IL CRISTALLO, 1960 II 2 [stampa]

VITA DI UN TEATRO

di FANTASIO PICCOLI

Il teatro, la sua crisi, i suoi problemi: questo uno degli argomenti che ricorre, ormai si può dire a memoria d'uomo. Tutti ne parlano, molti ne discutono, e le sentenze, i giudizi, le proposte non mancano. Ciò che forse manca è la volontà di affrontare seriamente il problema, guardando magari ciò che in proposito si è fatto e si fa, con notevole successo, in altri paesi non molto lontani dal nostro.
Anche in un recente incontro tra scrittori ed attori tenuto da Vittorio Gassman e Luciano Lucignani si è dibattuto in lungo e in largo il problema finendo nella conclusione, ormai abituale: la crisi dipende dal pubblico. L'unico ad essere meno pessimista è stato proprio Gassman che avvertendo i primi sintomi di un mutamento non ha deposto la speranza per una vicina rinascita. Che questa parola di fede sia venuta da chi a ragione può dire di essere una delle figure più attive e rappresentative del teatro italiano, ci fa ben sperare sulle sorti di quest'arte in cui noi continuiamo a credere con ferma convinzione.
In Italia non sono molte le città che possono vantare un teatro stabile; ma tra queste vi è Bolzano che, a dire il vero, non ha fatto molto per meritarsi questo privilegio. Per una serie di circostanze, che non è il caso di ricordare, il nostro Teatro Stabile ha avuto, suo malgrado, una vita precaria che gli ha reso difficile il contatto con il pubblico che pur tuttavia più di una volta ha mostrato di desiderare ed apprezzare una seria attività teatrale. La vita di un teatro è un po' lo specchio di una città, soprattutto quando questa è una città di provincia come la nostra. In esso si riflettono le vicende cittadine ed ognuno di noi può riconoscervi, a lungo andare, una parte di se stesso. È per questo che abbiamo voluto presentare una storia completa del Teatro Stabile dalle sue origini, quando fece la sua prima comparsa in Bolzano nell'immediato dopo guerra col nome di «Carrozzone», fino alla sua ultima stagione; e pensando che nessuno meglio di chi ne aveva vissuto dal di dentro le ansie, le peripezie, i successi e gli insuccessi, poteva creare un quadro reale di ciò che è un teatro, abbiamo invitato Fantasio Piccoli a narrarci la storia della sua Compagnia. Riteniamo che sia interessante ripensare a più di dieci anni di vita cittadina attraverso le vicende di un teatro che è nato ed ha operato per noi.
Il valore profondamente umano che il teatro racchiude in sé, potrà essere meglio compreso seguendo in queste pagine le ansie, le fatiche e la fede generosa delle persone che gli hanno dato vita.

Il 1° ottobre 1950 il traballante sipario del Teatro Cinema «CORSO» Si apriva su di una scena grigia e bianca, due casette stilizzate che richiamavano il gusto di antichi vasi Etruschi stagliate su di un cielo azzurro. In quella scena si agitavano curiosi personaggi vestiti di bianco, pure simili ai personaggi disegnati sui vasi Etruschi. La recitazione espressiva, mimata e musicale all'inizio lasciava il pubblico perplesso. Lo spettacolo era inusitato. A poco a poco un fluido di simpatia conquistava il pubblico, che via via si accendeva, rideva, applaudiva.

Lo spettacolo era il «Miles Gloriosus» di Plauto. Il primo incontro tra il mio vecchio «Carrozzone» e il pubblico di Bolzano avveniva in una atmosfera di particolare allegria.

In quel tempo a Bolzano non conoscevo nessuno, quella fu la sera dei primi incontri.

Dopo lo spettacolo, dieci o quindici persone erano venute a salutarci. Io non sono mai stato molto bravo nelle «public relations», ma allora avevo due aiutanti eccezionali: Romolo Valli, giovane emiliano laureato in giurisprudenza e allenato ad una dialettica raffinata e mondana, e il conte Gian Carlo Galassi Beria, di animo gentile e cordiale, come è molto spesso la gente dell'Umbria.

Primo ad affacciarsi alla piccola porta del palcoscenico fu un signore dal volto giovane, in curioso contrasto con i capelli bianchissimi.

«Sono architetto» diceva «e sono amico dell'arte e degli artisti. Consideratemi dunque amico vostro». Parlava con accento lievemente veneto, io pensavo che assomigliava a Carlo Goldoni.

In disparte stava un uomo alto, col volto tagliato in due da un paio di baffi neri. Qualcuno mi disse: «quello è un musicista». Ricordo che fu l'ultimo a presentarsi, e non capivo bene se la sua fosse timidità o scontrosità.

C'erano alcune signore belle, eleganti e in mezzo a tutti girava assai preoccupato nelle presentazioni e nelle strette di mano un uomo di piccola statura, non ancora trentenne, dalla voce simpaticamente nasale. Era amico di tutti, il «liberale» ad oltranza.

L'impressione che ebbi quella sera fu gradevolissima, e tuttavia poco avevo capito delle persone che avevo incontrato. Il giorno dopo fui ricevuto dal Sindaco. La grande anticamera del Municipio, con i suoi marmi bianchi mi mise allegria. Su di un enorme tavolo stavano 4 o 5 portacenere pure di marmo, che attirarono la mia attenzione. Ho sempre adorato i portacenere, ma quelli erano i portacenere ideali, portacenere che ognuno vorrebbe avere in casa. Il commendatore Lino Ziller, Sindaco di Bolzano, mi fece attendere poco meno di un'ora. Quel giorno mi rattristai un poco di tanta attesa. In seguito mi ci abituai. La cordialità, l'affettuosità, l'intelligenza del Sindaco Ziller, il tono irresistibilmente desolato con cui si scusava per il lungo ritardo toglieva al visitatore ogni risentimento per anticamere che qualche volta potevano durare anche due o tre ore.

Mi accompagnava quel giorno dal Sindaco Luciano Perselli, il «liberale» ad oltranza della sera prima. Il discorso col Sindaco fu rapido e conclusivo. Il mio «Carrozzone» Si sarebbe trasformato nel Teatro Stabile di Bolzano. Roma assicurava una sovvenzione, il Comune dava al Teatro Stabile il suo stemma, una sede, e ogni appoggio necessario.

Qualche giorno dopo nella stanza del vice-commissario del Governo (era allora il dott. Benussi) si riunivano il Sindaco Ziller, il dott. Franz De Biase in rappresentanza della Direzione Generale del Teatro, un rappresentante della Provincia di Bolzano ed altre personalità cittadine. In quella seduta nasceva il Teatro Stabile di Bolzano.

Bolzano nel 1950 risentiva ancora profondamente le ferite della guerra. Le cicatrici erano visibili nelle mura come negli animi. Difficile era costruire, difficilissimo era accordare gli animi divisi da esperienze dolorose e recenti. Io ero preso dai miei sogni, e non riuscivo a capire, oppure non vedevo quali difficoltà dovesse superare il Sindaco per offrirci una vita per lo meno ordinata e conseguente. Chi limitasse queste difficoltà agli inevitabili attriti tra il gruppo etnico italiano e tedesco certo sarebbe in errore. Cercherò di elencare tutti i motivi che resero sin dall'inizio difficile la nostra esistenza.

  1. Gli Italiani di Bolzano, arrivati qui in epoca diversa, in circostanze diverse, da regioni diverse, non formavano una società, con tradizioni e costumi comuni. Ora è evidente che la vita di un Teatro si appoggia soprattutto su di una società che per tradizione e per costume ne reclama l'esistenza.
  2. La formula del Carrozzone, anti-conformista, e perciò allergica agli istrionismi, ai compromessi commerciali, ai divismi, poteva essere compresa da una minoranza intellettuale come poteva conquistare un pubblico nuovo e privo di inibizioni mondane: ma poteva prestarsi facilmente ad interpretazioni equivoche, di dilettantismo, di superficialità, di antiteatralità.
  3. L'orientamento verso un repertorio di poesia non facilitava certamente l'incontro con la maggioranza che sarebbe stata conquistata più facilmente da un repertorio meno elevato.
  4. La mia fedeltà ad un repertorio di poesia, e di conseguenza l'affermazione spesso categorica della validità della strada intrapresa, la mia insofferenza nei confronti di polemiche che mi apparivano sterili e inconsistenti non rendevano certo semplice la vita al mio Teatro.
  5. La passione politica che pure senza manifestazioni evidenti in realtà è molto viva in Bolzano, e crea spesso profonde divisioni tra famiglie e famiglie, non poteva che surriscaldare ogni possibile attrito.
  6. A tutto questo si può aggiungere la complicazione degli inevitabili conflitti ideologici e pratici tra i due gruppi etnici.

Ripensando a tutto questo mi rendo conto che il Sindaco Ziller guidò la mia navicella in un mare veramente tempestoso e fu malgrado tutto un buon nocchiero. Tanto più che da parte mia dovetti dar prova di molta insofferenza, preso com'ero dalla mia passione che era, come è oggi, prima di tutto teatrale.

Risolvere il problema della sede non fu facile. In seguito a lunghi colloqui si arrivò tuttavia a costruire un palcoscenico nel grande salone del Conservatorio di musica.

Dopo tre anni di vagabondaggio e dopo tanta attesa avevamo finalmente un teatro nostro. Nostro per modo di dire, perché eravamo ospiti del Conservatorio, o dovevamo fare i conti col padrone di casa, il maestro Cesare Nordio. Il maestro Nordio fu, in quei due anni di teatro al Conservatorio, un padrone di casa ospitale e sostanzialmente cordiale. Divenne anche un nostro prezioso collaboratore, quando misi in scena la Medea di Euripide, per la quale scrisse i commenti musicali.

La compagnia era allora formata da Valentina Fortunato, Lalla Mauri, Adriana Asti, Renata Padovani, Pierette Strada; e da Ugo Bologna, Romolo Valli, Giancarlo Galassi Beria, Aldo Trionfo (con lo pseudonimo di Ferri), Alessandro Esposito, Afro Saccani. Scene e costumi erano affidati a mio fratello Augusto, a Luca Crippa e a Gianfranco Padovani.

I primi contatti con Bolzano si sviluppavano cordialmente. Un luogo di ritrovo fondamentale era il ristorante Kofler. Qui prima di pranzo, tra le sette e le otto, trascorrevamo spesso un'ora di distensione. Qui si conversava, si discuteva, qui si imparava come fosse facile bere cinque o sei bicchieri di Maddalena e di Terlano in un'ora. Maestro di accanite discussioni e di allegre bevute era Aladar Janes, il giovane direttore d'orchestra dai capelli rossi, che in quei tempi dava le prime prove del suo talento. Accanto a Janes ricordo Pino Negri, che nella discussione portava un accento di serenità e di equilibrio. Da Kofler ci incontravamo anche con molti giovani del gruppo tedesco. Mi piacevano, ed eravamo amici. Si parlava di letteratura, si discuteva di Goethe e di Dante, di Thomas Mann e di Pavese. Quante volte pensavo alla possibilità che offre Bolzano, di costituire un ponte tra la cultura italiana e la cultura tedesca. Un ponte vivo, costruito da persone che si incontrano con una esperienza non comune: quella di vivere contemporaneamente due culture diverse, quella di osservare quotidianamente gli incontri e gli scontri di concezioni di vita diverse.

Nel 1950 la possibilità di contatti mi pareva più aperta. Ho l'impressione che si parlasse di più, che si affrontassero con maggior libertà gli argomenti che riguardavano gli interessi dell'uno e dell'altro gruppo.

I cittadini del gruppo tedesco — parlo di una minoranza intellettuale, o per antica tradizione comunque affezionata al teatro — hanno tuttavia sempre seguito e seguono anche oggi i nostri spettacoli con molta sensibilità critica. Ricordo — quando davo il Faust — che più d'uno me lo ripeteva in tedesco. Lo sapevano a memoria.

Sul «Dolomiten» fummo subito salutati con degli articoli critici che conservo. Sono tra i più belli che abbiamo avuti. Li scriveva Walter Amonn, con una competenza che stupiva in un uomo che non è letterato di professione. Ricordo l'impressione che mi fece la prima volta che lo conobbi: pensai al Rinascimento. Un Medici in lingua tedesca. Commerciante fortunato e attivissimo, è aperto con sincerità e genialità ad ogni manifestazione artistica; e nello steso tempo si scorge in lui una vivacità, un interesse, una curiosità per la vita, per ogni rapporto sociale, che richiamano alla mente le simpatiche figure dei gentiluomini del Rinascimento.

All'«Alto Adige» teneva la critica Emilio Marsili, curioso tipo di artista montanaro. Artista autentico, con la sua prosa che sapeva di pietra, e ricca insieme di delicata, poetica sensibilità. Emigrò poi a Roma, dove si è affermato come sceneggiatore cinematografico.

 

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Quel primo anno fu l'anno delle speranze, delle prime battaglie, delle prime vittorie e delle prime amarezze. Nacquero le prime amicizie (come ricordare tutti? e poi di molti non so i nomi: medici, musicisti, pittori, professori: Livio Zanetti e Claudio Emeri, Tino Tomasi, il dottor Faes, musicista e bancario, il vecchio e carissimo Presel, Enrico Pedrotti, che ci faceva splendide fotografie, la signora Magnago, appassionata al teatro, ottima attrice lei stessa, l'ingegner Piombo, il dottor Matteucci, e l'indimenticabile questore Mazzoni, che mi recitava la Medea di Euripide a memoria in greco, il colonnello Sestili, il professor Lovera; l'elenco di personalità diverse, che ci diedero con il loro consenso molto aiuto, sarebbe assai lungo); ma in quel primo anno nacquero anche le prime inimicizie, che ci danneggiarono parecchio. L'accusa principale riguardava il repertorio, secondo alcuni troppo difficile, troppo elevato, secondo altri addirittura immorale (ci fu una maestra che in un circolo ci accusò di esaltare, con la rappresentazione della Medea, Caterina Fort ).

A me l'eco di queste polemiche spesso umoristiche, come quella che ho citato, giungeva da lontano. Pure mi addoloravo. Se penso al repertorio di quel primo anno non posso non esserne ancora oggi commosso: davamo due commedie di Goldoni, uno Shakespeare, un Moliére, una tragedia greca, un Plauto, le Laude di Jacopone da Todi e la Leggenda di Liliom. Un programma eccezionale, che avevamo preparato in gran parte negli anni duri e felici del Carrozzone, quando giravamo per le campagne come i guitti di Guglielmo Meister.

Ricordo la sera della Dodicesima Notte. Non avevamo ancora allestito il palcoscenico al Conservatorio. Eravamo al Teatro Corso. Era il 19 dicembre del 1950. Incasso Lire 129.200. Faceva un freddo terribile, il teatro era gelido. Il pubblico si stringeva nei soprabiti, le mie attrici tremavano con le lacrime agli occhi. Valentina più delle altre, perché aveva un abito scollato. Eppure le voci erano limpide, musicali, i movimenti lievi ed eleganti come sempre. A un certo punto mancò la luce. Per caso in scena c'era un piccolo paggio (Adriana Asti) che con una candela stava facendo luce a Sir Tobia e a Andrea Aguecheek, perchè la notte era sopraggiunta e dovevano andare a dormire. La luce mancò, rimase la scena illuminata solo da quella tremolante candela. Non si fermarono. In palcoscenico c'era un pacco di candele. Ogni personaggio ne prese una, e via via entravano con la candela in mano. Nacque una suggestione irripetibile. Quelle suggestioni teatrali che soltanto il caso, e una determinata atmosfera, possono miracolosamente creare. Impossibile ricrearle artificialmente.

«Se musica è nutrimento d'amore, continuate a cantare...»

diceva Orsino, ombra tra due candele. Giungeva l'eco del canto, dolce, melanconico con le note lunghe e ingenue:

«Vieni a me, vieni morte... sotto un cipresso
fammi dormir...».

 

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Bressanone, Rovereto, Sinigo, Trento, e poi Reggio Emilia, Firenze, Siena, Bologna, Faenza, Ravenna, Farli, Ferrara... ogni città, incontri nuovi, sempre successo, pubblico vivo, entusiasta. E così all'improvviso ci arrivò un telegramma da Milano. Remigio Paone ci offriva il suo teatro. Il teatro più bello e importante di Milano.

 

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Il 21 maggio 1951 il Teatro di Bolzano si presentava per la prima volta a Milano, ospite del Teatro Nuovo. Debutto con le «Furberie di Scapino» di Molière, che Piero Jahier aveva tradotto per noi.
Molto pubblico, tutta la critica milanese, molta attesa, molto scetticismo. Tra il pubblico c'erano Riccardo Bacchelli, Valentino Bompiani, Andrea Damiano, Salvatore Quasimodo; tra i critici ricordo Carlo Terron, Silvio Giovaninetti, Enzo Ferrieri, Eligio Possenti, Ferdinando Palmieri, Giulio Trevisani, Vittorio Buttafava.
Applausi al primo atto. Un applauso a scena aperta al secondo atto. Gli attori sono molto emozionati. Durante l'intervallo qualcuno ci informa che in teatro c'è anche Tatiana Pavlova. Sta tenendo un piccolo comizio in nostro favore nel ridotto. Parla con entusiasmo, con calore, con generosità. Alla fine gli applausi, già intensi ai primi due atti, si trasformano in una vera ovazione alla compagnia. Il successo è superiore ad ogni previsione.
Il giorno dopo articoli bellissimi sui giornali. Un quotidiano intitola la critica: «Miracolo a Milano».
Pochi giorni dopo successo identico con la Leggenda di Liliom.

 

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Il successo di Milano non aveva mutato la nostra situazione a Bolzano. In compenso Roma ci aumentò i contributi. Ma i nostri problemi restavano senza soluzione. I contributi arrivavano sempre con estremo ritardo, e qualche volta il «foglio-paga» era arretrato di 30, 40 giorni. Trascorrevamo settimane senza una lira in tasca, e non era facile in quelle condizioni tenere alto il morale dei giovani attori e convincerli che per l'arte, per la poesia ogni sacrificio era irrilevante.

Il secondo anno ebbe inizio in una atmosfera di una certa delusione. Il successo c'era stato, e su di un piano nazionale (Firenze, Venezia, Bologna e tante altre città italiane avevano confermato il giudizio di Bolzano e di Milano ). Se neppure tanto successo aveva migliorato le condizioni di vita a Bolzano, ogni speranza di un miglioramento definitivo e sostanziale cadeva. Tuttavia ripresi il lavoro con molta energia. Nascevano «L'Ora della Fantasia» di Anna Bonacci, «Albertina» di Valentino Bompiani, «Noi moriamo sotto la pioggia» di Enzo Biagi, «Il Ballo dei Ladri» di Anouilh e Zio Vania di Cecov.

Il successo continua. Invitati al Festival della prosa di Bologna e al Maggio di Bari. Pioggia di applausi e tanto pubblico. Io tra tutti i lavori di quell'anno adoravo Zio Vania. E di Zio Vania adoravo soprattutto Sonia. Certo Valentina Fortunato nella battuta finale di Sonia aveva raggiunto uno dei momenti di poesia teatrale più puri ed efficaci ch'io abbia mai avvertito in teatro. Ricordo al Festival di Bologna 1.500 persone trattenute in un religioso silenzio da quella piccola voce vibrante e dolcemente disperata nel suo triste, incredibile sogno. La commozione tra il pubblico era enorme. Sentivo che 1500 persone respiravano con lei, trattenevano il pianto con lei. La mia felicità più grande è quella di ricevere una commozione dai miei stessi attori. Quella è una sera che non dimenticherò.

Nel giugno del 1952 chiudevamo la stagione all'Olimpia di Milano. Presentavamo cinque autori: Plauto, Bompiani, Anouilh, Bonacci e Biagi. Cinque successi di pubblico e di critica. Ma io sentivo che qualcosa mutava. Mi pareva che i miei attori mi sfuggissero. Altre volte mi parevano più affettuosi del solito. Firmavano i contratti con gli altri teatri. Se ne andavano. Se ne andava Valentina, e portava via con sé Sonia, il Nunzio della Medea, Giulia del Liliom, Viola della Dodicesima Notte, Sandrina del Talismano. Con Lalla Mauri se ne andava Medea e non restava che l'eco del Pianto di Jacopone. Con Valli se ne andavano Zio Vania, Sceledro, Geronte, e con Adriana Asti, che stava nascendo con una sua piccola ma inconfondibile poesia moriva Giacinta di Scapino, la piccola zingarella del Talismano, e quel personaggio dolce e umanissimo, che era forse la nota migliore della commedia di Biagi. Candida Curcio sposava un musicista americano e si trasferiva negli Stati Uniti, Galassi Beria entrava nella Televisione, Aldo Trionfo si dava al cinema. In quel giugno avevamo in repertorio con i costumi e le scene dodici lavori (tutti collaudati e, come sempre, senza suggeritore). In un giorno tutto si sfasciava.

Moriva una creatura che avevo portato a maturità in sei anni di lavoro duro, fanatico, appassionato. Mi rimanevano i ritagli dei giornali ingialliti e cento costumi che presto avrebbero puzzato di muffa. Che brutta cosa é il teatro, appena si fa intorno il silenzio ! Beati gli scrittori, i pittori, che affidano all'inerzia della materia il segno della loro anima.

Restavano con me, tristi, stupiti e fedeli Alessandro Esposito e Ugo Bologna. Pierrette Strada e Renata Padovani s'erano ammalate. Che dovevo fare? Il primo istinto era di rinuncia. Andarmene in televisione, che in quei tempi stava aprendo le porte alla prosa, o diventare un regista normale in una compagnia normale. Un'esistenza tranquilla. Guadagni molto maggiori, responsabilità molto minori. Perché non l'ho fatto?

Per molte ragioni. Di carattere umano: mi sentivo impegnato ai pochi attori che mi restavano. Di carattere artistico: nel teatro italiano mi sono sempre sentito un estraneo. Non condividevo — e non condivido — gli entusiasmi, la mentalità, il gusto imperanti nel teatro italiano. Sono anti-verista per costituzione, e il teatro italiano é per lo più un fatto mondano. Non credo al neo-realismo in teatro, e il teatro italiano é una brutta copia del neo-realismo cinematografico. Non credo al «mestiere» dell'attore e il teatro italiano è pieno di attori di «mestiere». Detesto l'effetto teatrale che non scaturisca naturalmente dal testo: e il teatro italiano vive felice di effetti «gratuiti». Nego la validità estetica delle grandiose messe in scena, frutto di un presuntuoso provincialismo: e il teatro italiano é un teatro di grandiose messe in scena. Credo nella musica della parola, e difendo la musicalità della nostra lingua: e il teatro italiano è un teatro antimusicale.

Che ci andavo a fare tra le file di quei teatranti che seguivano, e seguono una strada che a torto o a ragione ritengo falsa? Evidentemente quando un individuo ha la sfortuna di nascere contro corrente deve accettare in partenza la solitudine e l'impopolarità. Naturalmente occorre molta forza, in un'epoca nella quale il talento è relativo ai milioni, e la fama di un attore è spesso determinata soltanto dagli scandali pubblicitari.

Infine, il teatro di Bolzano era una mia creatura. Sentivo che non potevo e non dovevo lasciarla morire.

Molti amici mi aiutarono a superare quella crisi, a Milano e a Bolzano.

 

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Sin dal primo anno a Bolzano avevo fatto molta amicizia con la famiglia dell'architetto Pelizzari, che mi aveva anche disegnato una bella scena per l'Ora della Fantasia.

Una sera la padrona di casa, Nina Balabanova Pelizzari, che nella sua prima giovinezza era stata una danzatrice di fama internazionale, mise sul grammofono un disco di Chopin. Una bambina di nove anni, di rara bellezza, aggraziata in un lieve «tutù» bianco, improvvisava una danza. Ogni movimento era musica. E nulla v'era in quella bambina di goffo, o di gratuito. Il volto serio, appena arrossato dalla fatica; gli occhi grandi, azzurri, guardavano lontano, come se noi non ci fossimo; ogni gesto, ogni passo, era eleganza e lievità. È rimasta l'immagine di quella bambina che pareva inventasse la danza nel mio ricordo come una straordinaria rivelazione di grazia. Difficilmente la femminilità poteva trovare una rappresentazione più pura e più dolce.

Si parlava, in casa Pelizzari, della scuola che la signora avrebbe un giorno aperto a Bolzano. E si parlava del teatro da costruire, di tanti ideali che si sarebbero potuti realizzare.

Altre sere trascorrevo in casa Mascagni. Lì i musicisti lamentavano le stesse malinconie ch'io ritrovavo nel teatro. Si ascoltavano dischi, lì imparai ad amare Hindemith, Prokofiev, Bela Bartok e Alan Berg. E le difficoltà pratiche parevano diventar secondarie.

In casa Richter (il capo dell'ufficio stampa al Commissariato del Governo) ci trovavamo con Luciano Perselli. Richter è sempre stato un amico fondamentale del Teatro Stabile, e con lui Perselli, che per noi tradusse la Divina Utopia di Stefan Andres.

Anche il Sindaco Ziller ci ospitava simpaticamente nella sua casa. Una delle sue bambine, Lucia, era salita sul nostro palcoscenico con Katia Pelizzari: rappresentavano i bambini di Medea.

 

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Nel gennaio del '53 ero di nuovo a Bolzano. Gli amici, gli attori rimasti, infine la mia natura stessa di «Pigmalione» mi avevano aiutato. Quando mi trovo dinanzi a un giovane nuovo, inesperto, nel quale intravvedo autentiche possibilità, mi sento rinascere. Aiutarlo ad uscire dalla iniziale goffaggine, liberarlo dalle inibizioni e ascoltare la sua voce a poco a poco riscaldarsi, diventare intima e umana, limpida e espressiva mi dà una grande gioia. Questa gioia, ossia la soddisfazione di veder nascere un attore, mi ripaga di tante amarezze. A queste creature mi affeziono come a figli miei. Un giorno se ne vanno.

 

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Ogni anno Bolzano «ubriaca» nei primi giorni i nuovi arrivati, che non si stancano di correre da Piazza Walter al Ponte Talvera, di imparare a memoria le vetrine dei negozi in via Museo e in via dei Portici, di curiosare la cucina dei cento ristoranti sparsi per la città, di trascorrere una mattinata sul Renon, un'altra a San Genesio, salire a Castel Roncolo, scoprire le dieci diverse fisionomie di questa città, assai più vasta e complessa di quanto non appaia a prima vista.

In quel gennaio 1953 i nuovi erano molti, e tutti giovani, e pieni di voglia di vivere, di lavorare, di realizzare finalmente i sogni dei lunghi anni di scuola. Quanta fretta hanno i giovani ! Vorrebbero in pochi mesi il riconoscimento ufficiale di un talento straordinario, e insieme denaro, gloria, felicità ed amore. Non è impresa semplice frenarli, e ricondurli senza deluderli nella realtà. Alcuni capiscono, altri soffrono, si ribellano, gridano all'ingiustizia. Bisogna avere con tutti una infinita pazienza.

Io difendo i giovani di oggi, non solo i miei attori, sia che mi abbiano dato soddisfazioni sia che m'abbiano dato amarezza: ma i giovani in genere, che sono troppo spesso calunniati, incompresi, e certamente poco aiutati. A Bolzano ho avvicinato spesso, negli spettacoli dedicati agli studenti, come in conversazioni pubbliche e frequenti a loro dedicate, giovani tra i 16 e i 20 anni. Da questi contatti ho tratto una convinzione: i giovani di oggi hanno un impegno morale, o forse soltanto un'aspirazione verso un mondo morale, che vent'anni fa non avevano. Il desiderio di denaro è un modo di partecipare alla realtà, ma non esaurisce i loro interessi. Nati tra l'eco delle bombe e il disfacimento delle famiglie, cresciuti senza ammirazione per le generazioni che li hanno preceduti, generazioni «sbagliate» sul piano della storia e sul piano della morale, i giovani di oggi si affacciano alla vita senza «tabù». Ma è inevitabile che il disordine che li ha preceduti li spinga alla ricerca di un ordine interiore. Purtroppo, appena entrano nella vita, facilmente sono travolti e distrutti. Non trovano facilmente un esempio, non trovano nella società una vera cultura, e neppure un amore per una cultura. Eppure se non si scambiasse la loro consapevolezza per cinismo, la loro frequente «noia» per facile pigrizia, e si andasse incontro alla gioventù di oggi con fiducia, la si incitasse alla ricerca e alla formazione di una nuova cultura, penso che l'avvenire della nostra società si aprirebbe con un orizzonte migliore.

Lo stesso, identico discorso si può fare per il popolo. I giornali, la televisione, il cinema stesso hanno senza dubbio elevato il livello intellettuale delle classi più povere. Ed oltre ad una coscienza di una più profonda dignità umana, quante volte ho avvertito il desiderio, la curiosità, la gioia ingenua e vivissima, nei riguardi dei fatti più importanti della cultura e dell'arte ! Un mondo nuovo, immenso, tutto da scoprire. Ma che si fa, per alimentare questa spinta dello spirito dei più umili verso una conoscenza più elevata?

Dal 1947 ad oggi ho sempre cercato di avvicinare il pubblico dei giovani e il pubblico che non può, per ragioni economiche e per ragioni ambientali, entrare in un teatro. Ho portato gli spettacoli nelle piazze ai contadini, nelle fabbriche agli operai, nei teatri rionali. Non ho portato le Due Orfanelle e neppure I Due Sergenti, e nemmeno l'Adelchi di Manzoni: ho portato Goldoni, Shakespeare, Plauto, Euripide, e persino Claudel. Teatro di grande levatura, ma teatro vivo, palpitante, emotivo. Ho portato il Faust di Goethe. L'intelligenza, la maturità, l'entusiasmo con le quali ogni volta queste rappresentazioni sono state seguite sono incredibili. Ecco una grande, stupenda strada per il teatro italiano ! Ma in questo senso non si fa quasi nulla. Si buttano milioni per offrire spettacoli ricchissimi al pubblico delle prime di Milano e di Roma. Si dice che il teatro è morto. Gassmann, che con il suo Circo aveva scelto una strada giusta, sbaglia il repertorio, e comunque offre il suo teatro popolare facendo pagare tremila lire una poltrona.

 

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Quel 1953 fu un anno di fecondo lavoro, ma da parte mia pieno di prudenza. Tranne Bologna, Esposito, Pierrette Strada (che rientrava per poco, costretta al termine della stagione a lasciare definitivamente il teatro per la debole salute) e Renata Padovani che restava ancora per tre stagioni, gli altri erano tutti debuttanti. Esordii con il Berretto a Sonagli di Pirandello, seguito dalla Cavalleria Rusticana di Verga. Luca Crippa, che già aveva disegnato per noi scene e costumi per il Talismano e per Il Ballo dei Ladri, e che ci aveva dipinto uno stupendo siparietto, fece una bella scena e deliziosi costumi per una patetica edizione della Locandiera, affidata alla esile grazia di Pierrette Strada. «Melisenda per me» di Cesare Meano e la ripresa dell'«Ora della fantasia» completavano il repertorio di quell'anno, nel quale mi limitai a un breve giro, che toccava, oltre ai centri della Regione, soltanto Bologna, Venezia e Genova.

Sentivo tuttavia che dovevo fare qualcosa di nuovo e di eccezionale per recuperare il prestigio raggiunto e troppo presto perduto. Da tempo ero affascinato da un sogno: mettere in scena il primo Faust di Goethe.

Vincenzo Errante era stato, sin dagli inizi del Carrozzone, un nostro grande, generoso amico. Più volte mi aveva letto pagine della sua traduzione del Faust, nel giardino di Villa Radi a Riva, o nel suo studio in Corso Plebiscito a Milano. Ed ogni volta mi incitava a tentare questa grande impresa. Ma io avevo paura, una paura terribile.

Nell'agosto del 1951 mi trovavo con la compagnia a Malcesine. Nel grande spiazzo erboso che sta dietro il Castello, a picco sul lago, rappresentavo la Medea di Euripide. La tragedia aveva inizio alle 18 e 30, quando il sole iniziava lentamente il tramonto, e terminava nella notte. Non avevo voluto scena. Una grotta naturale, di pietra, era la casa di Medea. L'acustica era perfetta.

In quei giorni, a soli 61 anni, Errante morì. Si trovava a Riva, nella Villa Radi. Arrivai a Riva poche ore dopo la sua morte. Prima di iniziare la rappresentazione, alla quale Errante doveva essere presente, annunciai al pubblico la sua morte. Quanto è potente la forza della grande poesia, per un animo toccato duramente dal dolore. Mai Medea mi apparve tanto bella, come quel tardo pomeriggio. Né mai gli attori erano stati altrettanto vivi. Lalla Mauri, umana e disperata, era l'immagine straziante della pietà e della più angosciata vendetta. Valentina Fortunato appariva in alto, su di una piccola collina: e da lì gridava atterrita, nella parte del Nunzio, la fine atroce della sposa di Giasone e di suo padre. Era un essere sovrumano: dal grido di terrore, sino alle ultime parole, pronunciate con voce ormai spenta e stanca:

«Giacciono morti vicini
sventura amica del pianto
la figlia e il vecchio padre».

«Sventura amica del pianto». Queste parole mi risonavano nella mente, dolci e crudeli. E ad essere rispondeva l'eco del coro:

«Quanta miseria, quanto male
l'amore ha portato ai mortali».

Forse, inconsapevolmente, quel giorno avevo deciso di portare sulla scena il Faust di Goethe, nella bellissima traduzione dell'amico che troppo presto ci aveva lasciato.


(Continua)