IL CRISTALLO, 1975 XVII 1 [stampa]

LA VALLE DI FASSA NELL'OPERA DI PADRE GHETTA*

di VITO PALLABAZZER

La valle di Fassa, che dal punto di vista dialettale era stata illustrata da nomi insigni della linguistica come W. Th. Eiwert, L. Heilmann, e recentemente anche dal vocabolario moenese-italiano di G. Dell'Antonio, può vantare ora, nel campo storico, una opera di equivalente rigore scientifico, degna delle più agguerrite indagini linguistiche e degli studiosi che le hanno esperite. L'impressione più viva che ho ricavato dalla lettura del poderoso volume di Padre Ghetta mi è venuta forse dalle migliaia di documenti che egli dà prova continuamente di aver letto, oltre al numero imponente di riviste e di autori citati nella bibliografia. E in effetti la qualità del lavoro è convalidata da una documentazione e da una diligenza inesauribili, dal che è facile arguire che la fatica del Padre Ghetta si commisura non sugli anni ma sui decenni, forse sull'arco della sua intera esistenza dedicata all'illustrazione, con inestinguibile amore, della vallata natia. Per la profondità dell'indagine, la coerenza dell'insieme e la vastità della concezione non v'è paragone tra questo lavoro e quanto finora è stato scritto sulla storia delle altre tre valli ladine, le quali hanno ora un modello a cui ispirarsi allorché gli studiosi si accingeranno a ripercorrere l'immenso cammino del Padre Ghetta nella ricerca e nella lettura di tutti i documenti reperibili per illuminare le origini e le vicende delle nostre comunità dolomitiche. Grazie all'operosità del Padre Ghetta la Val di Fassa è ora all'avanguardia negli studi storici ladini, e lo è forse anche in quelli dialettali soprattutto dopo la pubblicazione del prof. L. Heilmann sulla parlata di Moena, divenuta ormai un classico della dialettologia ladina e italiana.

L'indagine prende l'avvio dal nome della valle e da quello del fiume che l'attraversa. Se il primo è indiscutibilmente neolatino, più difficoltà presenta l'interpretazione dell'idronimo che C. A. Mastrelli (I toponimi del foglio Marmolada, pag. 56), dopo aver riportato le conclusioni di altri studiosi, sembra propenso a collegare con un gallico abisiu, diffuso lungo tutto il bacino fluviale dalle popolazioni che occuparono la Val di Fiemme e progressivamente quella di Fassa.

Molto spesso gli idronimi presentano aspetti di rilevante oscurità sia perché appartengono a strati linguistici irrimediabilmente sommersi, sia perché la loro varietà, da valle a valle, non favorisce i confronti e la comprensione reciproca. All'opposto si osserva invece che corsi d'acqua anche considerevoli assumono frequentemente il nome di una località o di un villaggio presso il quale fluiscono. I continuatori toponimici del lat. fascia compaiono su aree estese ma si addensano particolarmente nell'Alta Venosta e nei Grigioni. Il valore della voce applicata ai terreni è quello di misura agraria, ma si può anche presumere che fascia designasse una vera e propria fascia o striscia di terreno coltivabile in mezzo al bosco. È possibile pertanto che la valle, dopo l'avvio della colonizzazione, presentasse una lunga striscia di terreno diboscato per tutta la lunghezza del fondovalle, mentre i fianchi e i pendii ancora ricoperti dì boschi contrastavano nettamente con la fascia pianeggiante e coltivata della valle. Sinonimo di fascia si può considerare, almeno entro certi limiti, il diffusissimo coda, impiegato anch'esso col senso di striscia di terreno, prato o campo di forma allungata, ecc.

Il villaggio di Codalonga nel comune di Colle S. Lucia, sito lungo il torrente omonimo, deve il suo nome a una lunga fascia di terreno diboscato e coltivato nel fondo vallivo, mentre le ripide falde soprastanti rimasero assai più a lungo ricoperte di boschi.

Le prospettive di consistenti ritrovamenti archeologici nella Val di Fassa appaiono piuttosto limitate, non tanto per una potenziale scarsezza di reperti, quanto per la difficoltà di localizzarli o per la loro asportazione, come congettura il Padre Ghetta, ad opera delle frane e delle ingiurie del tempo. Le frane che hanno sconvolto i fianchi delle nostre montagne, troppo rapidamente diboscati, sono ampiamente attestate da toponimi che dipendono da appellativi ancora in uso nei nostri dialetti.

Il Padre Ghetta ritiene comunque che quanto è venuto finora alla luce sia più che sufficiente per provare che la valle fu abitata già in epoche preistoriche dopo la fine dell'ultima glaciazione. La teoria della colonizzazione tardo-medievale delle valli ladine, seguita dalla maggior parte degli studiosi, non può più reggere di fronte ai ritrovamenti di Pigui di Mazzin e di Pian di Crepèi presso Campitello.

L'uomo penetrò in Fassa, secondo il Padre Ghetta, seguendo la via più naturale, che è quella a ritroso dell'Avisio, costruì i suoi castellieri in posizioni dominanti e cercò nella sua piccola terra valliva, al riparo dei monti e delle gigantesche foreste, le fonti del suo sostentamento.

In realtà l'ammissione che l'uomo abbia abitato le nostre valli in età premedievali, a prescindere da ogni prova materiale, non può contrastare col buon senso, perché se le montagne stanno ferme gli uomini camminano, ed è noto che gli ostacoli naturali non hanno mai impedito a popolazioni deboli e inermi di raggiungere gli angoli più remoti del nostro pianeta.

Se tra il 1048 e il 1091, come provano i primi documenti, a Livinallongo erano già stati costituiti dei masi (mansum apud locum qui vulgo Sherz am berch nominatur), è lecito inferire che il processo di bonifica e di trasformazione agraria dei terreni, certamente non agevoli, non era iniziato all'alba del primo millennio come si è spesso affermato ma risaliva a qualche secolo prima. Questa conclusione appare ovvia se cerchiamo di immaginare le condizioni originarie del paesaggio dolomitico, la scarsezza delle vie d'accesso e la povertà dei mezzi su cui l'uomo antico poteva contare per il dissodamento delle terre. Infine se si tengono d'occhio anche i rinvenimenti di Col de Flam in Valgardena, quelli di Agordo e del Cadore, l'iscrizione venetica del Pore e quella romana del Civetta, è facile immaginare che anche le valli più interne e meno accessibili del sistema dolomitico non potevano essere del tutto trascurate. Impossibile è invece calcolare la consistenza dei nuclei umani che in età così lontane dalla nostra, nel corso dei millenni che precedettero l'era cristiana, occuparono stabilmente le nostre alpestri vallate. Se si dà uno sguardo alla toponomastica, quasi tutta neo-latina, si direbbe che tali nuclei dovettero essere assai esigui perché non lasciarono tracce di particolare rilievo. Il toponimo Ciaslìr, «castelliere», presso Vigo, che il Padre Ghetta addita all'attenzione degli studiosi, è comunque un indizio di grande interesse e non è per nulla inverosimile, tenuto anche conto dell'aspetto geografico della località, che la voce si riferisca ad una costruzione preistorica, eretta a difesa degli abitanti della valle. Come nome di luogo il tipo «castelliere» affiora con grande frequenza sia nel Trentino sia nell'Alto Adige. Così il toponimo, trasmesso oralmente fin dalle più antiche età, può essere una prova incontestabile che la valle è stata abitata ininterrottamente fino ai nostri giorni. Tale prova non la possono invece fornire, a mio modo di vedere, altri toponimi generalmente ascritti allo strato prelatino, non solo perché il loro numero appare piuttosto modesto (R. Vignodelli Rubrichi, Moena - Un profilo geografico, storico e linguistico - AAA XLI - 1946/47 - I, pp. 68-92), ma anche perché, data la loro diffusione e il loro legame con voci ancor vive, non è difficile intenderli nelle loro strutture formali e semantiche. Più complessa è invece la comprensione di radicali toponimi che appartengono ad aree storicamente assai dense di popolazioni e di culture, perché mostrano di ascendere a sostrati più profondi e inafferrabili. Anche le popolazioni dolomitiche, nelle loro sedi attuali o in quelle di provenienza, furono raggiunte da più ondate linguistiche, e non solo nell'età medievale e moderna, per cui mi pare aleatorio parlare in senso assoluto di autoctonia o di carattere retico per le parole che non appartengono allo strato latino o tedesco. E alcune di queste voci, frutto di disparati apporti linguistici, poterono trovare impiego anche in quel filone della toponomastica che chiamiamo prelatino. Ma poiché a Fassa quasi tutti i nomi dei centri abitati sono di origine latina, anche se l'archeologia è in grado di indiziare antichissimi insediamenti, non possiamo disconoscere che la valle, con la colonizzazione romana, fu profondamente trasformata sotto l'aspetto linguistico e geo-demografico, indipendentemente dall'epoca in cui tale processo ebbe inizio. Se al momento in cui i Romani occuparono la Rezia anche le valli più appartate erano abitate, ne consegue che le popolazioni furono latinizzate in loco e che gli attuali dialetti dolomitici rappresentano una tradizione ininterrotta fin dal momento in cui gli abitanti accolsero come loro lingua il latino. È probabile comunque che se Fassa avesse avuto stanziamenti cospicui in età preromana la toponomastica non mancherebbe di confermarlo, invece constatiamo che il nome della valle e quelli della maggior parte dei villaggi e delle località minori tradiscono insediamenti di popolazioni latinizzate.

Ignoto è anche se a Fassa penetrarono dei coloni provenienti dalle regioni romanizzate della penisola o della pianura; il Padre Ghetta è incline ad escluderlo non solo perché, a differenza della sottostante Val di Fiemme, mancano tracce di prediali, ma soprattutto in considerazione della scarsa attrattiva che gli elevati terreni

della valle superiore potevano esercitare su eventuali agricoltori. Nulla ci è dato poi di sapere sul movimento demografico dei secoli anteriori al Mille, e quindi ignoriamo, per quell'età, quale rapporto intercorresse tra popolazioni e sedi abitate, tra terreni coltivati e toponomastica. Quasi sicuramente la Val di Fassa condivise le vicende demografiche delle regioni contermini, ma essa non fu mai completamente disabitata perché il vuoto sarebbe stato riempito, secondo l'Autore, dai coloni tedeschi che nell'alto Medioevo occuparono zone del Trentino e del Veneto. Dopo il Mille è ammessa una generale ripresa delle popolazioni europee, per quanto le ricorrenti epidemie operassero larghi vuoti nelle masse rurali e cittadine di quei secoli.

Attraverso la toponomastica si intravede anche il processo della colonizzazione, il passaggio dalla pastorizia all'agricoltura e la espansione progressiva dei terreni sottoposti a bonifica e a coltura. L'area su cui sorge il villaggio di Campestrin era un tempo sfruttata a pascolo perché il lat. campus coi suoi derivati, come si può osservare in tutta la regione dolomitica, acquisì il significato di pascolo senza alberi; molte delle località che traggono il loro nome da questa voce latina sono coltivate a prato, ma in zone come Campestrin sicuramente anche a campo. Altre località nel Livinallongo in Val Badia e nell'Ampezzano sono denominate da foeta, pecora, e provano che gli attuali prati chiamati Fedèra, Fedère, Fedare, Frederòla, ecc. erano aree pascolive provviste di stalli per le pecore. Fedèra è un villaggio di Livinallongo, le altre località che compaiono nello stesso comune o a Colle S. Lucia sono sfruttate a prato o a pascolo. I casali livinallesi di Fedèra sono documentati dall'inizio del 1300, mentre altri documenti confermano che nello stesso periodo anche altre aree utilizzate come pascolo delle pecore erano diventate prati. Questo passaggio dalla pastorizia all'agricoltura comportò anche, nelle zone più basse, una trasformazione profonda dei terreni perché ovunque il suolo si prestava furono ricavati dei campi per consentire l'autosufficienza delle famiglie insediate.

La coltivazione dei terreni corrispondenti a località come Campestrin e Fedèra risale certamente ad epoca assai anteriore a quella accertabile attraverso i documenti, ma mi pare non vi sia dubbio che essa trasse inizio in età neolatina, probabilmente in connessione con l'aumento della popolazione e l'interesse di enti feudali o ecclesiastici a uno sfruttamento più intenso dei terreni. Anche se per la Val di Fassa mancano documentazioni di curie armentarie, come l'Autore ha appurato, non ritengo si possa sostanzialmente spostare l'epoca e le circostanze di una trasformazione agraria che dovrebbe essere più o meno contemporanea a quella delle altre valli ladine. Il nome di Canazei, all'estremità della valle, lascia intravedere un paesaggio del tutto primitivo ricoperto di canne palustri.

La riduzione progressiva di nuovi terreni all'agricoltura appare anche da toponimi come Ronc, coi suoi derivati, da novale e secondo i luoghi anche da novicius. Il fondovalle però, secondo l'autore, fu trascurato dai più antichi abitanti che preferirono insediarsi a mezza costa, e solo in un secondo tempo fu sottoposto a bonifica e a coltivazione. Questa preferenza per il terreno in collina o in declivio a quelli pianeggianti delle valli, che i fiumi alluvionavano, risalta con grande evidenza nelle zone montuose, tanto che il tracciato delle vecchie strade si discostava dalle zone più basse, troppo imboscate o impaludate.

Il Padre Ghetta rivolge poi il suo interesse alla ricognizione dei confini storici della valle. Quasi tutti i nostri comuni furono coinvolti in liti secolari coi comuni vicini per la sistemazione definitiva dei confini, resi incerti dalla mancanza di documenti, da temporanei disinteressi o dallo sfruttamento promiscuo di certe zone. L'appartenenza del Pian degli Zingari, sul versante del Biois, a Moena, è un indizio notevole secondo l'Autore, che il territorio fu occupato in base al diritto del primo arrivato e che gli stanziamenti fassani precedono quelli della vallata del Biois.

È confermato inoltre anche dal Catasto Teresiano del 1784 che i Fassani erano proprietari di prati al di qua del Pordoi, sul versante di Arabba, cioè sulle pendici di un altro sistema vallivo. Si ripete quindi la situazione che si osserva nelle valli Fiorentina e Zoldana, le cui testate appartengono da tempo immemorbile ai comuni di S. Vito e di Borca nella valle del Boite. Solo il privilegio del primo occupante rende ragione della presenza dei Cadorini nei bacini del Cordevole e del Maè.

I confini attuali, a volte incongruenti sotto l'aspetto geografico, possono dipendere da antiche circoscrizioni etnico-amministrative che risalgono all'epoca romana e preromana, come provano anche le iscrizioni del Civetta.

Per il Padre Ghetta assume particolare significato la diversa distribuzione degli abitati nelle valli alto-atesine e nella Val di Fassa: là casali sparsi al centro di masi tutelati dalla egge dell'indivisibiltà, qua abitazioni raggruppate in villaggi e libera disponibilità e suddivisione della terra tra tutti i membri delle famiglie contadine. Data questa diversità di abitudini, di mentalità e di atteggiamenti, riscontrabile tutt'oggi, è facile pensare che le antiche popolazioni di Fassa, analogamente a quanto avvenne nel Cadore, avessero sviluppato una loro autonomia nel costume e nel comportamento civico e sociale.

Tradizioni mitiche e leggendarie come quella delle bregostane ci lasciano intravedere, sullo sfondo dei millenni, l'incontro e la simbiosi di popoli e di civiltà diverse.

Ma l'epoca sulla quale l'opera getta una luce più viva è forse quella altomedievale della conquista longobarda e delle consuetudini amministrative ed ecclesiastiche da essa originate. L'indagine del Padre Ghetta su questi oscuri secoli, così avari di notizie perspicue, è un lungo viaggio di confronti e di ricostruzione, di analisi e di deduzioni, attraverso massari e gastaldie, corti regie e arimannie, curie e decanie. Si indagano le relazioni di Fassa con le valli vicine, la vita interna delle pievi e delle chiese nei loro multiformi legami con la vita religiosa ed ecclesiastica d'altri tempi. Un'eguale messe di notizie illumina i rapporti ecclesiastici ed amministrativi con Bressanone, ove una curia feudale sempre vigilante, ma certo non priva di umanità e di esperienza di governo, teneva le fila di questo piccolo mondo di valligiani che si crogiolarono nelle loro autonomie fino alla dissoluzione dei principati ecclesiastici. Perché nella storia di questo piccolo popolo confluisce anche la sua tensione costante per la difesa delle millenarie consuetudini e degli statuti messi più volte in pericolo, dalla fine del Medioevo, dal potere politico centrale.

Sfilano attraverso le pagine di Padre Ghetta i secoli e gli uomini, le istituzioni e il travaglio delle generazioni che vissero in questa valle o cercarono nell'emigrazione una ragione di vita e di sopravvivenza. Ma la vita era resa più aspra dalle epidemie e dalle calamità naturali che dalla povertà del suolo, perché grazie all'emigrazione fu sempre mantenuto un equilibrio tollerabile tra risorse e popolazione residente, la quale per quanto fosse industriosa e laboriosa doveva sempre paventare la sorte avversa delle stagioni. Così la storia non è più arida fonte di dati ma si configura veramente come vicenda dell'uomo e del suo passaggio sulla terra, come misura del suo operare nel bene e nel male e della sua sofferenza.

L'ultima parte del volume è il canto della fede religiosa della gente di Fassa, devota ai santi venerati nelle sue chiese per vetusta tradizione; si ricercano le ragioni che presiedono ai culti e alla scelta dei santi titolari delle chiese, la cui storia si può dire che faccia tutt'uno con quella dei villaggi.

Nelle parrocchie la vita delle comunità si dispiegava nella sua interezza, generosa e intensa come nelle regole e nelle vicinie, anch'esse ampiamente illustrate nella loro genesi e nel loro sviluppo.

L'opera di Padre Ghetta è un panorama grandioso di storia e di vita fassana che coinvolge, nel suo pacato e articolato fluire, anche quella delle valli circostanti.

In fondo al volume sono riportati per esteso ottantuno documenti che riguardano la storia della valle e che l'Autore ha evidentemente considerato tra i più importanti e significativi.

Queste poche righe hanno la pretesa di essere un invito alla lettura dell'opera di Padre Ghetta, anche se è impossibile dare una idea adeguata della vastità del lavoro e della ricchezza di argomenti e di notizie in esso contenuti.

 

 

NOTA

* P. Frumenzio Ghetta, La Valle di Fassa (contributi e documenti) - Edizioni Biblioteca P. P. Francescani - Trento 1974.