IL CRISTALLO, 2011 LIII 2-3 [stampa]

LA PROSA DANNUNZIANA NEI VERSI DI GUIDO GOZZANO

di SARA CALÌ

A chi pensava Gozzano quando descriveva Carlotta «come rapita in un cantico: lo sguardo al cielo profondo/e l'indice al labbro, secondo l'atteggiamento romantico1» (L'amica di nonna Speranza, vv. 107 e 108)? Forse a Maria Ferres che nel Piacere si vede «con l'indice sollevato verso la bocca nell'atto involontario di chi teme sia turbata la sua ascoltazione2»? E quando diceva: «Così Totò Merùmeni, dopo tristi vicende, / quasi è felice» (Totò Merùmeni, vv. 53 e 54), pensava a Baudelaire o al personaggio dannunziano della novella Toto, in Terra vergine: «Toto pareva felice […]3»?

Amato, emulato, rinnegato e parodiato. Il rapporto con d'Annunzio è duraturo, ipocritamente tormentato ma, certamente, imprescindibile. Lo scrittore affermato suggerisce non solo termini ed espressioni ma anche volti, abitudini, odori, luoghi prontamente carpiti dal giovane poeta e insediati nel testo poetico, dove sono abilmente mimetizzati, se non per qualche indizio lasciato per un'élite capace di cogliere l'elaborata tessitura intertestuale dei versi, sottesa alla gradevole comprensibilità della lettera.

Finora, l'attenzione degli studiosi è stata assorbita, per lo più, dall'analisi della poesia dannunziana, nella convinzione che la maggior parte delle citazioni derivasse da lì, complice forse Carlo Calcaterra che di Gozzano ebbe a dire: «sapeva a memoria tutto L'Isotteo, La chimera e Il poema paradisiaco4». Distolta dall'impeccabile memorizzazione, la critica ha tralasciato ricognizioni attente della prosa dannunziana, che costituiva, invece, un territorio in cui Gozzano gironzolava abitualmente, alla ricerca degli angoli dimenticati di certe novelle, della vita calma e chiusa di alcune figure femminili ferme nei loro sogni provinciali, affascinato dalle tensioni familiari del Trionfo della morte e dall'irrimediabile trascorrere del tempo nel Fuoco.

D'altronde, il giovane avvocato aveva cominciato presto a fare dell'intertestualità il punto di partenza dell'invenzione poetica tanto che, oltre a d'Annunzio, i critici hanno pazientemente rispolverato stralci di memorie dimenticate: Jammes, Mascheroni, Maeterlinck e tanti altri, echi, palpiti carpiti nell'aria da un poeta che era quasi ossessionato dalle parole altrui:

Lei non sa, Egregia, che cosa significhi per me l'essere innamorato d'una poesia? Significa questo: averne la presenza nel cervello, con una dolcezza importuna, sentirne pulsare il ritmo di continuo nelle cose più diverse e bizzarre5.

Questo confessava alla Guglielminetti, aggiungendo, per blandirne la vanità poetica, di aver imparato a memoria molti dei suoi versi:

Io dissi, e senza volume, parecchi dei vostri sonetti, ne so, credo, una quindicina a memoria, perfettamente e senza averli studiati. A poco a poco assimilerò tutto il volume6.

L'abitudine potrebbe derivare da un suggerimento dello stesso d'Annunzio che da un angolo del Piacere rivela la tecnica poetica di Sperelli: «quasi sempre, per incominciare a comporre, egli aveva bisogno d'una intonazione musicale datagli da un altro poeta; ed egli usava prenderla quasi sempre dai verseggiatori antichi di Toscana7». E quasi per obbedire a questa indicazione anche Gozzano aveva subito posto sullo scrittoio alcuni volumi da leggere tutti i giorni: «Pascoli, Carducci (in parte), d'Annunzio (parte), Pastonchi (Belfonte), D'Héredia, Francis Jammes e pochi altri», come racconta all'amico Calcaterra8.

Sulle orme del "maestro", s'incamminava inesorabilmente verso il banco degli imputati per plagio, se non avesse subito l'influsso benevolo di Pascoli, sfuggito ai sospetti degli amanti della "crenologia", grazie alla pregiata filigrana intertestuale dei Poemi conviviali, nuovo punto di riferimento del giovane apprendista, teso forse a bilanciare l'ossessiva e ormai cosciente presenza dannunziana. Già Pastonchi9, all'indomani della pubblicazione della Via del rifugio, aveva esortato il giovane a ricercare la propria voce e a liberarsi dalle fonti francesi, senza sapere che prima di lui, a separare l'originalità dell'esordiente dal vistoso influsso dannunziano, ci aveva pensato Mario Vugliano10, che eliminò, dal fascio di poesie pronte per l'Editore Streglio, quelle in cui la voce del maestro era troppo riconoscibile, per lasciare spazio al piccolo florilegio intitolato La via del rifugio.

Il «giovane biondo, magro, con un viso stretto, occhi pallidi dietro le lenti, distinto»11 che si era spinto «oltre il Piacere stesso12», cominciò presto a sentire gli effetti velenosi dell'ideale sperelliano, promesse illusorie, infrante contro un futuro sbarrato troppo prematuramente dalla malattia: alle soglie dei venticinque anni si manifestò con sintomi preoccupanti e inequivocabili, la tisi. Già nel 1904 l'edificio dannunziano cominciava a scricchiolare e Gozzano, che si sfogava con Bontempelli per l'amarezza della disillusione, nell'Altro (1907) ringraziava con sollievo il Signore di essere riuscito ad elaborare uno stile personale, lontano da quello dannunziano. È altrettanto vero, però, come sostiene Mariani, che «Gozzano non rifiuta mai d'Annunzio: affinando il suo gusto e il suo linguaggio egli modifica l'atteggiamento nei riguardi del poeta13, fino a farne il punto di partenza di un'opera di ammirazione e derisione insieme, e se prima aveva omaggiato il maestro come Chopin aveva fatto con Field, ora lo parodiava come Debussy con Wagner14.

Nasce così un rapporto sempre più complesso che garantisce alla Via del rifugio e ai Colloqui una presenza quasi costante del poeta pescarese, cesellata fino agli esiti più raffinati della Signorina Felicita, in cui è proprio l'aggrovigliarsi sullo stesso verso di più citazioni a generare una voce originale, sì da condurlo al compimento di quell'attraversamento giustamente indicato da Montale15.

In questo elaborato gioco poetico, un posto di grande rilievo è costituito dall'ancóra inesplorato contributo delle novelle dannunziane. Da un vicolo dimenticato della Vergine Orsola, Gozzano sembra aver recuperato un accumulo disordinato di oggetti:

nel vicolo […] ove spoglie di frutta, residui di erbe, stracci, ciabatte marce, falde di cappello, tutto il ciarpame sfatto che la miseria gitta nella strada, si mescolavano16,

«ciarpame» che eleggerà a Musa nella Signorina Felicita (vv. 153-156):

topaie, materassi, vasellame,
lucerne, ceste, mobili: ciarpame
reietto, così caro alla mia Musa!

Ancora tra le novelle si muove una delicata figura femminile dalla bellezza comune e un po' zoppicante, Giacinta (Libro delle vergini, Ad altare dei): «ella non era veramente bella, di una bellezza pura17», la cui avvenenza sembra filtrata nel «sei quasi brutta» della Signorina Felicita (v. 73), assieme alla vistosa larghezza del sorriso: «nel sorriso la bocca le si allargava salendo ai lati verso i lobi delli orecchi18», descrizione non lontana da quella della bocca scomposta immaginata da Gozzano (vv. 79-80):

E rivedo la tua bocca vermiglia
così larga nel ridere e nel bere.

d'Annunzio, da ultimo, si sofferma a leggere le sillabe di una preghiera sulle labbra della ragazza:

Giacinta pregava: vedevo le sue labbra muoversi al proferire sommesso delle sillabe. Io la guardavo19,

esattamente come farà il suo "discepolo" nell'accenno al movimento delle labbra durante il solenne giuramento d'amore (La signorina Felicita, vv. 403 e 404):

E vidi la tua bocca sillabare
a poco a poco le sillabe: giuro.

In questo caso Felicita si contrappone ironicamente ad un ideale muliebre cantato e magnificato nelle fascinose donne dannunziane, ma recupera anche delle figure che si muovono sommessamente nelle pagine meno vistose di certa prosa.

Ancora tra le novelle, si scopre la presenza esotica di una scimmia, descritta in Turlendana ritorna (Novelle della Pescara), in cui si ferma l'attenzione sullo sguardo sorpreso del «macacco Zavalì»:

L'asina, la piccola e nivea Susanna, di tratto in tratto, sotto gli assidui tormenti del macacco si metteva a ragliare […]. [Il macacco Zavalì] d'improvviso, si raccoglieva […] immobile, grave, fissando verso le acque i tondi occhi color d'arancio che gli si empivano di meraviglia, mentre la fronte gli si corrugava […]20.

L'animale ricorda, nel nome e nell'aspetto sbigottito, la bertuccia Makakita che, menzionata anche in Totò Merùmeni come compagna di giochi: «[…] una bertuccia che ha nome Makakita…» (v. 35), guarda stupefatta e tremolante la neve In casa del sopravvissuto (vv. 19-23):

In braccio ha la compagna: Makakita;
e Makakita trema freddolosa,
stringe il poeta e guarda quella cosa
di là dai vetri, guarda sbigottita
quella cosa monotona infinita.

Rovistando ancora tra le prose di d'Annunzio non è difficile scoprire una cura minuziosa nell'annotare le date, attenzione che viene attribuita a Gozzano come caratteristica distintiva: «adoro le date» (L'ipotesi, v. 21) confesserà, erede forse di un lascito del Piacere, in cui le pagine del diario di Maria Ferres e molti degli eventi rievocati da Andrea Sperelli sembrano scanditi metronomicamente:

Il giorno del gran commiato fu appunto il venticinque di marzo del mille ottocento ottanta cinque […]21.

Leggendo questo passo è difficile non pensare al «mestissimo giorno degli addii» del «trenta settembre novecentosette» della Signorina Felicita (v. 408), o forse, ancor più, al «ventotto di giugno del mille ottocentocinquanta» dell'Amica di nonna Speranza (v. 104), più vicino temporalmente. Inoltre, sempre in quest'ultimo componimento, tra i numerosi influssi già indicati dagli studiosi, si potrebbe riconoscere la ricercatezza dannunziana nel citare musica da camera, e come Andrea Sperelli ascolta il repertorio clavicembalistico di Domenico Scarlatti:

Il cugino di Francesca, è, in musica, un conoscitore raffinato. Ama molto i maestri settecentisti e in ispecie, tra i compositori per clavicembalo, Domenico Scarlatti22,

il poeta torinese fa cantare a Carlotta le arie di Alessandro Scarlatti, padre di Domenico23(vv. 29 e 30):

Motivi un poco artefatti nel secentismo fronzuto
di Arcangelo del Leùto e d'Alessandro Scarlatti,

oltre ad accogliere la moda di acconciare le donne con due bande di capelli che scendono sulle guancie, ereditata, forse, dall'eleganza un po' démodé di Donna Bianca Dolcebuono nel Piacere:

Prediligeva disporre i capelli con abbondanza su le tempie, fino a mezzo delle guance, alla foggia antica24.

E se nel 1885 la pettinatura è già considerata all'antica, si può credere, verosimilmente, che trent'anni prima, nel 1850, l'acconciatura fosse appena diventata di moda, sì da essere adottata da due adolescenti come Carlotta e Speranza (L'amica di nonna Speranza, v. 24):

divisi i capelli in due bande scendenti a mezzo le guancie.

Gozzano amava tanto questo stile da "pettinare" così molte delle sue donne, da Carlotta nell'Esperimento (vv. 19 e 20):

bipartisci le chiome in bande lisce
custodi delle guancie e degli orecchi,

a Ciaramella nella Bella del Re (vv. 53 e 54):

Ecco i miei capelli d'oro!
Vo' spartirmeli in due bande.

In particolare nel Viale delle statue (vv. 65-68):

Divisi i bei capelli
in due bande ondulate,
siccome le beate
di Sandro Botticelli,

la fonte dannunziana si fa più esplicita e il suo riconoscimento è affidato alla menzione di Botticelli, sfoggio di cultura artistica suggerito, forse, da d'Annunzio stesso che aveva scomodato, per la Dolcebuono, le donne quattrocentesche del Ghirlandajo:

Donna Bianca Dolcebuono era l'ideal tipo della bellezza fiorentina, quale fu reso dal Ghirlandajo nel ritratto di Giovanna Tornabuoni, ch'è in Santa Maria Novella25.

Dopo la veloce ricognizione tra le fertili pagine del Piacere, è doveroso menzionare anche l'importante contributo del Trionfo della morte. Il titolo del Libro primo, Il passato, potrebbe far pensare a quel «libro di passato» menzionato in Colloqui (v. 4), in cui il giovane poeta «venticinqu'anni!...» (Colloqui, v. 1) si mostra coetaneo di Giorgio Aurispa, come si evince dal racconto della zia Gioconda che rammenta al nipote l'episodio della tartaruga:

Questa ha l'età tua: venticinque anni. S'è azzoppata come me. Un calcio di tuo padre […]26.

Ma il passo che più persiste nella memoria di Gozzano è l'incontro tra Giorgio Aurispa e suo padre, se confluisce, biforcandosi, sia in Cocotte che nella Signorina Felicita. Quando il giovane si reca a trovare il genitore fedifrago, incontra i fratellastri, figli della concubina e li vede giocare in giardino vicino al cancello (Trionfo della morte):

La villa alfine apparve prossima tra gli alberi, con le due ampie terrazze laterali circondate di ringhiere che si appoggiavano a piccoli pilastri di pietra ornati di terracotta in forma di busti raffiguranti re e regine a cui gli aloè con le loro punte aguzze formavano sul capo vive corone. La vista di quelle rozze figure […] risvegliò in Giorgio subitamente nuove memorie dell'infanzia lontana: memorie confuse di rievocazioni campestri, di giuochi, di corse, di favole imaginate intorno a quei re immobili e sordi […] riavendo già nella mente le imagini della vita oscura e intensa di cui la sua fantasia puerile l'aveva animata […]. Ma egli si scosse udendo alcune voci presso il cancello […]. Vide presso il cancello due bambini che giocavano con la ghiaia […] i figli della concubina27.

Aurispa ritrova i suoi ricordi d'infanzia non appena vede la villa con le ringhiere e le «rozze figure», particolari che richiamano alla mente la «cancellata rozza» (v. 3) di cui si rammenta Gozzano e i giochi di fantasia del piccolo Guido, che dal cancello accettava il confetto dalla "cattiva signorina" (Cocotte, vv. 6-8):

«Sto giocando al diluvio universale».
Accennai gli stromenti, le bizzarre
cose che modellavo nella sabbia.

E ancora si potrebbe notare che, se d'Annunzio parla di una concubina, Gozzano parla di una cocotte, donne che esulano dalla morale, accomunate dall'odio che ispirano nelle due rispettive madri, quella del piccolo Guido, indispettita dal contatto del figlio con la cattiva signorina, quella di Giorgio, esasperata dalla gelosia nei confronti di chi le aveva portato via il marito.

Poco dopo, Giorgio è tratto in disparte nel salone dal padre, che gli parla dei propri guai e del proprio dissesto finanziario:

Vedi, vedi: queste sono le carte che ti volevo mostrare…[…] incominciò ad esporre in confuso una quantità di casi complicatissimi riguardanti un'accumulazione d'imposte fondiarie non pagate da parecchi mesi. […] – Mi stai a sentire? – gli domandò il padre vedendolo così trasognato28.

Il fare viscido del genitore sembra recuperato e trasferito da Gozzano sul buon padre di Felicita, quello in fama di usuraio, che a sua volta traeva in disparte l'avvocato distratto, nonché «trasognato» giocatore (La signorina Felicita, v. 107), per risolvere i propri guai notarili (vv. 50-61):

quasi bifolco, m'accoglieva senza
inquietarsi della mia frequenza,
mi parlava dell'uve e del massaio,
mi confidava certo antico guaio
notarile, con somma deferenza.

«Senta, avvocato…» e mi traeva inqueto
nel salone, talvolta, con atto
che leggeva lentissimo, in segreto.
Io l'ascoltavo docile, distratto
da quell'odor d'inchiostro putrefatto,
da quel disegno strano del tappeto,
da quel salone buio e troppo vasto…

D'altronde, anche il bifolco sembrerebbe disposto a servirsi della figlia pur di riparare al proprio disastro economico, contravvenendo ad un'educazione provinciale e bigotta, che verosimilmente caratterizzava la ragazza e che le avrebbe vietato un'eccessiva frequentazione del villeggiante forestiero.

Altrettanto vistosa, tra i versi di Gozzano, è la presenza del Fuoco, in cui l'ossessione del trascorrere del tempo e gli effetti deleteri operati sull'avvenenza femminile sono condensati nella figura di Lady Myrta, presaga del destino della Foscarina. Lo stesso senso del tempo incombe sulla bellezza ormai sfiorita dell'«Amica» delle Due strade, tanto da far pensare ad un collegamento voluto e cifrato. Già Leonelli aveva notato che «i protagonisti del poemetto incarnano […] in chiave degradata, abbassata e parodica, un "sublime" che, nella situazione specifica, potrebbe rimandare ai protagonisti del Fuoco, Stelio Èffrena e la Foscarina, la femme fatale al suo tramonto nel romanzo del d'Annunzio29», sebbene, forse, la vera contrapposizione sia proprio tra la luminosa Donatella Arvale e l'ormai declinante Foscarina, ripresa nel contrasto tra la freschezza adolescenziale di Graziella e il fascino un po' avvizzito della donna delle Due strade.

L'apparizione di Donatella Arvale e Foscarina, strette l'una all'altra al sommo di una scala:

[…] egli scorse in sommo della scala marmorea al lume delle fiaccole fumide la figura della Foscarina così stretta a quella di Donatella Arvale, nella ressa, che l'una si confondeva con l'altra in un medesimo biancheggiare30,

ricorda l'atteggiamento delle due donne descritte da Gozzano (Le due strade, vv. 19 e 20):

E la Signora scaltra e la bambina ardita
si mossero: la vita una allacciò dell'altra.

Anche il movimento discendente delle due donne dannunziane:

Discendendo insieme a quella per la grande scala e venendo verso di me31,

sembra rispecchiato nella catabasi ad inferos, rafforzata dall'anafora, nelle Due strade (vv. 33 e 34):

discendere alla Morte come per rive calme,
discendere al Niente pel mio sentiere umano.

Un'altra caratteristica dell'adolescente è l'assoluta mancanza di comunicazione con il poeta ribadita più volte («Sorrise e non rispose», Le due strade, v. 17, e ancora ai vv. 78 e 79: «E non mi disse grazie. /[…]Non mi parlò» e al v. 89: «Amica, e non m'ha detta una parola sola!»), silenzio che contraddistingue anche l'Arvale nella fase iniziale: «Ella non aveva ancora parlato!32». La baldanza fisica di Graziella, invece, se da una parte si assimila alla robustezza di Donatella, recupera nell'abbigliamento «balda nel solino dritto, nella cravatta» (v. 23) il gusto, garbatamente androgino, di una piccola "comparsa" del Piacere dannunziano, Silvia: «somigliava un collegiale senza sesso» e «portava un alto solino inamidato, la cravatta bianca»33.

Infine, non si può trascurare la possibilità di un influsso proveniente dalle Vergini delle rocce, che si condensa nel quadretto che vede le due ragazze sognanti appoggiate alla balaustra davanti al lago nell'Amica di nonna Speranza (vv. 77 e 78):

S'inchinano sui balaustri le amiche guardano il lago
sognando l'amore presago nei loro bei sogni trilustri.

Se Gozzano tenta di indovinare l'oggetto dei loro pensieri e lo individua nel sogno del matrimonio (vv. 45-47):

E già nell'animo ascoso
d'ognuna sorride lo sposo promesso: il Principe Azzurro,
lo sposo dei sogni sognati…,

prima di lui anche d'Annunzio aveva tentato di penetrare l'immaginazione delle tre sorelle, nelle Vergini delle rocce, intuendo il medesimo contenuto:

E non forse ciascuna di loro nel suo cuore segreto aspettava lo Sposo? Già m'apparivano quali fingeva il mio desiderio e già l'imagine triplice suscitava dal mio desiderio la prima perplessità34.

Anche il termine «perplessità» sembra recuperato nella scena iniziale dell'Amica di nonna Speranza, in cui si parla di «figure sognanti in perplessità» (v. 10).

Nonostante il forte legame letterario, Gozzano non conobbe mai d'Annunzio, se l'amica Amalia Guglielminetti, il 23 febbraio 1910, gli scrisse: «[…] questa mattina ho parlato per mezzora [sic] con Gabriele d'Annunzio il quale mi ha manifestato un vivo desiderio di conoscerti. Gli ho promesso di portarti da Lui io stessa quando il Poeta tornerà a Torino, cioè nel mese di marzo35».

Verrebbe da chiedersi cosa pensasse «il divino» degli ossequiosi tributi del giovane epigono. Ne era a conoscenza? Ne era lusingato?

Secondo Giorgio Bárberi Squarotti d'Annunzio ricambiò il favore omaggiandolo più volte nella Leda senza cigno36. Aggiungerei anche nel Forse che sì forse che no, ove potrebbe essere transitata l'immagine della Signorina Felicita in cui le rondini solcano il cielo nel loro viaggio verso i paesi lontani, guizzando assordanti «ratte come spole» (v. 413), mentre l'avvocato si accomiata dalla signorina, dopo il solenne giuramento di fedeltà, in attesa del rientro «d'oltremare» (v. 399). Le stesse rondini sembrano spostarsi nell'orizzonte che Vana e le sue amiche contemplano dal davanzale di una finestra nel Forse che sì forse che no:

Portavano a loro il messaggio d'oltremare, il messaggio del principe di terra lontana […]. Ma per Vana erano come saette37.

La coincidenza delle rondini e del termine "oltremare" farebbe quasi pensare ad una citazione da parte di d'Annunzio, assieme al termine "saette" che compare anche nella ghirlanda di Felicita (v. 406), seppur con significato esclusivamente floreale.

Se fosse plausibile un collegamento tra i due passi, si potrebbe supporre che, stavolta, sia stato d'Annunzio a citare, e non viceversa, poiché la Signorina Felicita fu pubblicata il 16 marzo 1909 sulla "Nuova antologia", mentre egli, il 17 maggio 1909, ancora pregava Treves di attendere per il compimento del futuro Forse che sì forse che no: «Ho preso una piccola villa a Bocca d'Arno, dove andrò nei primi giorni di Giugno venturo. Credo che non mi muoverò di là finché non avrò scritto l'ultima pagina38».

È stato detto, dunque, non a torto, che Gozzano non si liberò mai di d'Annunzio. In effetti, ragionando in senso diacronico, la sua presenza, ossessiva e pedante nelle prime liriche, si stempera e si equilibra a poco a poco, forse grazie all'influsso mitigatore di Pascoli, che gli subentra definitivamente in alcune Epistole entomologiche, si pensi all'Epistola VI, in particolare ai versi meglio noti come Dei bruchi, o all'Acherontia Atropos. Il "maestro" pescarese, dunque, si dilegua proprio allo schiudersi delle Farfalle, che ne recano solo pallide vestigia, coerentemente con la volontà di un totale affrancamento, preannunciata nella penultima lirica dei Colloqui, Pioggia d'agosto, in cui Gozzano, sotto il battesimo solenne di una pioggia lustrale, dichiara di voler cambiare stile e invoca una nuova Musa, l'«antica maga», inteso ormai solo a scrutare i misteri della natura (vv. 46-48):

O mia Musa dolcissima che taci
allo stridìo dei facili seguaci,
con altra voce tornerò poeta!

 

 

NOTE


1 Le citazioni dei versi gozzaniani sono tratte da G. Gozzano, Tutte le poesie, a cura di A. Rocca, Milano, Mondadori, 2006. Quelle dei passi dannunziani sono tratte da G. d'Annunzio, Prose di romanzi, I, a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini, Milano, Mondadori, 1988, Prose di romanzi, II, a cura di N. Lorenzini, Milano, Mondadori, 1989, Tutte le novelle, Milano, Mondadori, 1992.

2 Il piacere, p. 179.

3 Terra vergine, p. 34.

4 C. Calcaterra, in Con Guido Gozzano e altri poeti, Bologna, Zanichelli, 1944, p. 41.

5 Lettera di Gozzano del 5 giugno 1907, in G. Gozzano - A. Guglielminetti, Lettere d'amore, prefazione e note di Spartaco Asciamprener, Milano, Garzanti, 1951, p. 31.

6 Lettera di Gozzano del 10 giugno 1907, ivi, p. 40.

7 Il piacere, p. 146.

8 Si legge in una lettera spedita a Carlo Calcaterra da Guido Gozzano (da Torino nel 1907) e riportata da Marziano Guglielminetti nel saggio Guido Gozzano e Carlo Calcaterra, in Da Petrarca a Gozzano, ricordo di Carlo Calcaterra, Atti del Convegno, S. Maria Maggiore, 19-20 settembre 1992, Novara, Interlinea Edizioni, 1994, p. 125.

9 Francesco Pastonchi, in Primavera di poesia, «Corriere della sera», 10 giugno 1907, parla soprattutto di Jammes e conclude che Gozzano dovrebbe: «liberarsi da certe coloriture […], da influenze che ne alterano l'organismo e lo dispongono a imitazioni».

10 Carlo Calcaterra, in Con Guido Gozzano e altri poeti, cit., narra l'episodio della "censura" di Mario Vugliano: «Così nel 1907 apparve smilza smilza la prima sua raccolta di rime, La via del rifugio, senza Il frutteto, senza il sonetto L'antenata, senza i versi al Bontempelli, senza L'altana, senza i sonetti Domani e altri componimenti», pp. 27 e 28.

11 Lo descrive così la scrittrice Carola Prosperi intervistata da Franco Antonicelli, in Capitoli gozzaniani, Firenze, Leo S. Olschki, 1982, nel capitolo Il nipote di nonna Speranza, p. 57.

12 Carlo Calcaterra, in Con Guido Gozzano e altri poeti, cit., aggiunge: «Quando si sia riconosciuto il dannunzianismo verbale del Gozzano, si è appena alla superficie. Il dannunzianismo ebbe in lui radici più profonde e non si manifestò soltanto nella parola bensì anche nella vita», pp. 35 e 36.

13 Gaetano Mariani, ne L'eredità ottocentesca di Gozzano e il suo nuovo linguaggio, in Poesia e tecnica nella lirica del Novecento, Padova, Liviana Editrice, 1983, ritiene che l'atteggiamento di Gozzano sia cambiato nel tempo, dal primo d'Annunzio di Climene ai silenzi del Poema paradisiaco, p. 31.

14 Lo afferma Montale nel saggio introduttivo a G. Gozzano, Le poesie, Milano, Garzanti, 1960, p. 9.

15 IDEM, Gozzano dopo trent'anni, «Lo smeraldo», 30 settembre 1951, p. 7.

16 La vergine Orsola, p. 97.

17 Ad altare dei, p. 475.

18 Ibidem.

19 Ibidem.

20 Turlendana ritorna, pp. 341 e 342.

21 Il piacere, p. 7.

22 Ivi, p. 192.

23 Il compositore è citato da Gozzano anche in Prologo, v. 18.

24 Il piacere, p. 105.

25 Ibidem.

26 Il trionfo della morte, p. 708.

27 Ivi, pp. 744-746.

28 Ivi, p. 750.

29 G. Leonelli, La vita e l'opera, in G. Gozzano, Un Natale a Ceylon e altri racconti, Milano, Garzanti, 2005, p. IX.

30 Il fuoco, p. 268.

31 Ivi, p. 279.

32 Ivi, p. 273.

33 Il piacere, p. 246.

34 Le vergini delle rocce, p. 58.

35 G. Gozzano - A. Guglielminetti, Lettere d'amore, cit., p. 156.

36 Si pensi, ad esempio, agli oggetti, al «cucù dell'ore» (L'amica di nonna Speranza, v. 13), ripreso secondo G. Bárberi Squarotti, nella Leda senza cigno, come dimostra nell'articolo Fra d'Annunzio e Gozzano: orologi a cucù, Venere e Alfieri, in «Lettere italiane», luglio-settembre 1984, p. 346.

37 Forse che sì forse che no, p. 775.

38 Lo riferisce Niva Lorenzini, in G. d'Annunzio, Prose di romanzi, II, cit., p. 1320.