IL CRISTALLO, 2008 L 1 [stampa]

GIUSEPPE O. LONGO, La camera d'ascolto, Mobydick, Faenza, 2006, pagg. 190

recensione di WALTER CHIEREGHIN

Per darsi ragione delle cose, delle forze che le muovono o le tengono in equilibrio, per scoprire i nessi intercorrenti tra esse che rendano plausibile e coerente un quadro d'assieme, l'uomo dispone di una intelligenza di tipo per così dire aristotelico, classificatorio, formalizzante. Questa intelligenza, che è alla base di ogni conoscenza di tipo scientifico, si esercita nel tentativo di far apparire la realtà sotto una luce scialitica, che abbia ragione di ogni oscurità, che frughi in ogni recesso dell'esistente eliminando tutte le zone d'ombra. Tale luce meridiana sembra illuminare esaustivamente ogni cosa. Però, ripensandoci, ci rendiamo conto che la luminosità abbacinante del sole c'impedisce, ad esempio, di vedere le stelle.

Esiste un'altra forma di intelligenza, del tutto differente, per così dire chiaroscurale, notturna, platonica, procedente per intuizioni ed illuminazioni improvvise, esattamente com'è nello spazio tra i mondi, dove stelle,pianeti, asteroidi e comete elargiscono suggestioni luminose nel buio della notte cosmica. A sua volta questa seconda intelligenza (che è in effetti un altro aspetto dell'unica intelligenza esistente) riesce a collegare tali puntiformi momenti ordinandoli in più complessi sistemi, in costellazioni che agevolano la contemplazione, la comprensione e l'orientamento.

Nei suoi libri, Giuseppe O. Longo ha la singolare ventura di muoversi tra queste due modalità dell'intelligenza, essendo al contempo partecipe di entrambi i mondi, quello ordinato e sistematico della scienza, quello irrequieto, suggestivo e talvolta lancinante dell'invenzione poetica.

Ingegnere, matematico, professore ordinario di Teoria dell'informazione all'Università di Trieste, Longo è autore, in primo luogo, com'è ovvio, di una messe di pubblicazioni scientifiche sulle quali poggia il suo lavoro di ricerca e didattico e che segnano quindi le tappe della sua carriera accademica. Accanto a queste pubblicazioni, talvolta intrecciandosi con esse in contaminazioni all'apparenza improbabili, vi sono poi le opere letterarie: tre romanzi, testi teatrali, racconti che spaziano in ambiti diversi, ma quasi sempre contigui al variegato universo degli interessi dell'autore: il meccanismo della conoscenza, le problematiche connesse alla tecnologia trionfante, il tentativo di tratteggiare gli scenari di un prossimo o remoto futuro. Ma anche, e soprattutto, un'introspezione priva di compiacimenti e di misericordia, condotta con l'algida lucentezza di un bisturi a frugare nelle pieghe del suo proprio sentire, nell'esplorazione meticolosa di emozioni e stati d'animo, nell'individuazione dei legami che tengono assieme le individualità in reti complesse e misteriose.

La camera d'ascolto (Mobydick, Faenza, pagg. 190) è l'ultimo dei libri di narrativa pubblicati da Longo che indaga appunto su tali legami interpersonali, esplorando con passionale lucidità in primo luogo quelli più stretti: i legami con la famiglia, con le donne amate, gli abbandoni subiti e inferti, ma soprattutto con ricorrente e tormentata assiduità, quello fondante con la figura materna, vissuta all'interno di ossimoriche contraddizioni come antagonista, humus in cui affondano le sue (le nostre) più confitte radici, permanente centro di gravità da cui ci allontana un inesausto conato centrifugo e a cui ci vincola, al contrario, un'invincibile forza centripeta.

Fin da Una semplificazione del dolore, il primo racconto di questa raccolta, Longo ci invita a sfogliare un suo album di famiglia, in cui sono fissati in istantanee – alcune scattate prima della nascita dell'osservatore, che ripercorre avanti e indietro le pagine, a indovinare e ricostruire collegamenti talora evidenti, il più delle volte ermetici- singoli momenti di un'esistenza vissuta, come tutte, entro un problematico recinto di affetti. È una scansione emotivamente satura di consapevolezze, in bilico tra passato e futuro, un'autobiografia concentrata in nove facciate soltanto. Di più: si tratta di una saga familiare formato mignon, dove l'esiguità dello spazio che l'autore si assegna lo spinge talvolta a una concentrazione di straordinaria intensità, al limite dell'epigramma (per esempio parlando del figlio bambino: "Per lui ho poco tempo. Oggi lui ha poco tempo per me"). E di salti improvvisi tra il tempo attuale e il tempo remoto – e viceversa – è fatto tutto il racconto quasi a disegnare una misteriosa circolarità, una mimetizzata ciclicità.

In questo racconto, come in tutto il volume la narrazione e le immagini sembrano tracciare, più che il percorso di esplorazione di una superficie, una ricerca geologica in profondità volta a individuare i successivi strati sottostanti a quella superficie, all'insegna di un'osservazione analitica sempre orientata alla dimensione della verticalità più che a quella dell'orizzontalità. Ciò che alla fine si presenta all'attenzione del lettore è il risultato di un carotaggio, dove ogni cosa sembra rinvenire la sua ragione causale di un altro, più profondo strato.

L'ambientazione mitteleuropea dei racconti, la prosa articolata e complessa di Longo, l'uso di termini poco frequenti nel linguaggio comune, certe soluzioni stilistiche che tendono allo sperimentale (forma epistolare, dialogo, monologo interiore e soprattutto, in alcuni casi, l'assenza di segni d'interpunzione), un'attenzione spasmodica alla psicologia dei personaggi messi in scena, la continua e continuamente frustrata ricerca di un senso profondo delle cose sono tratti che connotano uno stile da tempo maturato e sicuramente assai originale.

Per concludere: all'inizio di questa nota s'era parlato d'invenzione poetica e rimane ancora da dire che in molti punti (penso, ma è solo un esempio, all'incipit di La camera d'ascolto) la prosa di Longo trova accenti d'autentico sofferto lirismo. Quasi ad affermarci che anche nelle più spericolate incursioni nel nero dell'angoscia e del dolore, alle soglie della morte, l'unico labile appiglio cui possa aggrapparsi la nostra speranza è quello della poesia: l'arduo gioco di trovare nella parola il riflesso e il calore di quella vita che sembra esserci sottratta dall'ineluttabile fluire del nostro tempo, dall'apparente assenza di un senso delle cose, e di noi.