IL CRISTALLO, 1974 XVI 2 [stampa]

VALORI RITMICI E TONALI NELLA POESIA DI CESARE PAVESE

di SILVANO DEMARCHI

Leggendo Lavorare stanca di Cesare Pavese, anche nei componimenti dove il procedimento naturalistico si fa più palese e nonostante i propositi dell'Autore di creare un linguaggio poetico a fondo parlato o che si risolva negli oggetti, abbiamo la sensazione di trovarci dinanzi ad una vera e grande poesia e non ad esempio ad una prosa poetica o ad un racconto liricheggiante.
In altre parole l'andamento narrativo non toglie nulla alla liricità. Da cosa è data, ci vien fatto di chiederci, la forza di questa poesia che colpisce al di qua degli eventi e delle osservazioni meditative di cui sai fa portatrice?
Crediamo che la principale caratteristica e la novità dello stile pavesiano siano da rintracciare in una particolare sintassi che determina la resa musicale del discorso.
La necessità del ritmo come fattore demiurgico che dà forma a una materia informe ed eterogenea — tale infatti è la funzione del ritmo nella poesia — è avvertita dallo stesso Poeta

Muovendomi intorno a un'uniforme situazione suggestiva, mugolo a me stesso un pensiero, incarnato in un ritmo aperto, sempre lo stesso. Le diverse parole e i diversi legamenti colorano la nuova concentrazione musicale, individuandola. E il più è fatto.1

Egli dunque mugola un pensiero incarnato in un ritmo, pensa in parole collegate in una sintassi musicale, risente un ritmo con le sue cadenze costanti da cui si svilupperanno le variazioni fino a realizzarlo nel verso scritto, poi vi torna su e corregge e modifica qualche parte.
Uno dei più consueti e costanti effetti tonali è dato dal procedimento di arsi e catarsi: la particolare accentuazione della tonalità ascendente in una frase d'attacco e il contrappunto, quasi in sordina, della frase che segue a commento:

Stupefatto del mondo mi giunse un'età: che tiravo dei pugni nell'aria e piangevo da solo. / Ascoltare i discorsi di uomini e donne / non sapendo rispondere, / è poca allegria. («Antenati»). È il momento che il sole ha investito ogni cosa: e un mattone a toccarlo ci scotta le mani. / S'è già visto una biscia piombare fuggendo / nella pozza di calce: è il momento che il caldo / fa impazzire perfino le bestie. («Casa in costruzione»).

Le frasi successive alla prima nei passi citati sono sempre divise da una cesura che ne aumenta il distacco così che esse acquistano una sottolineatura fonica efficace.
Il procedimento anaforico e iterativo di frasi chiave e di parole emblematiche hanno una frequenza quasi ossessiva e non indicative di analoghe situazioni psicologiche imprigionate nel circolo di determinati eventi o miti:

Non c'è uomo che sappia / La sottile carezza di quell'acre ricordo. / Non c'è uomo che veda oltre il corpo disteso / quell'infanzia trascorsa nell'ansia inesperta. («La puttana contadina»).
Di salmastro e di terra / è il tuo sguardo... / Di salmastro e di terra / hai le vene e il fiato. (da «La terra e la morte»).

Si può dire che il linguaggio pavesiano, in particolare quello di Lavorare stanca, pulsi tutto su alcune parole emblematiche (mare, cielo, terra, collina, città, donna, nudo, ragazzo, ecc.) che combinandosi variamente nel discorso o inaspettatamente ricomparendo, sono come la ripetizione di una nota nel fraseggio musicale.
Una poesia in apparenza così spontanea rivela ad un più approfondito esame una elaborata costruzione, un'impalcatura con dei punti-forza e strutture costanti entro cui si articola la materia verbale. Le parole emblematiche, che sono sempre le stesse e si ripetono in un medesimo componimento, sono i punti di forza o di appoggio della costruzione sintattica; «punti luminosi di orientamento» sono stati definiti per chi desidera aggirarsi nella topografia dei racconti in versi.2 Ecco qualche esempio:

La casa / ha le imposte accecate, ma dentro c'è un letto, / e sul letto una bionda si guadagna la vita. / Tutto quanto il paese riposa la notte, / tutto, tranne la bionda che si lava al mattino. («Tolleranza»).

La ripetizione e ripresa di parole emblematiche contribuiscono, anche per la essenzialità lessicale, a realizzare in maniera determinante quel tono di epica elementare che era nelle ambizioni del poeta.
La poesia-racconto non è riconducibile alle strutture di una semplice narrazione della vicenda, che in questo caso risulta priva di sviluppo e si costruisce con un sistema ripetitivo e addizionale degli stessi simboli, per cui basta una parola nuova nell'asse paradigmatico a suggerire un'idea che si aggiunge alla precedente e così di seguito fino a riprendere alla fine del discorso il tema iniziale. Tutto ciò non è conforme al procedimento della narrativa i cui sviluppi spesso sono impensati, gli elementi vengono intrecciati in tutt'altro modo e attraverso una profonda trasformazione della struttura di partenza. La poesia-racconto non ha sviluppo, è lineare e già all'inizio puoi individuare quello che accadrà alla fine; ma soprattutto il procedimento è particolarissimo in quanto comporta una continua sostituzione di elementi che lasciano inalterata la struttura di partenza e gli elementi su cui gira il racconto che — come si è visto — sono in numero molto limitato per ogni componimento. Sostituzione e riprese sono i cardini della tecnica pavesiana che richiama visibilmente il discorso musicale.
Un altro esito ritmico è dato dal procedimento paratattico, presente soprattutto nelle aperture di paesaggio ma anche nelle descrizioni diaristiche dove meno rilevabile è il nesso causale dei momenti3:

Al di là delle gialle colline c'è il mare, / al di là delle nubi. Ma giornate tremende / di colline ondeggianti e crepitanti nel cielo / si frammettono prima del mare... («Luna d'agosto»).

Accanto allo scorcio paesaggistico, la divagazione intimistica:

Il ragazzo respira più fresco, nascosto / dalle imposte, fissando la strada. Si vedono i ciottoli / per la chiara fessura, nel sole. Nessuno cammina per la strada. Il ragazzo vorrebbe uscir fuori / tosi nudo — la strada è di tutti e affogare nel sole. («Atavismo»).

Anche da questo procedimento, che come si può notare ha un particolare effetto musicale, dipende il tono di epica elementare che bene si attaglia ai miti e a certi archetipi di situazioni sociali ed esistenziali, sottolineati con l'insistente frequenza e iterazione dei termini e dei sintagmi (gialle colline, colline ondeggianti) cosicché asindeto e polisindeto «trattengono quasi a sorpresa o sciolgono il ritmo, mantengono abilmente la sintassi del periodo in una zona elementare e tutta parlata e infine entrambi, dietro questo allineamento, provvedono a una simultaneità colorita, vivace, tutta di primi piani»4.
I termini si collegano tra loro in un procedimento frequentemente anastrofico, che richiama anche in questo punto la tecnica musicale del contrappunto:

Troppo mare. Ne abbiamo veduto abbastanza di mare. / Alla sera, che l'acqua si stende slavata / sfumata nel nulla, l'amico la fissa / e io fisso l'amico e non parla nessuno. /...L'amico ha i suoi sogni / (sono un poco monotoni i sogni allo scroscio del mare) / dove l'acqua non è che lo specchio, tra un'isola e l'altra, / di colline, screziate di fiori selvaggi e cascate. Il suo vino è così. Si contempla, guardando il bicchiere, / a innalzare colline di verde sul piano del mare. / Le colline mi vanno; e lo lascio parlare del mare / perché è un'acqua ben chiara, che mostra persino le pietre. («Gente spaesata»).

L'A. gioca su elementi in contrasto che si richiamano a distanza, ricorrono, compaiono invertiti nell'ordine grammaticale delle parole; usando la prolessi crea spostamenti che comportano prolungamenti pleonastici: nasce così un ricamo verbale, uno svolgersi di echi smorzati, di voci che si richiamano.
Il testo riportato, che poeticamente non è uno dei più felici per la monotona ripetizione degli stilemi, è però indicativo di quasi tutti i procedimenti e delle innovazioni stilistiche adottati da Pavese; vi compaiono le iterazioni e le riprese anaforiche («l'amico la fissa... L'amico ha i suoi sogni»), la costruzione paratattica come espressione di una successione temporale senza esplicito nesso causale, l'anastrofe prolettica («sono un poco monotoni i sogni...»), l'antitesi («l'acqua si stende slavata»), la clausola, come finale cadenza armoniosa («che mostra persino le pietre»). Gran parte della musicalità della poesia di Pavese è data proprio dall'uso sapiente della clausole che concludono, quasi sempre in una sottolineatura pessimistica e fonicamente con i toni più bassi, quasi mugulati, una sequenza di frasi e di parole:...«e dovranno lottare / a ridurre anche quello in letame, bruciando...».
«Perché il sole e la pioggia proteggono solo le erbacce / e la brina, toccato che ha il grano, non torna» («Gente che c'è stata»). La clausola che qui è data dalla presenza di due parole piane in fine di proposizione, più spesso risulta da una coppia di settenari, di cui il secondo ha funzione di commento, di sottolineatura ritmica: «Han veduto anche loro una volta quel verde. / Fumerò a notte buia, ignorando anche il mare». («Terre bruciate»).
«Tutto quanto il paese riposa la notte. / Tutto, tranne la bionda, che si lava al mattino». («Tolleranze»). Allorché la coppia dei settenari presenta gli stessi accenti ritmici si ottiene un effetto tonale diverso ma sempre rientrante nella cadenza ritmica della clausola: «e non dici parole; e nessuno ti parla» (da «La terra e la Morte»). «Sei radice feroce. Sei la terra che aspetta» (da «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi»); come si vede, anche nelle raccolte successive a Lavorare stanca compaiono gli stessi moduli ritmico-metrici che richiamano, a giudizio dello stesso Pavese, la metrica latina; ma si tratta ovviamente, quando c'è, di una trasposizione ad orecchio.
Nella musicalità del verso pavesiano, una funzione particolare è svolta dalla pausa, che, data la lunga articolazione del discorso e il frequente ricorso all'enembljement, coincide con segni d'interpunzione posti a metà o verso la fine di un verso: «Ci sono d'estate / pomeriggi che fino le piazze sono vuote, distese / sotto il sole che sta per calare, e quest'uomo, che giunge per un viale di inutili piante, si ferma» («Lavorare stanca»). Spesso la poesia di Pavese ha questo procedimento a strappi, questo respiro volutamente interrotto per dare peso alle parole e avvolgerle nella cupa atmosfera che caratterizza tutta la raccolta di Lavorare stanca.
La principale novità delle raccolte posteriori a Lavorare stanca è data dal passaggio da modulo realistico, come pregnante presenza di fatti, al modulo impressionistico che di essi registra soltanto l'impressione soggettiva per cui nasce un discorso scarnificato e allusivo che fa riferimento a tutta la materia poetica precedente e si organizza in un'esile sequenza di sensazioni e di immagini avvivate da un ritmo musicale. «Subentra — osserva A. Mutterle — dunque una poesia fatta unicamente di sensazioni, immagini, ricordi, che non cerca più di organizzarsi in racconto; essa è portata a tradursi spontaneamente in metafora, e in uso sensibilmente più sorvegliato e calibrato dalla singola parola poetica». (Op. cit., pag. 286).
Abbandonate le ambizioni programmatiche della poesia-racconto (che costituisce la parte più originale della produzione pavesiana) e quindi l'organizzazione del racconto, l'oggettualità, il verso largo e denso, Cesare Pavese si è riaccostato a quella poesia pura ed essenziale contro cui aveva lanciato i suoi strali5. La novità più palese sta nell'abbandono del verso lungo a vantaggio di una versificazione breve o brevissima.
Cesare Pavese, partito da una rivoluzione prosodica con un metro superiore all'endecasillabo, composto di due emistichi accostati o di lunghissimi versi unitari che giungono fino a 16 sillabe ipermetre, inventati i ritmi di canto con accorgimenti stilistici che sostanzialmente si rifanno alle strutture elementari del linguaggio, nel suo ritorno alla poesia, dopo la esperienza di narratore, avvenuta tra il 1945-50, propone ora una nuova forma metrica inferiore all'endecasillabo, costituita in prevalenza di senari, settenari e novenari.
La ragione principale di questa riduzione è dovuta probabilmente al fatto che la prosa aveva nel frattempo ampiamente soddisfatto le esigenze narrative del poeta e che l'oggetto della poesia era mutato: non più una vicenda svolgentesi nella coordinazione dei suoi segmenti, ma un oggetto colto nella sua fissità, di cui occorre delineare i tratti essenziali o capirne il segreto. Questo oggetto sarà la donna, la morte, la terra, il mare.
Ma va osservato che in questa trasformazione stilistica rimangono intatte, nella maggior parte delle composizioni, le tecniche di cui si è parlato. Se leggiamo una poesia ariosa e fresca, (che si discosta dall'atmosfera torbida che avvolgeva Lavorare stanca) come «You, wind of March» appartenente a «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi», ritroviamo non solo le riprese e il procedimento anastrofico, ma la stessa idea centrale che risulta mutuata da un testo precedente: «Il tuo passo leggero / ha violato la terra» («You, wind of March») e «Il tuo passo stupiva la terra» («Mito»). La immagine, secondo il procedimento additivo (e non moltiplicativo) usato dal Poeta, viene continuamente ripresa e arricchita di nuovi elementi lessicali che rappresentano altrettante denotazioni: «il tuo passo leggero / ha riaperto il dolore», «Li sommerge il tuo passo, sopra la terra nuda / sei passata leggera» per concludere come sempre con una riaffermazione dell'immagine iniziale: «il tuo passo è leggero». Nei primi quattro versi si possono ancora intravvedere i segmenti successivi della lirica: le parole chiave «vita, morte, marzo, terra, brivido» s'intrecceranno nel discorso, che procede per successive aggiunte, di una poesia in fieri in cui l'ultimo termine sarà destinato a prevalere, gli elementi si risolveranno in brivido («Ora la terra e il cielo / sono un brivido forte... / tutta la terra trema / di un antico tremore») e attraverso tutta la composizione circola l'aereo ritmo delle riprese e la sottolineatura della clausole, non senza palesi echi dannunziani.
Da questa breve analisi si può constatare come nelle poesie successive alla prima raccolta (salvo poche eccezioni) rimanga intatta la tecnica compositiva, anche se il verso si è assottigliato ed è divenuto più essenziale per la diminuita presenza dell'aggettivo e la preponderanza del sostantivo e del verbo, rispettivamente espressivi della sostanza e del movimento o stato, termini attraverso i quali si articola in una nuova forma di elementarità il discorso poetico dell'ultimo Pavese, ma senza raggiungere, a nostro avviso, quella novità e suggestione della sua prima invenzione, la poesia-racconto.

 

NOTE

1 Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Torino 1952, pag. 30.

2 Cfr. Marziano Gugliemetti, Racconto e Canto nella metrica di Pavese, Sigma, 1, 1964, n. 3-4, pag. 27.

3 Così A. M. Mutterle: «si indica la successione, non necessariamente il rapporto causale: un modo di presentare i fenomeni che riecheggia la mentalità primitiva, per la quale il logos non è ancora intervenuto a chiarire i fatti del mito». («Appunti sulla lingua di Pavese lirico»), in Ricerche sulla lingua poetica contemporanea. Padova, 1966, pag. 286).

4 F. Riva, Note sulla lingua della poesia di Pavese, «Lingua nostra», XVII, 1956, n. 2.

5 II mio gusto voleva confusamente un'espressione essenziale di fatti essenziali, ma non la solita astrazione introspettiva, espressa in quel linguaggio, perché libresco, allusivo, che troppo gratuitamente posa ad essenziale (da «Il mestiere di poeta» - C. Pavese, Poesie 1970, p. 158 - Stampato 1934 in Lavorare stanca).