IL CRISTALLO, 2010 LII 1 [stampa]

SANDRO ANGELUCCI, Verticalità, Book editore, Ro ferrarese, 2009.

recensione di FRANCA ALAIMO

Angelucci compendia nel suo libro più recente temi e riflessioni che avevano già caratterizzato molti dei testi delle precedenti raccolte, rivelando in tale insistenza di canto una tensione mai spenta che coinvolge tanto la sua dimensione spirituale, che quella sociale e politica, anche se un lettore frettoloso potrebbe negare la seconda e pensare, all'opposto, che il poeta si chiuda nella sua interiorità come in un recinto privato, per disinteresse nei confronti della realtà, per una sorta di egoismo solipsistico; confortato, tutto sommato, in questa sua ipotesi dalle molte domande disseminate nei testi e che per lo più l'autore rivolge a se stesso.

E, invece, la contemptio mundis di Angelucci è atteggiamento psicologico determinato dall'esatta percezione della storia contemporanea, e dei suoi guasti, non di rado esibiti anche in queste pagine, per combattere i quali egli indica il ritorno dell'uomo alla sua dimensione sacrale, sostituendo all'orizzontalità dissacratoria del nostro stare al mondo la dimensione della verticalità verso il profondo della propria interiorità e verso l'altezza del regno celeste. D'altra parte, mentre si potrebbe giustamente parlare di disimpegno per un uomo qualsiasi che preferisse chiudersi nel suo isolamento infruttuoso per sfuggire alle cose della terra, ingiusto sarebbe pensarlo per un religioso o per un poeta, l'uno intento ad innalzare preghiere, l'altro a scrivere versi. "Nell'apparente mia staticità - scrive il poeta, rispondendo alle accuse di una società che considera il fare solo ciò che di visibile accade sul palcoscenico mediatico - io non ho mai smesso / d'alzare questi rami / verso il cielo". È in quell'azione dell'alzare che sta la chiave del discorso: la sostengono, infatti, una volontà dinamica, una forza psicologica, una tensione spirituale che si contrappongono a quel fare senza progetto, senza feconde ipotesi e scopi, anzi, senza l'Ipotesi prima e fondante, com'è divenuto il vivere degli uomini.

Del resto, e lo sappiamo tutti, poesia è termine che s'apparenta, attraverso le radici comuni con il greco classico, con il significato del fare. Dell'innalzare preghiere, poi, che è compito degli uomini consacrati da Dio, Angelucci parla come di una pratica comune anche ai poeti, tanto da non esitare a definire preghiere i suoi testi, ben sapendo che gli oranti sono poeti ed i poeti oranti, perché entrambi hanno a che fare con il sacro. E non perché in questa raccolta il tema dominante sia l'anelito del cuore verso Dio, ma perché, in senso assai più lato, l'atto del poetare ha in sé qualcosa di divino, se è vero che esso cerca di rivelare l'ignoto, di sollevare il velo del mistero, di conoscere l'inconoscibile.

Si dirà che il religioso, pregando, recita formule predefinite, che canta certezze; si dirà ancora che il poeta non sa, cerca, dubita, forse anche bestemmia. Ma è vero che il discrimen tra preghiera e poesia è sottilissimo, per il semplice fatto che entrambe sono manifestazioni dello Spirito, il quale soffia sulla bocca di chi vuole e fa delle lingue carboni ardenti d'amore.

Io vorrei analizzare più da vicino una poesia come "Divino Nulla" (che è un concetto assolutamente difficile ed irto alla comprensione, cantato già in modo sublime da tanti mistici, come, per fare un esempio, da S. Juan de la Cruz), per sottolineare di che cosa sia "Dio" per il poeta Angelucci, che così elenca le sue manifestazioni: "sublimazione della parola" (e qui si tocca il famoso quanto ormai schernito principio d'estetica sacra che è l'inspirazione, cioè il gesto del soffiare dentro le parole, e nella mente dei poeti, - e chi non ricorda la dichiarazione di poetica dantesca in quell'"Amor che mi ditta dentro" - e nella Bibbia dei "profeti", quelli che parlano al posto di Dio); poi "un desiderio eterno" (come dire un sentimento ispirato dall'alto - de sideribus - il che sta a significare insieme la distanza e la prossimità tra cielo e terra); ancora, l'"amore", "che è e ti fa essere", cioè come principio creativo - e citiamo ancora Dante con L'Amor che move il sole e le altre stelle" -; e, infine, "vuoto santo", in altre parole quel "divino nulla" che dà titolo al testo.

Il "divino nulla" non è una professione di nichilismo, ma indica, piuttosto, tanto ciò che di Dio non è dato all'uomo sapere, quanto quello che ancora Dio non è ancora, nel suo continuo infaticabile divenire. Mi sembra che a ciò alludano "le mani liquide" di Dio, e non è casuale che la presenza dell'acqua sia così frequente nella raccolta, come simbolo topico del continuo fluire della vita, del trascorrere del tempo, confermato, del resto, largamente nell'ambito letterario. E però, qui, essa ha una qualche relazione anche con l'anima del poeta, chiusa fra i confini del corpo, come un lago tra le sponde (e il lago è il soggetto di due testi della raccolta), e tuttavia in fermento, oltre che specchio del paesaggio circostante. Quelle mani liquide sono le stesse del poeta che lascia fluire sul foglio le "sillabe-onde", le quali tutte sembrano volersi intridere di Bellezza, sottraendo il mondo allo scempio a cui la stupidità umana e il declino dei valori etico-estetici sembrano condannarlo.

La parola del poeta diventa strumento di salvazione, "consapevolezza della vita", libertà, zattera a cui il poeta si appiglia "come naufrago" nella tempesta della "dissonanza", rimanendo caparbiamente a galla, sicuro com'è di potere approdare in un'altra terra: egli, infatti, non perirà, perché uno dei motivi per cui si scrive è quello "…d'impedire all'anima / di apprendere la morte". Sembra di sentire l'omnis non moriar di Orazio, ma con la differenza che il poeta latino è sicuro che la poesia lo salverà dalla morte fisica, mentre Angelucci afferma che la poesia gli salverà l'anima, e questo è un concetto del tutto originale; scrive, infatti, in Falsa testimonianza: "Ma mi domando: /cieli come questo, / se non i miei versi come i suoi / non sono ancora prove / per la mia innocenza?".

Voglio anche dire qualcosa sul modo in cui Angelucci porge i suoi versi, che sono per lo più brevi, raramente distendendosi in qualche bell'endecasillabo o dodecasillabo e che hanno un tono lineare e riflessivo, rivolto più a se stesso che ad un "tu", che tuttavia appare in alcuni testi, dove non di rado assume, però, un tono di rivalità e di opposizione nei riguardi del poeta, ricordandogli quanto il suo ruolo appaia insignificante all'interno della visione del tutto economica ed utilitaristica che caratterizza i tempi d'oggi, accusa da cui egli difende se stesso e la poesia.

La speranza non può certo essere morta per un uomo di fede come Angelucci: ed ecco due bambini "dagli occhi limpidi" che sorridono tenendosi per mano ("Due sorrisi"), e alcuni paesaggi ancora incontaminati e bellissimi, e il conforto di altri uomini di fede come lui, e la presenza degli angeli che ci invitano ancora ad innamorarci "della vita / che scorre luminosa / sotto le lacrime". È lo stesso invito che il poeta desidera rivolgere ai suoi lettori, e questo vuol dire che la poesia non ha ancora rinunciato al suo compito più alto.