IL CRISTALLO, 1995 XXXVII 3 [stampa]

PIRANDELLO E L'UMORISMO NE «IL FU MATTIA PASCAL»

di ANTONIO PIROMALLI

Negli anni Novanta la generazione che aveva contribuito all'Unità d'Italia e quella successiva rivedono nelle forme più diverse le loro fedi. Tali modi erano spesso irrazionali e confusi1 ma la base era il decadere della fiducia nella scienza: nascevano dubbi nei confronti di una realtà complessa che non trovava verifica secondo i dati preventivi e le necessità dei decenni precedenti. Le generazioni sopra ricordate avevano creduto nel compito della borghesia di guidare democraticamente l'Italia, nella necessità — per la letteratura — di rappresentare il reale e di collaborare al progresso dell'uomo con lo studio della scienza.

Con le nuove forze sociali nascevano problemi interiori, religiosi; non solo una rinfrancata autorità cattolica (contemporanea all'affievolirsi del serrato laicismo, dell'ideologia patriottica) ma anche – correlativi alla nuova metafisica e alla nuova ontologia – la diffusione di parapsicologia, spiritismo, la paura della plebe che si organizzava in partiti e movimenti. Altro timore assai diffuso è quello che i mutamenti storico-sociali, le macchine che prendono il posto dell'uomo disturbino la consueta attività dell'artista e del letterato.

In quegli anni vecchio e nuovo si confondono, nella produzione letteraria, in un congesto ideologico e formale (svigorirsi nella poetica naturalista, diffusione del simbolo, slanci di diffusione mistica, assottigliarsi della prosa, coacervo di stili ecc.) che immediatamente non si può decifrare e definire e che oggi vediamo con maggiore chiarezza perché abbiamo presente lo sviluppo storico dei singoli elementi degli scrittori nel loro divenire.

Pirandello manifesta consapevolezza del fallimento della scienza, della conoscenza che si può avere della vita, disprezza il socialismo, il piccolo mondo incapace di azione che ha intorno, avverte la crisi ma è lontano dal decadentismo di D'Annunzio e Pascoli, tiene in considerazione il metodo del verismo, ma ne avverte l'insufficienza di fronte alla complessità del reale. La consapevolezza della crisi non è abbandono ad essa neanche nei versi nei quali il poeta dichiara il male di vivere. Il romanzo si viene trasformando allontanandosi dal verismo, accogliendo messaggi ideologici (D'Annunzio, Fogazzaro) e Pirandello nel romanzo (che non è ancora dissolto nel soggettivismo novecentesco, ma è ancora per lui il narrare ottocentesco) sceglie casi e persone rispondenti alla sua concezione del mondo che comincia a dichiarare: il mondo che noi abitiamo è come una trottola impazzita sotto la sferza del sole, un granello di sabbia perduto nell'universo, gli uomini trascinati nel vortice, smarriti, irresoluti nel pensare e nell'agire. Le Beffe della Morte e della Vita sono le novelle di quel decennio di crisi, raccolte nel 1902 e nel 1903, tragiche e comiche insieme, ma non fondate sul tragico. Vi sono narrati casi irrazionali, ideologicamente interessanti nel dichiarare il suo modo di vedere e sentire la vita, ma nelle quali mancano i modi tecnici e peculiari per esprimere l'irrazionalismo sicché curva ideologica e tecnica artistica non si trovano a coincidere.


II) Pirandello pensa all'umorismo fin dall'Esclusa (scritta nella prima versione tra il 1893 e il 1895, nella seconda nel 1908), l'umorismo è in tutto Il fu Mattia Pascal (1904), misto di riso e pietà, in cui è resa evidente la natura che si beffa dell'uomo, con piena casualità. Lo scrittore, diversamente dai narratori impersonali, sciorina le sue argomentazioni e le sue tesi fondate sull'assurdità dell'esistenza, smaschera la commedia dei sentimenti per drammatizzare il Caso, scarta la descrizione dell'ipocrisia borghese, ha caratteri propri che derivano dal «sentimento del contrario». È anche ben lontano dall'anticipare Freud, stretto ad altra visione della realtà. Le proteste di Pirandello, nello scritto Arte e scienza, contro i professori di critica antropologica i quali assegnano patenti di pazzia o di degenerazione ad artisti che stiano, anche per poco, fuori dalla normalità, ci lascia intravedere uno scrittore volto a giustificare l'anormalità psicologica e la necessità del sacrificio della logica comune a superiori effetti d'arte («il vero dell'arte, il vero della fantasia non è il vero comune»). C'è la piena comprensione per l'artista che nel suo «libero movimento vitale» crea leggi «ch'egli stesso ignora» e c'è un'attenta valutazione della diversità delle idee, della divinazione dei loro rapporti che l'artista deve avere. Rigettata l'arbitrarietà dello Spencer che dà ai sentimenti estetici una causa fisiologica e rigettate le idee del Taine che considera le opere d'arte «come effetti necessari di forze naturali e sociali, come documenti e segni d'uno stato dello spirito» Pirandello sente che la sistematica, la metodologia, le classificazioni della critica letteraria non sono essenziali e che il rigore del Croce nello scartare l'impoetico, l'inartistico per porre un freno all'irrompere del pragmatismo, dell'irrazionalismo, del decadentismo ha ristretto l'orizzonte della critica a un'unica questione incapace di abbracciare tutto il complesso fenomeno artistico. Ormai lo scrittore è convinto che costante della vita è la solitudine dell'individuo, che le grandi speranze dei romantici sono decadute nella sconfitta e nello scacco. L'epoca dei titani è finita, esistono solamente gli Amleti incerti e dubbiosi. Il «sentimento del contrario» di L'umorismo è fondamentale per comprendere il momento critico, della riflessione, inerente alla creazione. Le contraddizioni e le opposizioni rendono al vivo la dialettica bizzarra e quella dei «casi»: ben lungi dall'operare un equilibrio dei sentimenti, mirano a farli esplodere violentemente, a esprimere l'incredulità intorno alla logica del reale, a dissipare la bella credenza dell'armonia dell'esistente, a investire la stessa idea della razionalità dell'arte e dell'espressione estetica.

I miti estetizzanti del decadentismo sono lontanissimi:

Il D'Annunzio — dirà più tardi — è tutto letteratura (...) Là la pomposa opulenza non solo d'una prosa tutta tumida polpa con sapienza truccata, ma anche opulenza materiale di cose rappresentate, perché e ville e ozi e smanie e superbi orgogli di signori.

La pura bellezza, la «gelida virgo preraffaelita», gli anacoreti del bel gesto, gli «angelici doctores» non hanno per lui la minima significazione umana, sono aspetti di retorica spirituale. Amara è la radice umana di Pirandello il quale non può nemmeno considerare gli idealismi e i miti di cui la nostra letteratura decadente si ammantava. Con il sentimento del contrario – che non è una formula né una componente dell'umorismo, ma un modo di vedere, la ricchezza stessa dalla mente dialettica e lavorante – approfondisce, con la scomposizione, lo sguardo sulla realtà. La riflessione e il bisogno di sincerità (che in lui diventa sconsolata poesia) rendono immediata l'espressione della passione sofferta, in un magma di sentimenti e di pensieri che è la nuova forma di arte del Novecento. Le nuove invenzioni artistiche portano con sé nuovi mezzi espressivi per interpretare l'inquieta coscienza contemporanea, la scissione della personalità che si dissolve dolorosamente e si viene assotigliando come ombra. L'individuo pirandelliano si distrugge, si denuda, si capovolge e si illumina, delira e si confessa, schernisce se stesso e gli altri: sa di essere vittima di illusioni che non consentono realizzazioni e si divincola per confessare la propria tragedia e il proprio casuale destino:

Una sola cosa è triste, cari miei: — dirà più tardi — aver capito il gioco! Dico il gioco di questo demoniaccio beffardo che ciascuno di noi ha dentro e che si spassa a rappresentarci di fuori, come realtà, ciò che poco dopo egli stesso ci scopre come una nostra illusione, deridendoci per gli affanni che per essa ci siamo dati.

L'estetica del Croce appariva a Pirandello «intellettualistica senza intelletto«, fondata sulle sole rappresentazioni, unicamente in base a un procedimento logico e dunque astratta e monca. Il Croce è rimasto prigioniero dell'idea «fissa e angusta dell'intuizione». Altro elemento di divergenza dal Croce è per Pirandello la presenza della riflessione nell'arte. Premesso che l'arte per lui non è semplice conoscenza, Pirandello afferma che la riflessione non ha valore se non quando si fa sentimento e che per mezzo della fantasia la riflessione può essere realizzata in arte: l'arte non è solo un'attività dello spirito, ma tutto lo spirito che nell'arte, come nella scienza, si manifesta; tanto è vero che ogni opera di scienza è scienza e arte come ogni opera d'arte è arte e scienza e l'ispirazione, «che è il movente iniziale della fantasia, è istintivamente ed essenzialmente logica così nell'arte come nella scienza». Nell'umorista la riflessione diventa anch'essa potenza creatrice («come un demonietto che smonta il congegno dell'immagine, del fantoccio messo su dal sentimento; lo smonta per veder com'è fatto; scarica la molla, e tutto il congegno ne stride, convulso»), la concezione dell'umorista si sdoppia, «assegna una parte al sentimento, una parte alla riflessione»: quest'ultima è come uno specchio di acqua diaccia,

in cui la fiaccola del sentimento non si contenta di rimirarsi, ma si tuffa e si smorza; e il friggere dell'acqua è il riso che suscita l'umorista e il vapore che n'esala è la fantasia spesso un po' fumosa dell'opera umoristica. La quale nasce insomma dal contrasto tra il caldo del sentimento e il freddo della riflessione.

Il sapore dell'opera umoristica è «sempre acre» perché nasce dalla vita come movimento e l'artista vede il mondo «com'esso si vede», lo sente «com'esso si sente».

La polemica anticrociana, in nome del soggettivismo, di un'arte nascente dalla complessità della vita è legata alla polemica contro i generi letterari e contro la tradizione formalistica: la concezione estetica pirandelliana ha radici in una concezione del mondo che fende, come una crepa immensa, sempre più, l'idea tradizionale della vita, per la coscienza acutissima della crisi delle fedi e dei valori umani. Tale ideologia della crisi porta al rifiuto dell'arte compositiva (che nasce dal troppo semplice e dal troppo ragionevole) e degli scrittori che «ordinariamente buttano via la terra e presentano l'oro in zecchini nuovi, ben colato, ben fuso, ben pesato e con la loro marca e il loro stemma bene impressi: per l'umorista

le cause, nella vita, non sono mai così logiche, così ordinate come nelle comuni opere d'arte. L'ordine? La coerenza? Ma se noi abbiamo dentro quattro, cinque anime in lotta fra di loro: l'anima istintiva, l'anima morale, l'anima affettiva, l'anima sociale? E secondo che domina questa o quella, s'atteggia la nostra coscienza (...) Non ci sentiamo guizzar dentro, spesso, pensieri strani, quasi lampi di follia, pensieri inconseguenti, inconfessabili finanche a noi stessi, come sorti davvero da un'anima diversa da quella che normalmente ci riconosciamo?2

III) Pirandello giunge al concetto di «umorismo quando ha ormai partecipato all'esperienza culturale di tanti intellettuali i quali hanno visto la consumazione dell'idealismo eroico del Risorgimento, la bancarotta della società democratica borghese e del parlamentarismo, l'abbandono dei miti positivistici della scienza e del progresso, della letteratura del verismo. In tale desistenza di fiducia e di certezze egli si trova coinvolto, oltre che con la propria generazione, con quella precedente e con quella successiva: in un mondo particolare in cui è predominante la delusione patriottica risorgimentale che gli eccita lo sdegno contro gli eredi (i democratici) del Risorgimento che avevano tradito gli ideali, contro il socialismo. Tuttavia Pirandello respinge gli idealismi, gli spiritualismi, il decadentismo cantore del «malessere intellettuale». Tutti i miti (dai familiari pascoliani al superomismo, al pragmatismo) sono messi da parte perché in essi è vano ricercare leggi e progetti ragionevoli. In questo tempo egli coordina il suo atteggiamento di fronte alla vita: stare a guardare ciò che avviene, al di fuori delle passioni, come chi ha capito il gioco e non si lascia trascinare in esso. Nel Fu Mattia Pascal Pirandello credette ««in un ruolo privilegiato dell'artista, smascheratore delle menzogne individuali e sociali, laceratore delle false coscienze, rivelatore di verità amare ma salutari» (G. Petronio, Restauri cit., p. 179): nel romanzo egli volle opporsi alla concezione dell'armonia, dell'ottimismo del mondo e presentare il caotico sovrapporsi degli eventi muovendo dalla propria base ideologica (coscienza della nullità dell'uomo, della relatività delle cose, dell'impotenza ad agire, a operare sì da cambiare il mondo). Ancora non c'è la ricchezza ideologica, morale (accompagnata agli strumenti tecnici nuovi, alle invenzioni strutturali) degli anni Venti, ma centrali nel romanzo sono il rifiuto di vivere lasciandosi trasportare dalle passioni, la necessità di stare fuori dal gioco guardando il pullulare degli eventi.

Alla visione dell'uomo diversa da quella del naturalismo Pirandello fa corrispondere una forma di romanzo i cui motivi non sono più collegati secondo i motivi di causa ed effetto, ma secondo il caso. Questo fa muovere Mattia in una serie di vicende che indicano l'assurdità della vita (che non è più progresso, nella quale non c'è più il punto di vista) seguendo la realtà dei casi. La logica dei casi è irrazionale e beffarda, denota la difformità dell'essere. Anche la tecnica è quella dell'umorismo, scomposta e intervallata da riflessioni, il personaggio deve riprodurre l'intreccio di comico e tragico che è nella vita. Nella sua coscienza di vivere Mattia Pascal rifiuta le convenzioni, sente di aver recuperato illimitate disponibilità interiori prive di condizionamenti, ma giungono le necessità di patteggiamenti e compromessi, di crearsi una «forma»: essere libero è impossibile. Il conflitto tra vita interiore e meccanismi sociali è perpetuo, il narratore umorista interviene per indicare una possibilità di ristrutturare il reale, porsi «come già fuori della vita» per staccarsi dalla dipendenza. Mattia col suo operato non vuole distruggere la società, ma attaccarne la logica razionale. L'umorismo del vivo-morto distrugge le diverse apparenze cui si organizza la società, ma diventa artefice di nuove relazioni, trasforma l'estraneità in formula di salvezza.

Pirandello traduce in creazione d'arte – il primo «grottesco» della letteratura inventiva del Novecento (Mazzali) – la fenomenologia esistenziale del casuale e del convulso, in un modo originale che richiede la presenza della coscienza critica nell'artista, la ragione illuminata che con le fermate, i rallentamenti, le riflessioni evita la tragicità piena, legge l'umorismo come pena di vivere generata dalla resurrezione fallita di Adriano Meis il quale «deve» riportare le sue «carte in regola»: la sua libertà è stata un'illusione, ma necessaria, perché al di fuori di essa altro non c'era. Quando il personaggio vede la situazione anormale che ha penosamente sopportato la infrange perché non vuole essere la marionetta di se stesso. Solo l'arte non è assurda né inverosimile perché la vita presenta casi assurdi derivati dall'arte.

Dopo Copernico e la consapevolezza della miseria umana non è possibile rappresentare, si dice nel romanzo, eventi eroici, non ci può essere un Oreste, ma degli Amleti incerti e confusi e la vicenda di Mattia Pascal e della piccola o infima borghesia che lo circonda è grottesca fin dall'inizio, quando la vedova Pescatore con la faccia e i capelli ricoperti dalla pasta di farina si rotola per terra e il genero la supplica di non mostrargli le gambe e piange per il troppo ridere: «da allora ho fatto il gusto a ridere di tutte le mie sciagure e d'ogni mio tormento» (il riso tragico domina le scene finali di Mattia resuscitato che ritorna alla casa della moglie e della suocera). Su Mattia pesa la noia di una vita senza mutamento sicché quando la Fortuna gli consente di cambiare identità egli si sente «sceverato dalla vita comune», emerso dalle brighe in cui gli altri si dibattono, con la coscienza «rifatta vergine»: «Oh levità deliziosa dell'anima; serena ineffabile ebbrezza!». Ma ben presto si accorge che egli è «un uomo inventato», privo di cose sostanziali che lo riallaccino al «complicatissimo intrico della vita» perché in ogni oggetto «noi amiamo quel che vi mettiamo di noi» e ad Adriano Meis la vita, a considerarla da spettatore estraneo, appare «senza costrutto e senza scopo» e le stesse invenzioni scientifiche che la rendono più comoda sono inutili in quanto la rendono anche «facile e meccanica».

Egli vorrebbe vivere, ma non può troppo accostarsi alla vita altrui per non crearsi impossibili legami: la nuova libertà ha dei confini, come li avrebbe altrove. In tale condizione il protagonista ascolta da Anselmo i monologhi sulla crisi che si avverte quando il lume di una idea comune non è alimentato dal sentimento collettivo e le «singole lanternine» si sparpagliano, spente, in gran confusione, attente al loro particolare. Ma allorché Adriano Meis si innamora di Adriana si accorge che il morto che egli è non può amare né vivere, è «ombra d'uomo», illuso di vivere solo e in quanto appagato di star chiuso in sé. L'«umorismo» della situazione genera la pietà per la donna e per sé «morto e ancora ammogliato!». La vita ricreata che Adriano riteneva libera era schiava delle finzioni, del timore di essere scoperta falsa: quella paura teneva Adriano lontano dagli uomini come nel supplizio di Tantalo. Simbolo della sua vita è l'ombra che lo accompagna, forse più reale della vera ombra che è lui. L'umorismo trionfa col grottesco nelle pagine finali del ritorno di Mattia Pascal a Miragno, dell'incontro con la moglie e con il nuovo marito della moglie, nelle quali esplodono i difetti della maschera finché non si scopre nuda.

Con Mattia Pascal che ha trovato le proprie possibilità creative l'arte letteraria ha un cambiamento di funzione e propone — contro l'impassibilità del verismo, contro l'estetismo decadente — la spontaneità della vita. Il narratore, il privilegiato umorista, con i suoi interventi mostra il dilemma della situazione. Anche lo stile partecipa di tale funzione. Il soliloquio è la misura del personaggio pirandelliano e il soliloquio è sciolto dalle clausole del moralismo classicistico, ubbidisce ali' ictus del soggettivismo esasperato (perché sofferente) attraverso ripetizioni, iterazioni («gira e gira e gira», «lo aveva ingannato, ingannato, ingannato», «là, là, là, sul naso», «misere, misere, misere, più di quei due gattini» «ero morto, ero morto: non avevo più debiti, non avevo più moglie, non avevo più suocera», «libera, libera, libera», ecc.), inflessioni incidentali, avverbi modali, esclamazioni («Oh oh oh», «ora», «figurarsi», «oh bella», «ora così», «eroe, ecco, eroe», «si figuri», «sicuro!», <sì»> ecc.) che esprimono le antitesi delle situazioni.


IV) L'area comune dei primi quindici anni del Novecento è l'assenza di fedi e di valori generali. A Pirandello la sostanza tragica esistenziale si svela a cominciare dall'ultimo decennio dell'Ottocento con la caduta degli ideali patriottici e scientifici della borghesia. Nel 1893 scriveva:

Ci sentiamo come smarriti, anzi perduti in un cieco, immenso labirinto, circondato tutt'intorno da un mistero impenetrabile (...) Nessuno più riesce a stabilirsi in un punto di vista fermo e incrollabile (...) A me la coscienza moderna dà l'immagine d'un sogno angoscioso attraversato da rapide larve or tristi or minacciose, d'una battaglia notturna, d'una mischia disperata.

In una pagina epistolare familiare esprime la consapevolezza della crisi scrivendo che quando si osserva la vita come «un'enorme pupazzata, senza nesso, senza spiegazione mai» si rimane «un viandante senza casa, un uccello senza nido», si sopravvive («Un concetto positivo e scientifico della vita, mi fa vivere come gli altri vermi»), la necessità delle istituzioni sociali vince gli sforzi dell'individuo («Vuoi ribellarti? Non puoi (...) tu sei prigioniero di quello che hai fatto, della forma che quel fatto ti ha dato»). Il fluire vitale diventa inconsistenza quando si determina nelle singole forme e negli esseri; anche le classi sociali sono negate come forme che spengono la vita, lo stesso socialismo è un inganno perché con l'illusione del progresso allontana l'uomo dalla conoscenza della condizione esistenziale della impossibilità di comunicare.

La materia narrativa è sconvolta dallo sccrittore, il personaggio è distrutto, l'opera narrativa – che rappresenta il casuale, l'anormale, il patologico – illumina il magma mettendo in moto i meccanismi contraddittori della realtà. La tecnica e la poetica non possono essere quelle del romanzo e del teatro borghesi ottocenteschi, del mondo delle mistificazioni. Pirandello deve rappresentare l'uomo che non può comunicare con gli altri, la condizione che egli verificava nel suo tempo. Anche Carlo Michelstaedter era malato del disagio generale e riusciva ad analizzare alla sorella Paula il proprio modo di sentire:

Soffro perché mi sento vile, debole (...) e non ho quindi quell'impulso poderoso che fa andar qualcuno a testa alta attraverso la vita (...) perché mi accorgo di vivere quasi in un sogno dove tutto è incompleto ed oscuro (...). Un po' è individuale un po' è la malattia dell'epoca (...) perché ci troviamo appunto in un'epoca di transizione della società quando tutti i legami sembrano sciogliersi, e l'ingranaggio degli interessi si disperde, e le vie dell'esistenza non sono nettamente tracciate in ogni ambiente verso il punto culminante, ma tutte si confondono, e scompaiono, e sta all'iniziativa individuale crearsi fra il chaos universale la via luminosa».

Nella sua interpretazione concettuale della socialità borghese Michelstaedter coincide con Pirandello nel dire che «la vita è un'infinita correlatività di coscienze» (la fonte vera citata dal goriziano è Eraclito). Da tale premessa deriva che: «A ognuno il suo mondo è» il «mondo», il dio onorato è il dio piacevole, gli uomini hanno paura dell'assoluto, del dolore, si creano una individualità illusoria, privi di persuasione danno nome di scienza alle loro creazioni insufficienti («non c'è sosta per chi è alla corrente, ma ogni istante di riposo è la via all'inverso», «conviene adattarsi»). Michelstaedter demistifica la vanità e la vacuità degli uomini che si autocingono di allori, che «si stordiscono l'un l'altro», «si adagiano in parole che fingano la comunicazione», «di parole si fanno un empiastro al dolore», «il sistema dei nomi tappezza di specchi la stanza della miseria individuale». Il goriziano indica i modi falsi di pensare e di vivere, la degenerazione della persona in pagine che mimano artisticamente la sufficienza e la relatività degli uomini chiusi nell'accumulo del piacere e dell'utile. Egli si presenta come colui che offre, contro la negativa sete di vivere e contro il soddisfacimento dei bisogni, il permanere come assoluto e come vittoria sulla retorica. Era una affermazione dell'eroismo dell'antichità.

Pirandello non crede che la società contemporanea possa esercitarsi nell'eroismo perché l'emblema eroico di Oreste si è tramutato in quello del dubbioso Amleto (la reinvenzione del mito apparirà più tardi nell'arte del siciliano) ma crede – contro le qualità distruttive della società borghese – nell'irrazionale, nell'invenzione come generatori di spontaneità che vinca la cristallizzazione in cui si condensano le forme della vita.

Il Fu Mattia Pascal è il primo grande contributo artistico alla liberazione dell'autenticità, allo scioglimento della consistenza in una forma (ma le forme temporanee non sono escluse); è anche un documento esemplare della trasformazione del romanzo del Novecento.

 


NOTE

1 Per la crisi di quegli anni G. PETRONIO, Restauri letterari da Verga a Pirandello, Bari, Laterza 1990; G. PETRONIO, Racconto del Novecento letterario in Italia (1890-1945), Bari, Laterza 1993.

2 Per il concetto di «umorismo» e per i rapporti tra Pirandello e Croce rimandiamo al nostro studio Pirandello e Croce letto al Convegno di studi pirandelliani a Venezia nel 1961 e poi pubblicato in A. PIROMALLI, Saggi critici di storia letteraria, Firenze, Olschki 1967, pp. 183-196.