paradiso dei lavoratori si fosse realizzata, e pieno di rammarico per il malo modo in cui il sogno è finito. Il pubblico, che in questo caso non se l'aspettava, dopo un primo momento di sconcerto, si è lasciato trascinare, e gli spettatori meno giovani in particolare hanno condiviso e goduto fino in fondo quello che Ovadia andava dicendo, cantando e rappresentando. Alcuni si sono commossi fino alle lacrime ripensando alle illusioni delle loro giovinezze, e tutti, giovani e meno giovani, si sono sentiti profondamente coinvolti e presi dalla seduzione mentale ed emotiva proposto dall'affabulatore.

Ascanio Celestini, con il suo «Appunti per un film sulla lotta di classe», spettacolo compreso nel programma allestito dallo Stabile, ha fatto un discorso molto simile: tanta nostalgia, tanta rabbia repressa e sublimata in ironia, tanto rammarico al servizio del lavoratore precario, uno dei prodotti più infami del moderno sfruttamento capitalistico (e delle leggi con cui è in combutta, quelle del libero mercato). Il clima di complicità fra la sala e l'affabulatore è sorto quasi subito ed è andato in crescendo. Alternando abilmente le corde del ragionamento e del sentimento, Celestini ha trascinato tutti dalla sua, divertendo amaramente e provocando anche lui il formarsi di groppi in gola: quando, esilissime sullo sfondo, appena percettibili, si son sentite, quasi timorose e sicuramente intimidite dal (brutto) corso dei tempi, le note dell'«Internazionale».

Ma allora – dirà a questo punto qualcuno - l'affabulazione teatrale con relativa complicità fra attori e spettatori funziona solo quando c'è di mezzo la politica! No. Nient'affatto. E lo ha dimostrato a Bolzano, anche in questo caso per lo Stabile, un attore di ottant'anni: Paolo Poli. Anche di lui si sa benissimo, a priori, che cosa offrirà e, pregustandolo, ci si presenta a teatro complici, disposti ad assecondarlo. Stavolta, per il suo spettacolo pieno di amabili sconcezze e di cattiverie al vetriolo, offerte col garbo di chi non ha mai smesso per una lunga vita di divertirsi delle cose di pessimo gusto, Poli ha scelto «Sei brillanti» pezzi di altrettante giornaliste italiane. E li ha porti al pubblico con i suoi inimitabili ammicchi, il gusto dello sberleffo, l'amore per il travestimento e la bizzarria.

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Il rapporto diretto e immediato di un attore – di un solo attore - con il pubblico è evidentemente uno dei segreti del successo di questi spettacoli, che non a caso sono stati molto frequenti, se non addirittura numericamente prevalenti la scorsa stagione teatrale. Ai quattro sui quali ci si è appena soffermati bisogna infatti aggiungerne altri quattro, di disparata qualità ma tutti insieme indice di un trend, d'una tendenza vistosamente caratteristica del teatro di questi tempi.

Uno è una produzione del Teatro Stabile di Bolzano che sta ancora girando le scene: «Sinigo» del meranese Andrea Rossi, con Andrea Castelli protagonista dell'one-man-show bene diretto da Antonio Caldonazzi. Il racconto delle vicende storiche del sobborgo di Merano è molto avvincente nella prima parte, che racconta della colonizzazione di quella che era in sostanza solo una palude da parte di contadini veneti allettati in Alto Adige dal regime fascista. Nella seconda parte, quella che si sofferma sulle vicissitudini del borgo durante la guerra, la tensione cala un po' per una sovrabbondanza tematica che scade a momenti nel luogo comune. Però la prestazione di Andrea Castelli è veramente formidabile. È uno di quegli attori istintivi che sanno catturare l'attenzione con la sola presenza scenica, e lui ha arricchito e raffinato questa dote naturale con tanta e paziente perizia.

Gioele Dix si è fatto invece applaudire in «Tutta colpa di Garibaldi», un testo scritto da lui assieme a Nicola Fano e a Sergio Fantoni, quest'ultimo anche regista della rappresentazione, andata in scena al teatro Cristallo per il programma della Comune. Il ritratto di Garibaldi che esce dal racconto dell'affabulatore è in questo caso quello di un Che Guevara ante litteram: anche lui generoso eroe popolare, anche lui osteggiato in vita da quasi tutti e poi da quasi tutti osannato da morto. La carica eversiva rappresentata da Garibaldi è stata disinnescata intitolandogli piazze e elevandogli monumenti, quella costituita dal Che cialtronizzandolo sulle magliette fungibili, buone sia per la destra che per la sinistra. Tutto questo Gioele Dix dice con misura e simpatia, catturando l'approvazione degli spettatori.

Altrettanto bravo – per il cartellone dello Stabile – è stato Massimo Lopez in uno show tutto dedicato a Sinatra. Di queste performances individuali la sua è stata la meno teatrale: sembrava di assistere a uno spettacolo televisivo. Però Frankie Sinatra e la sua voce hanno ancora una tale carica coinvolgente che la complicità – in questo caso nostalgico-melodica - con il pubblico si è instaurata quasi automaticamente.

Non sempre tuttavia la formula del monologo funziona. Ne sanno qualcosa gli spettatori che hanno seguito Rita Maffei in «L'arte e la maniera di abbordare il proprio capufficio e chiedere un aumento di stipendio» di Georges Perec. L'allestimento, compreso fra gli «Altri percorsi» dello Stabile bolzanino e allestito dallo Stabile di Trieste, era molto ambizioso. Il pubblico, in numero limitato, è stato fatto sedere su due tribune in mezzo alle quali, girando attorno a un tavolo carico di ogni genere di ciarpame, la Maffei si è arrampicata sulle acrobazie linguistiche di Perec. Il desiderio d'innovare rispetto alla tradizione scenica, di esperimentare qualcosa di inedito, era evidente, però il tentativo non ha funzionato. All'iniziale curiosità è ben presto subentrata la noia, e quindi nemmeno un po' di complicità fra attrice e pubblico.

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E il teatro tradizionale? Quello, per intenderci, con tanto di quarta e trasparente parete a dividere gli attori in scena e il pubblico in sala? Se ne è visto parecchio, per lo più buono, e per lo più scalpitante anche lui, in cerca cioè di soluzioni nuove per rivificare la routine.

Cominciamo dagli spettacoli belli ma senza particolari pretese d'innovazione. Si è vista, per esempio, una godibile versione del «Gatto in tasca» di Georges Feydeau, allestita per lo Stabile di Trieste da Francesco Macedonio: molto divertente, senza sprechi di fantasia, tutta giocata sul meccanismo di comicità a orologeria così tipico del teatro di Feydeau.

Altrettanto bella, ma di tutt'altro genere, «La leggenda del regno di Fanes» di Bruna Veneri Dal Lago, una produzione del Teatro Stabile di Bolzano messa in scena da Paolo Bonaldi: un trionfo della fantasia. Fantasia dei ladini che hanno distillato nei secoli il loro epos, fantasia dell'autrice che è riuscita a dare sufficiente concretezza scenica a una materia «di cui son fatti i sogni», e fantasia infine del regista che ha escogitato mille sapienti cose per corroborare la rappresentazione.

Alessandro Gassman ha piacevolmente sorpreso il pubblico bolzanino con un'edizione coinvolgente di «La parola ai giurati» dello statunitense Reginald Rose. Uno spettacolo della più risaputa tradizione teatrale (anche se il copione era di derivazione cinematografica), però diretto e interpretato con perizia. Non è da tutti riuscire a tenere insieme in palcoscenico, per tutta la lunga durata d'una rappresentazione, dodici attori senza farne scadere mai nessuno, neppure per qualche momento, al ruolo di comparsa. Gassman ci è riuscito.

Nel solco della tradizione va collocata anche una splendida edizione della machiavellica «Mandragola», che si è vista a Bolzano nella confezione curata da Marco Sciaccaluga per lo Stabile di Genova, con Ugo Pagliai nei panni di Messer Nicia. Il fatto stesso che il pubblico abbia accolto, capito e apprezzato senza difficoltà l'italiano cinquecentesco del Machiavelli dice quanta perizia è stata positivamente investita nella resa scenica di questo classico copione.

Assai bella – una delle cose migliori dell'intera annata teatrale – è apparsa la versione di «Le lacrime amare di Petra von Kant» di Rainer Werner Fassbinder, una produzione dei teatri stabili dell'Umbria e di Torino affidata alla regia di Antonio Latella, con Laura Marinoni nei panni della protagonista. Un mélo buttato sul grottesco, con sei donne alle prese con tormentoni esistanzial-sentimentali, per lo più futili, e dai quali il regista induce lo spettatore a prendere critica distanza ricorrendo a una serie di invenzioni sceniche decisamente apprezzabili, come per esempio l'uso delle ombre cinesi.

Molto divertente e colorita è stata «La concessione del telefono», farsesca versione teatrale di un racconto di Andrea Camilleri curata da Giuseppe Dipasquale per lo Stabile di Catania: uno spettacolo tutto costruito per dar modo a due attori (anche) dialettali, Tuccio Musumeci e Pippo Pattavina, di dar saggio delle loro avvincenti virtù istrioniche.

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Si sono viste anche cose brutte o di cattivo gusto, nell'arco della stagione: è ovvio. Fanno parte del gioco e consentono di apprezzare di più, per contrasto, quelle belle e di buon gusto. Le due rappresentazioni più scadenti sono state offerte entrambe dalla Comune: un «Diario di Eva» con Lucia Poli (la sorella di Paolo, ma la differenza non si limita al sesso!...), decisamente dozzinale. E un «Sindaco del rione Sanità» di Eduardo De Filippo con Carlo Giuffrè. Il testo di per sé – l'affresco di uno dei tanti aspetti della variopinta realtà partenopea - non è riprovevole. Riprovevole invece è stato l'allestimento scenico: non si può, con i tempi che corrono, offrire al pubblico un boss della camorra buono, paternalista, simpatico, senza tentare nemmeno minimamente un approccio critico.

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Torniamo alla sperimentazione, alla necessità che il teatro avverte di cambiamento per rispondere in modi sempre più aggiornati e fantasiosi al diffuso bisogno che c'è di lui. E torniamo a parlarne a proposito di un regista, Luca De Fusco, di cui si son visti durante la stagione due allestimenti, messi in scena per gli stessi enti teatrali, gli Stabili del Veneto e di Catania. Ha scelto due classici, l'«Elettra» di Sofocle e «Il mercante di Venezia» di Shakespeare, con l'evidente proposito non di dire qualcosa di nuovo – le parole di Sofocle e di Shakespeare sono quelle, e di lì non si scappa – ma di inventare qualcosa di nuovo per dirle. Ed è pervenuto a due risultati del tutto opposti.

Ha affrontato l'«Elettra» con il piglio di certi recenti registi germanici, di quelli cioè che – pour épater les bourgeois – sono tentati dalla voglia d'ambientare i pirandelliani «Sei personaggi» nello spogliatoio d'una squadra di calcio, nell'intervallo d'una importante partita, con Madama Pace che oscilla sopra di loro appesa in mutande a un trapezio; oppure «La vedova allegra» di Lehar nel reparto malati terminali di un ospedale oncologico. Lui ha preso l'«Elettra» solare e mediterranea e l'ha immersa nel buio più spettrale, illuminato soltanto da una zucca di Halloween, e ha immaginato la reggia di Micene sotto terra, in una specie di cratere lunare o tana di talpa in cui Oreste deve tirare Egisto per i piedi per riuscire a farlo fuori. Il tutto mentre Elettra (Lina Sastri) vaga per la scena pronunciando di ogni parola solo la prima metà e «mangiandosi» a seconda. Una frana inguardabile.

De Fusco ha stravolto con piglio non meno dissacrante «Il mercante di Venezia», però in questo caso ha saputo trarne fuori qualcosa di affascinante. Ha ambientato la storia dell'ebreo Shylock (uno splendido Eros Pagni) che vuole farsi pagare con una libbra di carne umana e la cui pretesa, perfettamente legale, è però vanificata dai cristiani con argomentazioni da azzeccagarbugli (detti da una Gaia Aprea che sembrava la Dietrich diretta da Sternberg), negli anni trenta del Novecento, alla vigilia della shoah: con citazioni di cinema à la «Casablanca», di commedie musicali sofisticate, piano-music e capelli tagliati alla maschietta. Ne è risultato un pastiche stridulo e paradossale, reso ancora più inquietante da una straordinaria scena di Antonio Fiorentino, fatta di prismi a specchi che moltiplicavano e – contemporaneamente – rendevano evanescente tutto.

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E Marco Bernardi? si chiederà a questo punto qualcuno.

Il direttore dello Stabile altoatesino non vive fuori dal mondo e ha quindi colto benissimo l'aria da rivoluzione che tira a teatro. E, incerto fra la tradizione di cui è un raffinato e aggiornato cultore, e il bisogno di rinnovamento che sente pure lui, ha scelto come spettacolo clou della stagione bolzanina il più tradizionale dei testi di e sulla sovversione teatrale: «Il teatro comico» di Carlo Goldoni che racconta, dietro le quinte d'una compagnia, la rivoluzione che il grande veneziano stava compiendo col traghettare il teatro dalla maniera delle maschere verso l'invenzione dei caratteri. Bernardi lo ha fatto cucendo insieme in uno spettacolo amabilissimo uno dei vezzi più gradevoli del più teatrale dei generi teatrali: il duetto del melodramma. Placida-Rosaura (Patrizia Milani) ha duettato con il suggeritore (Maurizio Ranieri), il capocomico Ottavio (un Carlo Simoni da manuale) con l'aspirante attrice (Gianna Coletti), Pantalone (Alvise Battain) con il Dottore (Libero Sansavini), Arlecchino (Luigi Ottoni) con Brighella (Alberto Fasoli). Mancava, per completare l'opera, solo la musica di un altro grande rivoluzionario della tradizione come Mozart.