IL CRISTALLO, 1990 XXXII 1 [stampa]

SFOGLIANDO LO «ZIBALDONE» DEL LEOPARDI PENSIERI SULLA SUA ATTUALITÀ

di JOSEPH MAURER

Per la mole di notizie che contiene, lo Zibaldone del Leopardi si presenta generalmente in due grossi volumi, con ben 4.526 pagine fittamente scritte su appositi quaderni. È un agglomerato non metodico, asistematico, direi capriccioso, di annotazioni, citazioni, letture, riflessioni iniziate a Recanati nel 1817 e terminate a Firenze alla fine del 1832: un «libro», se così lo si vuol chiamare, di pensieri di varia filosofia (come lo definì Leopardi stesso) che raccoglie quale fonte inesauribile il nocciolo della sua opera in poesia e prosa.

Le Operette morali e i Canti - questi i suoi capolavori - sono illustrati e rischiarati appunto dallo Zibaldone. Come dice il titolo, è una «miscellanea» delle cose più diverse, senza apparente connessione. Ma chi lo esamina più da vicino si accorge che quest'opera enciclopedica è un crogiuolo di pensieri che, risultati dalle letture leopardiane, condensa in maniera libera, spesso capricciosa, eppure non a caso, le molteplici esperienze letterarie e filosofiche del grande poeta.

Lo Zibaldone è bensì un'opera autonoma, ma nel contempo impensabile senza continui rimandi interni alle altre opere leopardiane. E se spesso le riflessioni dello Zibaldone sembrano essere un commento, non lo sono in un senso specifico, perché esorbitano per fantasia e sentimento, entrando quasi sempre in campi più vasti e attinenti a quelli presi di mira. Di sovente si ha la sensazione che Leopardi abbia destinato a se stesso tali pensieri (una specie di autoconfessioni e soliloqui), cioè quelle aggiunte ai margini delle sue letture, quelle riletture da lui originalmente interpretate, e che hanno quindi un'intenzione diaristica di primo piano.

La lettura dello Zibaldone si deve perciò fare in senso lato, lasciando all'estensore la propria volontà che per lui, sempre frammentario, si concretezza in teorie, filosofemi e considerazioni private, con tendenze alla saggistica, ad un discorso completo. Senza indici analitici ben difficile sarebbe mettere ordine alla matassa di argomenti che spaziano dalle esperienze soggettive dell'uomo sino alle fantasie metafisiche.

Nella compilazione di quest'opera straordinaria rientrano sia la filosofia di Cartesio, Pascal, degli enciclopedisti (D'Alembert) francesi, l'empirismo di John Locke, le teorie sociali di Montesquieu e Rousseau, e strano a dirsi, non per ultima la paradossale scrittrice Madame de Staël che da Leopardi è considerata come «vera filosofessa». I lavori della Staël, particolarmente sulle vicende della Germania: L'Allemagne, poi la Corinna e vari saggi di lei apparsi nella «Biblioteca Italiana», vengono citati di frequente dal poeta. In ciò si scopre la velleità, sempre presente in Leopardi, di argomentare filosoficamente, anche se inizialmente afferma: «Dedito tutto e con sommo gusto alla bella letteratura, io disprezzava e odiava la filosofia». E soggiunge: «Ma non credetti di esser filosofo se non dopo lette alcune opere di Madama di Staël...». Con questa affermazione si è indotti a credere che Leopardi ritenesse la Staël una vera mente filosofica, a cui attinse non solo in maniera occasionale. Quella donna, versata nella società, ricca di esperienze letterarie e personali, ebbe notevole influsso sul pensiero leopardiano, e lo nota il poeta stesso costellando le sue argomentazioni con frequenti citazioni, come p. es.:

L'homme est une partie de la création, il faut qu' il trouve son harmonie morale dans l'ensemble de l'univer, dans l'ordre habituel de la destinée; et de certaines exceptions violentes et redoutables peuvent étonner la pensée, mais effrayent tellement l'imagination, que la disposition habituelle de l'ame ne saurait y gagner (Zib. 73-74).

Queste parole sono, tra l'altro, una solenne condanna degli errori e dell'eccessivo «terribile» tanto caro ai Romantici.

Le numerose osservazioni della Staël determinano in Leopardi una risonanza letteraria che sempre si evolve ulteriormente in nuovi ed originali pensieri. Un esempio è l'importanza della musica come espressione di sentimenti immediati, più efficaci di quelli provocati dalla pittura, scultura e poesia. Solo l'architettura si accosterebbe di più alla musica, ma non ha «tanta subitaneità» (Zib. 80).

Per Leopardi si tratta di avvicinarsi il più possibile alla realtà delle cose, e per riuscirci, occorre ritornare all'immaginazione, al sentimento, non alla ragione. Le nostre sensazioni ripetendosi diventano assuefazioni che si fondano sull'abitudine e sulla persuasione. Quindi rifiuto di ogni finalismo; vale solo la convinzione che il mondo sia conoscibile. Un dubbio metodico (appreso da Cartesio) conduce l'uomo a conoscere relativamente, sempre in relazione a certe circostanze, tutte le cose, delle quali l'uomo è la misura (vedi il sofista Protagora: ànthropos métronhapànton). Un antico scetticismo pervade il pensiero leopardiano, che nel relativismo universale trova la conferma.

Da ciò, evidentemente, nascono «allures» e atteggiamenti che sfociano nella noia leopardiana, tanto da far apparire desiderabile persino la morte, per disperazione: «Io mi trovava orribilmente annoiato della vita e in grandissimo desiderio di uccidermi... (Zib. 66).

D'altra parte l'attaccamento alla vita, quell'istinto naturale innato di conservare se stesso che nell'uomo si definisce «amor proprio» lo inchioda: di esistere e di vivere per contrastare, smascherare e costruire questo mondo umano. E per poterlo fare, Leopardi passa per una fase stoica e pacata, per dominare tramite questa «disperazione placida» le sue passioni (Zib. 618).

Ne nasce una filosofia (come già accennato) frammentaria, relativistica che secondo Leopardi «dev'essere la base di tutta la metafisica» (Zib. 59). La proposizione fondamentale è questa: «Tutto è relativo, non c'è verità assoluta». La verità può affermarsi solo per assuefazione (concetto fondamentale, e altrettanto caro a David Hume). Ogni altra teoria gnoseologica è vana e fallace.

Quindi Leopardi parla di un suo «sistema» (pur restando frammentario nelle sue esposizioni): «Il mio sistema non distrugge l'assoluto, ma lo moltiplica; cioè rende assoluto ciò che si chiama relativo» (Zib. 1791-92).

Di conseguenza: sapere è sentire ciò che è vero, essendo noi persuasi e convinti solo della nostra emozione (certo che ci appoggiano anche i libri, le letture, i grandi autori classici, i grandi personaggi della storia), ma l'essenziale è il sentimento che ci anima.

Un soffio platonico traspira dal pensiero leopardiano, e la famosa «reminiscenza» mistica non è da escludere. Come del resto gli irrazionalisti tendono sempre al misticismo, una specie di evasione religiosa, come ci viene dimostrato per es. da Giuseppe Rensi ed Emile M. Cioran. E ne escono argomentazioni come questa: «La nostra ragione non può assolutamente trovare il vero se non dubitando», oppure: «Il vero consiste essenzialmente nel dubbio, e chi dubita sa» (Zib. 1655). Da ciò segue: «Dato che tutto il reale essendo un nulla, non v'è altro di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni» (Zib. 99). E beato chi ne possiede e le nutre. Altrimenti l'uomo che diventa «filosofo di professione» dovrà scontare tutta la sua vita nell'infelicità, senza conoscere il mondo (secondo Zib. 144).

Ciò che colpisce di più è la capacità leopardiana di utilizzare conoscitivamente le cose e vicende del vivere quotidiano. Si tratta di affrontare soggettivamente, giorno per giorno, le circostanze che accompagnano i fatti. Così, secondo il principio fondamentale del Locke, che niente è nell'intelletto che prima non fu nei sensi, la sensibilità per le cose, per gli avvenimenti diventa la misura della prassi d'azione. E lo dice la stessa Madama de Staël in Corinna: «Connaitre un autre (qui riferito a persona umana) parfaitement serait l'etude d'une vie entière; qu'est ce donc qu'on entend pour connaitre les hommes?» (Zib. 1588). Di conseguenza lo studio dell'uomo ovvero l'antropologia dovrà accompagnare tutta la vita, sarà un continuo tirocinio ed esercizio (secondo Zib. 1610).

Conoscere per Leopardi è anzitutto conoscere se stessi, in quanto le categorie mentali sono patrimonio comune, come molti filosofi, da Montaigne a Pascal, da Locke ad Hume, affermano. Occorre osservare gli altri, il loro comportamento nella società, per dedurre poi leggi generali che si realizzano in noi. Con questo rimando della psicologia individuale a quella generale Leopardi opera costantemente per dimostrare la necessità di fondare le cognizioni su dati di fatto reali. Le sue affermazioni accompagnate quasi sempre da aperture come: «Tutte le cose vedute e notate effettivamente da me» (Zib. 44) e altre come: «Io l'ho provato spesse volte» (Zib. 227) e altre ancora come: «L'esperienza mi ha mostrato» (Zib. 45) attestano che senza l'esperienza personale, soggettiva non si pensa e non si ragiona. Tutto va controllato dall'esperienza che si forma per osservazione, esercizio e lunga assuefazione: «Tutto è esercizio nell'uomo» (Zib. 1610).

Le autorità filosofiche servono a Leopardi per sostenere con maggior rilievo le sue teorie, il suo «sistema» che per lui è uno scetticismo relativistico, imperniato sulle circostanze contingenti della quotidianità. «Sapientissimo è quello che sa vedere le cose che gli stanno davanti agli occhi» (Zib. 2710). E non tralasciano l'aggiunta sarcastica: «Di qui si conferma quel mio principio che la sommità della sapienza consiste nel conoscere la sua propria inutilità» (Zib. 2711).

 

Così il Leopardi, spirito eminentemente eclettico, per l'abbondanza delle sue letture e i suoi vari studi, nel suo Zibaldone ci ha dato una specie di manuale di filosofia pratica (vedi p. es. Epitteto, da lui tradotto), un memoriale imperituro, uno specchio di riflessioni oscillanti tra il reale e il fantastico. Sarà una lezione da imparare per le generazioni future, e riscoprirlo come uno dei più grandi scettici, precursori del nostro tempo e senza mete.