IL CRISTALLO, 2010 LII 1 [stampa]

FOGLIETTI SUDTIROLESI

di ENRICO DE ZORDO

Meditazioni sul confine

 

"Invece di attrarre su di sé lo sguardo", scrive Ortega y Gasset in qualche suo luogo, "la cornice si limita a condensarlo e a riversarlo sul quadro". Spostando appena di un poco il punto di vista, si potrebbe anche dire che il nostro sguardo è una palla e la cornice una sponda: senza incontrare ostacoli, esso rimbalza sulla cornice e finisce nel quadro.

Data la contiguità simbolica tra cornice e confine, Qualcuno potrebbe ora accogliere questo pensiero di Ortega sentendosi in diritto di leggere il paesaggio sudtirolese come se fosse un quadro e il suo confine come se fosse una cornice. Quindi, una volta dimostrato che il paesaggio - ogni dettaglio del nostro paesaggio - sembra essere lì per esibire il confine che lo cinge, il nostro uomo arriverebbe a una conclusione piuttosto scontata: in Sudtirolo, il quadro si comporta come se fosse una cornice, e la cornice come se fosse un quadro.

Se poi l'ipotetico interlocutore di Qualcuno, che per comodità chiameremo Qualcun altro, ci facesse notare non senza alterigia che qui da noi l'idea del confine è talmente plastica e pervasiva da srotolarsi sul paesaggio fino a sovrapporglisi, a tutti noi verrebbe in mente un bellissimo lenzuolo di lino disteso su un corpo che muore: una sindone, vedi? ma illuminata a sprazzi da un luccicore perlaceo, che non sai se prelude al crepuscolo o è presagio d'aurora. "Un momento: non mi starai mica dicendo che il confine avvolge il paesaggio come un lenzuolo mortuario?" chiederebbe allora il gestore della locanda. "Forse sì", bisognerebbe rispondergli "ma, per favore, non esageriamo. Tutt'al più, capovolgendo la frase di Ortega, si potrebbe cautamente supporre che il nostro territorio, anziché attrarre su di sé lo sguardo, si limiti a condensarlo e a riversarlo sul confine".

La palla, invece di rimbalzare sulla cornice e perdersi nel paesaggio, in questo caso impatterebbe direttamente la superficie del quadro, da lì rimbalzerebbe su un punto qualsiasi della cornice e vi rimarrebbe appiccicata.

Discorso concluso? Parrebbe di sì, anche se tutti i presenti, in cuor loro, saprebbero che il famoso docente dell'università di Bressanone, se quel giorno non si trovasse a Berlino per un convegno, direbbe che "no, in Sudtirolo è diverso: qui da noi il confine non è lineare, non circonda un territorio. Esso è bensì un'atmosfera, una circonferenza allo stato gassoso sparpagliata dai venti d'Europa. È qualcosa di imponderabile: un pulviscolo di catene montuose, caserme, tradizioni, accordi internazionali, ex dogane. È la turbolenza in cui viviamo, l'aria che respiriamo. Avete mai visto un contorno che non circoscrive? Ecco, da noi il confine è qualcosa del genere. Si costituisce di irregolarità, malintesi, colpi di tosse, dormitori, minacce di secessione. È come una polvere fine, che sottraendosi al tatto, s'infiltra nei bronchi, raggiunge i polmoni, segue i percorsi del sangue e delle vene. Bisogna capire una cosa, signori: il confine sta dentro i suoi abitanti, non fuori. Con loro si alza, va in ferie, sbadiglia, cammina in tutte le direzioni. È una concitazione sentimentale, il cui potentissimo cervello pittorico ridisegna il nostro paesaggio interiore a guisa di valico o passo, o facendolo eguale ai muri scrostati di una casa ferrovieri".

Con ogni probabilità, nonostante non siano mai state pronunciate, queste parole colpirebbero gli astanti con la stessa forza di una necessità, come mangiare o dormire, impressionando a tal segno il gestore della locanda, da indurlo ad alzare le saracinesche per fare entrare la luce del giorno.

Sorpresi da un postremo paesaggio invernale, Qualcuno, Qualcun altro e la fantasia passiva del famoso docente dell'università di Bressanone, vedrebbero allora dei fiocchi di neve posarsi sui loro pensieri.

(Tutto questo, io credo, si potrebbe riscrivere in bello stile, possibilmente all'indicativo, ricavandone un grazioso soliloquio a più voci. In certi ambienti alla moda, come ad esempio l'anticamera di un parrucchiere, se ne otterrebbero parole di elogio. Tutto questo, però, ricorderebbe comunque qualcosa di vago: la planimetria di una balbuzie, una brezza, l'acciambellarsi di un orizzonte che a poco a poco digrada).

 

Identità sudtirolese. Anzi no, solo la mia

 

Il mio carattere nazionale è andato a pescare nella Rienza. Il mio carattere sessuale scade alla fine di novembre. Il mio carattere geografico è più di là che di qua, ma sottoterra perché ogni tanto passano i lombrichi. Il mio carattere statale spolvera bottiglie vuote in un supermercato. Il mio carattere politico si stropiccia gli occhi finché tengono le palpebre. Il mio carattere inconscio dorme tra due guanciali di chiodi. Il mio carattere conscio non lo sveglia mai. Il mio carattere musicale trallallero trallallà. Il mio carattere privato è una montagna tibetana che poggia su... su... Ce l'ho sulla punta della lingua ma non mi viene in mente. Il mio carattere di classe è andato a prendere le sigarette. Il mio carattere storico tornerà verso le sei. (Non è pazzesco che questi bei caratteri non se ne escano fuori per rotolarsi in un parcheggio a pagamento?) Il mio carattere estetico si guarda attorno passandosi una mano tra i capelli. Il mio carattere del cazzo, adesso che ci penso, si è proprio rotto i coglioni. Il mio carattere linguistico non ha carattere. Il mio carattere professionale ha deciso di scrivere un curriculum. "C'hai mica tre euro da prestarmi?" si chiede il mio carattere economico. Il mio carattere religioso è nel sonno remoto del mio gatto. Il mio carattere intellettuale, scalzo, rimprovera il mio carattere pratico perché ha le scarpe slacciate. Il mio carattere informatico. Eh? Informatico? Il mio carattere morale sta seduto in terrazza e aspetta che qualcuno gli offra l'aperitivo.

Questa è la mia identità. Tra due minuti, quando la mia rasatura sarà perfetta, un po' di cose saranno cambiate.

 

Sentire il confine

 

Il signore sui trent'anni che comincia a incanutire è attraversato da qualcosa di compatto: un'irregolarità, una concrezione aguzza, un'asticciola sghemba ma dura come un osso. Si reca dunque dal medico di base e, picchiettandosi il frontale con le dita, gli espone il suo problema: "Proprio qui, in mezzo alla fronte, tra occhio e occhio, sotto la prima pelle, mi si è formato un ossicino che protubera e dà noia".

Dopo averlo auscultato, il medico lo palpeggia in lungo e in largo, ma si riserva di formulare una diagnosi soltanto a seguito di un minuzioso esame radiografico. Non trascorrono tre settimane e i due si incontrano di nuovo. Il medico di base, stringendo una lastra nella mano sinistra, e con la destra indicandovi un'ombreggiatura oblunga che compone lo spettro di un percorso, si rivolge allora al signore sui trent'anni: "Mio caro amico, mettiamola così: un corpo estraneo ha preso ospizio dentro di lei: esso ha principio nel coccige, costeggia l'osso sacro, sale su lungo le vertebre lombari senza incontrare opposizione; poi, all'altezza dei polmoni, piega a destra, verso la parte anteriore dell'addome e dopo aver lambito il cuore e un paio di venuzze, prosegue verso l'alto, rasente la carotide. Infine, conclude il suo tragitto infilzando la lingua a mo' di spiedo, e arrampicandosi più su, fino alla fronte, accosto al muscolo nasale".

A questo punto il dottore si interrompe. Tossicchia a lungo premendosi le tempie. Poi fa il raschio, quasi a voler chiarire, schiarendosi la voce, il suo pensiero.

"Non mi fraintenda, signore. Lei sta benissimo. Semplicemente, in stato di minor resistenza, ha inghiottito il confine che cinge il Sudtirolo. Salorno, Passo della Mendola, Malga Castrin, Lago Corvo, Passo dello Stelvio, Passo Resia, Rifugio Similaun, Passo del Rombo, Brennero, Rifugio Gran Pilastro, Malga Predoi, Passo Stalle, Prato alla Drava, Cimabanche, Catinaccio, Salorno. Ogni località è una vertebra: il confine è la sua seconda colonna vertebrale".

Il signore sui trent'anni, un uomo arguto di solida formazione cartesiana, all'improvviso incanutisce. Uscendo dall'ambulatorio del medico di base, ha l'impressione che qualcosa sia cambiato. O meglio, tutto è uguale a prima: si sente rigido e cammina un po' impettito, come se indossasse un busto troppo stretto. Adesso, però, gli pare di aver dentro qualcosa di importante: una responsabilità, un confine, la traccia discontinua di un arbitrio.

(Intanto, a Bressanone, tutti parlano di lui. Si dice che nei giorni di bel tempo, accostando l'orecchio alla sua fronte, sia possibile udire il fischio di un treno che varca la frontiera).

 

La piaga e il suo "bla blà"

 

La ferita che si estende dal Brennero a Salorno è un punto d'equilibrio: non un'equidistanza, ma un'oscillazione permanente tra la guarigione e la cancrena. Bisogna medicarla quel tanto che basta per non farla suppurare, ma mai abbastanza da farla guarire. Prima viene pulita, sterilizzata, bendata e subito dopo sbendata, infettata, sporcata; poi di nuovo pulita, disinfettata, fasciata. E questo si ripete più volte al giorno, impegnando a tempo pieno decine di ospedali per mesi e per decenni, senza interruzioni, secondo un movimento a formicaio del tutto indipendente dall'alternarsi delle stagioni e dei governi: centinaia di barellieri camminano avanti e indietro con le loro lettighe vuote sulle quali ogni tanto sostano i mosconi; valicano passi, saltano steccati, attraversano autostrade percorse da furgoni stracolmi di bendaggi che incrociano autotreni adibiti al trasporto di cerotti. Questi barellieri, uomini e donne di tutte le etnie e di tutte le classi sociali, sono esseri lacerati e offesi, attraversati essi stessi dalla ferita sfrangiata che attraversano. Trascinandosi appresso le loro lettighe vuote, corrono a destra e a manca, su neve asfalto o roccia, senza fermarsi mai. Questi ammalati in perfetta salute, ricoperti da escoriazioni all'ultima moda, percorrono in su e in giù un territorio che è al tempo stesso una ferita aperta e lo spazio ospedalizzato messo in piedi per curarla. Strade linde come lunghe corsie d'ospedale collegano paesi e cittadine abitati da individui sempre pronti a prestare le cure del caso, che può voler dire, a seconda delle circostanze, cicatrizzare o mettere il dito nella piaga. Il fatto che ogni casa sia in realtà un ambulatorio con le finestre affacciate su montagne di lacci emostatici dalle quali ruscellano giù a valle torrenti di mercurocromo, fa pensare che forse la cura della piaga è ormai più importante della piaga. D'altro canto, se non ci fosse la ferita, le cose come adesso le vediamo svanirebbero all'istante. Ma sarà vero che proprio tutto, anche il profilo discontinuo del paesaggio, trae la propria forma dai contorni irregolari dello squarcio? "Non è questo il punto" rispondono i primari "Una ferita così dà da mangiare e da pensare a quasi mezzo milione di abitanti, anche a quei pochi sprovveduti che vorrebbero sanarla".

Gli infermieri, sempre curvi sulla piaga, lavorano a due a due: i primi la sterilizzano e la bendano, i secondi la sbendano e la infettano. I primi la puliscono e la chiudono, i secondi la disserrano e la sporcano. I primi cicatrizzano, i secondi riaprono. Poi si danno il cambio attenendosi a turni regolari, in modo che ognuno sappia usare senza impacci la garza ed il rasoio e sia padrone dei due ruoli. Grazie a loro, la ferita sanguina, genera paesaggi, puzza, fa la crosta, si chiude, si riapre, alimenta un repertorio d'immagini, zampilla, fa pus, ridisegna spazi urbani. Ma soprattutto, si coagula in racconto. Non un racconto unitario, ma una serie di racconti giustapposti, sicuramente contigui ma del tutto impermeabili. Ognuno di essi è un mondo a sé stante di parole, loquace al proprio interno ma muto verso l'esterno. Bla blà, bla blà, bla blà: contemporaneamente, tutti narrano qualcosa del proprio rapporto con la piaga. Ognuno, raccontando a sé stesso il suo dolore, applaude la propria narrazione e non riesce più a fermarsi. Applaudono i primari. Applaudono i barellieri. Applaudono i becchini e gli infermieri. Soprattutto chi non vuole applaudire, applaude fino all'estenuazione. Sovrapponendosi, le voci formano una specie di racconto dei racconti sovrastato da un applauso che satura lo spazio. Non si capisce nulla. Tra i tessuti slabbrati della piaga rimbomba un battimani inarrestabile di mani scorticate.

 

Il disagio di un italiano

 

"Se non fossi la cenciosa canaglia che sono", pensava Mario Sandri nell'atto di indossare un paio di calze elastiche blu notte di gran lunga meno belle dell'antiestetico garbuglio di vene varicose che avrebbero dovuto contenere, "glielo direi in faccia che cosa penso del Capriccio sopra la lontananza del suo fratello dilettissimo". Poi s'acquietò, e dopo aver ripetuto la parola "claritate", mi riferì di strani incontri e di malversazioni. Trascrivo il suo racconto con studiata malagrazia, in attesa che disnebbi:

"Devo sostenere l'esame orale di maturità. Mi trovo nell'aula magna di un edificio sventrato e intuisco decine di volti ostili. I membri della commissione, appollaiati su giganteschi trespoli in similoro, sembrano non accorgersi che sotto di me scorre un fiume. Molti di loro sono distratti, alcuni sordomuti, altri ancora fingono di non vedermi. In ogni caso, si comportano tutti come se io non ci fossi. Nonostante li veda di sotto in su, in una prospettiva che potrebbe ingannare, ne ricavo un'immagine netta: sono perlopiù pulci del cane in età adulta, ossia volgarissimi insetti ematofagi appartenenti alla famiglia degli afanitteri, le cui abitudini alimentari, spiccatamente parassitarie, dispiacciono ad una parte cospicua di vertebrati, uomo compreso. Giustamente appiattiti, atteri, dotati di zampe posteriori saltatorie e bocca pungente-succhiante, sono talmente levigati ed in ogni senso perfetti, da sembrare fittizi. Ad un primo sguardo, forse tratto in errore dall'impressione che siano stati ritagliati da un onesto manuale di entomologia, sono portato a rubricare la loro assenza di spessore come probabile indizio di garbata mansuetudine. Fatto sta che questi insettacci, mancando completamente di profondità, non recano alcun turbamento. Per di più, ho la fortuna di conoscerli tutti.

 

In prima fila, accovacciato tra mio padre e il segretario comunale, c'è il mio datore di lavoro, una larva sui sessant'anni cui una fastidiosa malattia dello sviluppo ha impedito di accedere all'età adulta. Oggi sembra molto eccitato. Indossa un doppiopetto blu e non fa che guardarmi con aria di biasimo. Poco prima che l'esame abbia inizio, questa creatura vermiforme, in nessun modo affabile e senz'altro tremenda, prende la parola e comincia a insultarmi. Poi rende note alla commissione d'esame le ragioni della sua riprovazione: sarei responsabile di alcuni ammanchi di cassa e della morte improvvisa della sua figlioletta. Mi sento confuso. Sono certo della mia innocenza, ma non sono in grado di organizzare uno straccio di difesa. Il mio silenzio, inteso da alcuni a modo di chiara ammissione di colpa, assurto da altri a emblema di irredimibile vigliaccheria, diventa argomento di discussione e in pochi minuti cagiona negli astanti una reazione scomposta. L'intera commissione esaminatrice, capitanata dal sindaco della mia città, si avvia verso di me con fare guerresco. I membri più anziani, armati fino ai denti, si lasciano scivolare dai loro trespoli, guadagnando con calma il centro dell'arena, mentre i più giovani, o i più scaltriti nella pratica del balzo, non fanno in tempo a calcolare la possibile parabola del salto, che già s'affacciano furiosi sull'orlo della fossa. Sono proprio sopra di me, li vedo ad uno ad uno. Zampettano sicuri a randa a randa, a muta a muta mi coprono di odiose contumelie. Ci separa ormai la sola altezza del burrato: venticinque, forse trenta metri di parete verticale attraversata da una cengia sdrucciolevole, una spirale larga un dito che a metà della parete incrocicchia scale a ganci e biscagline. Prima del loro arrivo, ho giusto il tempo di formulare un benvenuto all'altezza. Penso a un discorso stringato ed efficace, possibilmente improntato a dignitosa sicumera, del tutto scevro di intenti adulatori, eppure capace di placare anche gli animi più turpi. Ho in mente un breve giro di parole sobrie e definitive, tenute assieme da un'elocuzione ineccepibile. "L'importante è mostrarsi deferenti, ma senza esagerare. Bisogna evitare qualsiasi forma di piaggeria", mi dico, e mentre me lo dico, in ossequio ai nuovi venuti, mi esibisco in una profonda riverenza, conformemente alla più rigida etichetta, piegando il capo in avanti, cioè, e spostando all'indietro la gamba sinistra con la grazia leggiadra di una dama. Quindi mi faccio forza, gonfio il petto e dico: "Colendissimi compari, amati parenti, concittadini tutti e cari amici, benvenuti nella mia fossa. Vi stavo aspettando con una certa apprensione. Io, come potete constatare, mi conduco in maniera assai modesta: la mia aula è un orrido strettissimo a sezione circolare, il mio banco uno sconcio tavolaccio incassato sul fondo limaccioso del dirupo. Per di più, sono immerso nella mota fino agli occhi e la mia mano destra, avvinta dietro la schiena, sanguina copiosamente. Cosa potrei desiderare di più? Di tanto in tanto, con grandi sforzi dei muscoli del collo e di tutta la cervice, riesco a tirar fuori la testa dal limaccio. Ma non crediate che quaggiù sian tutte rose e fiori; anch'io ho le mie brutte gatte da pelare: l'umidità, la muffa alle pareti, quest'aria irrespirabile, e poi le blatte e la loro pessima abitudine di balzarmi addosso ogniqualvolta decida di affacciarmi in superficie. Inoltre non ho libri e il programma d'esame non mi è stato ancora consegnato. Studio in questa buca ormai da molti anni e se non fosse per tutto questo fango e per il fiume che mi scorre sotto, costringendo le mie gambe a un lentissimo processo di erosione, riuscirei probabilmente a concentrarmi. Ma ora basta parlare di me. Ditemi di voi, piuttosto. Ho notato che il ciglio del burrone, affatto impervio e in più punti strapiombante, vi ha creato dei problemi. Peccato, sareste potuti arrivare molto prima. L'importante, però, è che ora siate qui. A proposito: posso offrirvi qualcosa? Del caffè, una pizza al taglio… O magari preferite un frizzantino?".

Le mie parole, forse un po' cerimoniose ma tutt'altro che fuori misura, contro ogni previsione non sortiscono gli effetti sperati. Subito, senza opporre resistenza, vengo sommerso di ingiurie e ceffoni. Con un morso, un collega di mia sorella mi stacca il mignolo della mano sinistra. La situazione volge rapidamente al peggio. Accanto alla porta d'ingresso, tra l'attaccapanni e la gigantografia dell'assessore alla cultura, una figura in ombra agita un capestro".

 

Un resoconto qualunque

 

La testa, se la scuoti e poi la versi in un bicchiere, contiene poco o niente: la mente, geometrici rottami, ghirigori, gemme, quadrati vuoti o pieni, mostruose simmetrie.

Il sudtirolese che ci piace immaginare, costretto al proprio ruolo da un copione duro, duramente scritto da uomini induriti dalla storia, si toglie il copricapo, si taglia i capelli a zero, si strappa il cuoio capelluto e si sguscia la testa, levandosi l'osso occipitale impari e incavato a forma di conchiglia per vedere che cosa ci sia sotto, avvedendosi con sorpresa che là, dove dovrebbe esserci il cervello, c'è invece un cappello sbertucciato pien di piuma d'uccel di grossa penna. Di fronte a lui, contemporaneamente, l'altoatesino che vogliamo immaginare, appiccicato al proprio ruolo da un copione molle, mollemente scritto da uomini rammolliti dalla storia, si toglie il copricapo, si taglia i capelli a zero, si strappa il cuoio capelluto e si sguscia la testa, levandosi prima con i diti lunghissimi dei piedi l'osso parietale e poi, con le dita affusolate delle mani, l'osso occipitale a forma di conchiglia, accorgendosi con un certo stupore che là, dove ci si aspetterebbe di trovare l'organo molle e polposo tutto intiero che riempie la cavità del cranio, non c'è proprio nulla.

Se la scena principale non fosse così avvincente, gli spettatori in platea con l'udito più fine si accorgerebbero che in un angolo in penombra del sottopalco rotola non visto il solito teschio verde che vorrebbe mescolare il cappello piumato con il niente. "Anche lui, poveraccio, fa parte dello spettacolo" dice il tizio che siede alle mie spalle. "Già, ma cosa significa tutto questo?" gli chiede Irina, con la testa appoggiata sul petto di Olga. "Perché non ce ne andiamo? Qui l'aria è pesante, ristagna. Dalle vecchie tappezzerie esala un alito rancido e il teatro è tutto pieno di ranocchi. Non sente come gracidano? Non sente anche lei questo strano odore di muffa? Ah, soffoco, soffoco....". "Ma che dice? Il nostro clima è il migliore d'Europa. Abbiamo il profumo dei larici, qui, abbiamo il fieno tagliato. Bisogna recitare, lavorare. Dobbiamo lavorare, recitare...". "Sì, forse ha ragione lei. Verrà un giorno in cui tutto questo ci apparirà chiaro, ma intanto dobbiamo recitare, lavorare... Però qui fa caldo, molto caldo, e il pavimento è sempre più limaccioso. Qui l'aria è satura. Capisce cosa intendo? L'aria è greve, viziata... respirare sta diventando difficile. E questi mosconi, poi...". Sarebbe bello poter trascrivere queste parole nel mio resoconto, ma adesso il copione prevede che un soffio di maestrale, libeccio o tramontana sollevi il mio foglietto per sospingerlo sotto le luci della ribalta. La pagina volteggia, resta sospesa, piroetta nel vuoto, manda ombre tremolanti sul fondale, svolazza, galleggia nell'aria, offre un saggio di levità. Poi, quando il vento cessa di spirare, si fa improvvisamente ponderosa e precipita giù in basso, inghiottita dalla botola di scena senza essere letta. Da dietro le quinte fuoriescono fumi colorati che si diffondono nell'aria mescidandosi, mentre dall'alto precipitano a pioggia le cascate scoppiettanti dei fuochi d'artificio. "Non è bellissimo il nostro teatro a cielo aperto?". Serpentelli, bombe a raggi, lance, pigliate. "La controbomba è quella lì. Sembra un rosone, vedi? Il suo nucleo di stelle è racchiuso in un contorno di cannelli". Intrecci, pallettoni, colpi scuri; e sinistri balenii di vortici scarlatti. "Chi può fermarli?". "L'Imperatore, forse, se entra in giostra sul cavallo degli scacchi". In attesa che Norbert C. Kaser, accoccolato sui ginocchi sbucciati di Clemente Rebora, cominci a recitare una poesia di Trakl ai ritmi impossibili di Dino Campana, un cameriere scivola svelto tra le poltroncine. Distribuisce bibite e panini e rivolge agli spettatori le parole di rito: "Lemonsoda? Coca cola? Vino bianco?". "I nostri succhi di frutta sono biologici". "Nel panino al formaggio ci metto il cetriolino?". "Per le signore e i signori più esigenti abbiamo preparato degli squisiti involtini primavera".

 

E pensare che questa farsa durerà ancora miliardi d'anni, scrisse Flaiano da qualche parte. C'è da augurarsi che avesse ragione.