IL CRISTALLO, 2011 LIII 2-3 [stampa]

BONTEMPELLI FRA ANTICO E MODERNO

di DAVIDE DE MAGLIE

I. L'intellettuale e lo scrittore

 

A tanti anni dalla sua scomparsa, la figura di Massimo Bontempelli continua a presentare una serie di dati contraddittori. Lo scrittore di Como viene da una formazione classicista, tanto da aver avuto come insegnante di liceo Alfredo Panzini, e a questo stile sono improntate le sue prime opere, che ben presto verranno in gran parte rinnegate. Il fatto che Bontempelli salvi alcuni di questi libri è già indicativo di una svolta non furiosamente, acriticamente ribelle nei confronti del passato. Anche le opere generalmente considerate più vicine all'avanguardia, come il "romanzo dei romanzi" La vita intensa, sono comunque lontane da una vera frantumazione del linguaggio, rivelano una struttura che non rinnega completamente la tradizione. Sul rapporto tra antico e moderno e sul ruolo dell'intellettuale nella società Bontempelli riflette con gli articoli della rivista Novecento, nata in seno alla propaganda culturale fascista ma subito invisa al regime, perché inizialmente redatta in francese e per i nomi non sempre graditi - da James Joyce a Corrado Alvaro - di molti collaboratori, tanto che nel 1929 il periodico dovette chiudere. Il rapporto con il fascismo resta un punto molto controverso della storia di Bontempelli, intellettuale organico alla dittatura ma capace di rifiutare la cattedra universitaria offertagli per sostituire Attilio Momigliano, rimosso a causa delle leggi razziali. Nel 1939 allo scrittore, dopo un polemico discorso in memoria di D'Annunzio, venne addirittura ritirata la tessera, anche se i suoi rapporti con il regime avrebbero invalidato, a distanza di anni, la sua elezione a senatore nelle liste del Fronte popolare. Sul piano strettamente letterario Bontempelli giunge comunque ad una progressiva messa a fuoco della sua poetica, come testimonia l'Avventura novecentista (1938). Parallela alla riflessione teorica è la nascita, negli stessi anni, di molti testi narrativi e teatrali di assoluto rilievo: la personalità bontempelliana è dunque segnata, con uguale intensità, dalla sincera vocazione critica dell'intellettuale e dal gusto del gioco, dell'invenzione che contraddistingue lo scrittore. è proprio l'equilibrio, sempre incerto, tra poli così antitetici a conferire fascino a questo percorso: risulta quindi opportuno soffermarsi su alcune opere, scelte come tappe esemplari di questa esperienza, per vedere come, di volta in volta, cambino i termini del problema. In questo modo potranno anche emergere eventuali, fecondi rapporti con la tradizione letteraria e con gli scrittori coevi. Una lettura di questo tipo non potrà in nessun modo pretendere di risultare esaustiva, ma forse avrà il merito di riportare l'attenzione non sul personaggio Bontempelli e sulle sue posizioni ideologiche, ma sul suo lavoro di scrittore e sui caratteri intrinseci della sua produzione.

 

II. Una svolta parziale

 

La Vita intensa, pubblicata nel 1919 in rivista e in volume nel 1920, è articolata in dieci romanzi, nel corso dei quali l'io narrante vive una serie di improbabili contrattempi nella città di Milano, richiamata più volte nel testo come simbolo della modernità e della frenesia. Il libro reca il sottotitolo di "romanzo dei romanzi", quasi a sottolinearne la natura metaletteraria. Bontempelli dichiara subito l'intenzione di scrivere «per i posteri» e «per rinnovare il romanzo europeo», perché «uno che scrive un romanzo, e ci mette la prefazione, non può assolutamente dichiarare meno di tanto» (p. 8). A questo annuncio semiserio fanno seguito continui riferimenti colti, da Balzac a Dumas passando per il futurismo e per Delitto e castigo di Dostoevskij, che diventa il sottotitolo del quarto romanzo. Non mancano alcune osservazioni paradossali, come quelle sull'appuntamento che è, come afferma il Preliminare filosofico del secondo romanzo, «la cosa più caratteristica della vita moderna» (p. 17), tanto che nei dialoghi, narrazioni e commedie che ci rivelano la vita privata dei greci, dei romani, dei medioevali, e dei mortali di tutti i secoli seguenti fino al romanticismo, c'è spesso uno che va a trovare un altro [...] non si dice mai che si diano o si siano dati per questo un appuntamento.

Questo è già un buon sintomo della verità di quanto ho asserito. (ibidem)

Il paradosso nasce dal fatto che l'io narrante sarà protagonista di un appuntamento mancato, perché non riuscirà ad incontrare l'amico Piero: Bontempelli mette così in discussione l'idea stessa di modernità. Ne è prova anche il rapporto con il futurismo, cui il libro è senza dubbio vicino per la rappresentazione vivace della città moderna, tanto caotica quanto capace di affascinare e descritta in pagine così rapide da ricordare certi quadri di Boccioni. Innegabile è però la pur bonaria ironia con la quale, nel romanzo dedicato allo zio che «non era futurista», viene descritta la casa di Marinetti, con pianoforte ed armonium:

[...] osservando come, in mezzo a quel dinamismo, i due vieti strumenti si trovassero mogi e mortificati, capii che il maestro li tiene lì per umiliarli e umiliare in loro tutte le smorte e morte armonie del passato.

Chi ridirà la mia commozione di quel giorno? Essa si velava di un solo dolore: come far intendere tutto questo a mio zio? [...] stridori voluttuosamente intricati di tranvai, camion, automobili, motociclette, strilloni; come come far sentire tutto questo a mio zio? [...] m'ero dimenticato di dirvi che mio zio deve vivere in campagna, perché è un po' paralitico. (pp. 102-103)

 

La frase rivela un uso sapientissimo delle risorse del linguaggio: si pensi alla coppia di aggettivi quasi identici - smorte e morte - uniti in un improbabile, tragicomico climax, o alla parola - come - ripetuta in un pathos intenso ed immotivato. Anche solo sul piano formale il brano rivela quindi un'intenzionalità palesemente ludica, ma dietro il sorriso c'è una precisazione di segno opposto. Lo zio non è in grado di muoversi, ha problemi di ordine fisico, concreto: bisogna comunque fare i conti con la realtà, la libertà di espressione propugnata dai futuristi è un'ipotesi suggestiva ma non pienamente realizzabile. Come ricorda Ugo Piscopo, i rapporti con il futurismo sono testimoniati dalle poesie del Purosangue, dall'interventismo in occasione della prima guerra mondiale, dalla fondazione (nel 1919, lo stesso anno in cui la Vita intensa viene pubblicata a puntate su Ardita, supplemento del Popolo d'Italia) del Fascio Futurista di Milano. Eppure la città lombarda tiene a battesimo una doppia identità di Bontempelli, affascinato dalle avanguardie ma anche curatore di una collana di classici per l'Istituto Editoriale Italiano di Notari. Nella Vita intensa

zio e nipote sono nient'altro che due volti del medesimo personaggio, che è Bontempelli. Il vecchio letterato rappresenta l'esperienza maturata fino allora dallo scrittore [...] Il giovane studente rappresenta la freschezza e il candore interiore [...] ma non è altrettanto ingenuo lo scrittore, che dà vita al personaggio.

Bontempelli dunque non è un seguace o un avversario del futurismo, ma un intellettuale che nelle idee marinettiane riconosce legittime istanze di rinnovamento. Il suo è, nella Vita intensa, un gioco verbale e metaletterario, portato avanti non solo riferendosi a modelli celebri ma anche facendo incontrare l'io narrante, alla fine dell'opera, con i personaggi messi in scena in ciascun romanzo. Per il finale della Vita intensa, con lo sdoppiamento dell'io narrante («Com'ebbi aperto [...] mi vidi venire in anticamera uno. Ero io», p. 139) e l'incontro con i protagonisti dei dieci "romanzi", si è opportunamente parlato dei Sei personaggi di Pirandello, anche sulla scorta degli assidui contatti tra Bontempelli ed il drammaturgo siciliano. è tuttavia da sottolineare il contesto narrativo in cui questo finale viene a collocarsi. L'incontro arriva dopo una serie di avventure improbabili, nell'ambito quindi di una narrazione spesso giocosa o comunque semiseria: in un certo senso l'episodio esaspera il gioco narrativo che segna tutto il volume. Bontempelli si rende perfettamente conto del carattere sperimentale della sua opera, ma non si sofferma, come farà Pirandello, sulla solitudine dell'autore di fronte alle creature della sua fantasia, sceglie invece di scherzarci sopra. C'è, nello scrittore di Como, una leggerezza raffinata e colta che privilegia il divertissement, il colpo di scena capace di incantare i lettori. Il gioco di Bontempelli non è diversissimo da quello di Palazzeschi, anch'egli affascinato dal futurismo ma così inconfondibilmente autonomo per sensibilità e formazione, dalla trasgressione divertita di Perelà alla rivisitazione matura dei modelli narrativi tradizionali. Ovviamente restano, nettissime, differenze nelle scelte ideologiche, nel modo di gestire i rapporti con il pubblico, nella stessa scelta dei generi letterari, ma in entrambi gli autori emerge una voglia di rinnovarsi restando fedeli a sé stessi. La svolta di cui frequentemente si parla a proposito della Vita intensa è quindi vera solo in parte, perché a Bontempelli, proprio come a Palazzeschi, interessa in primo luogo tenere fede al gusto del narrare, allontanandosi o riaccostandosi ai modelli consolidati e, sul versante opposto, ai movimenti d'avanguardia nella misura in cui ciò è funzionale alla sua autonoma ricerca di scrittore. Per Bontempelli la letteratura è, inequivocabilmente, un insopprimibile impulso a comunicare e ad inventare storie.

 

III. Il linguaggio e la ricerca

 

Apparentemente La vita operosa, apparsa in volume nel 1921, si colloca sulla stessa linea della Vita intensa. La struttura dell'opera è però più tradizionale, in quanto è suddivisa in capitoli e non in romanzi; in secondo luogo lo sdoppiamento del protagonista è reso evidente dalla figura del Dàimone, come lo chiama Bontempelli, «loico e ironico di natura» (p. 151). Con la figura del Dàimone, che già nel nome denuncia una chiara origine classica, inizia a ridefinirsi il rapporto tra antico e moderno, e del resto anche la trama fa riferimento ad una sorta di spartiacque temporale. L'io narrante vuole infatti dedicarsi agli affari, e insegue il suo sogno a Milano, subito dopo la fine della prima guerra mondiale. Non potrebbe inseguirlo altrove perché, come egli stesso ricorda più volte con evidente ironia, Milano è la capitale economica della nazione, dove tutti possono affermarsi rapidamente. Quello messo in scena da Bontempelli è dunque un percorso che parte dalla fine di una storia, di un'epoca quasi, per capire quale direzione possa essere presa adesso, in una realtà sociale nuova ed ignota. Le controproposte del Dàimone, sempre pronto a mettere in dubbio i grandi progetti del protagonista - dalla pubblicità all'edilizia - e la loro realizzabilità, sembrano un'eco dei dubbi dello stesso Bontempelli in un clima culturale così frammentato come quello di inizio secolo. Dopo la narrativa ottocentesca, dopo l'irruzione dell'avanguardia futurista e la messa in dubbio della possibilità stessa di narrare, il problema della nuova letteratura si impone con urgenza, come il bisogno di un lavoro e di una vera ricchezza per il protagonista del libro. Tra caffè eleganti in Galleria ed improbabili pensioni dalle stanze modernissime, tra «pescecani» insospettabili e (ancora una volta) appuntamenti mancati, l'io narrante dovrà arrendersi alla sua incapacità di avere successo, alla sua inadeguatezza al sistema. Vale la pena di soffermarsi sulla presenza di riferimenti al fascismo nascente e sull'evoluzione del linguaggio. Nel sesto capitolo il fascismo viene definito «acceso avanzo dei recenti spiriti di guerra» (p. 226), ma vi si riallacciano anche i riferimenti alla storia antica, con l'esaltazione di Belloveso, mitico fondatore della città che non a caso viene paragonato a Romolo e Remo. Del resto è proprio in questo periodo che Bontempelli fonda, come si è avuto modo di ricordare, il Fascio Futurista di Milano. Nel giro di pochi anni (1928) lo scrittore diventerà segretario del Sindacato Fascista Autori e Scrittori, e nel 1930 sarà nominato accademico d'Italia. Non sorprendono quindi i riferimenti ideologici che compaiono, sia pure in forma marginale, anche nella Vita operosa, dove tuttavia, come si diceva, a colpire è anche il linguaggio. Affiora infatti, tra le righe del solito tono ironico e quasi paradossale, un'atmosfera meno immediata e capace di rimandare ad un'emozione più misteriosa, non razionalmente decifrabile. In particolare nel capitolo Laura lontana, dedicato ad una donna accompagnata in villeggiatura dal fratello Bruno, si colgono accenti poetici già nella prima descrizione: «[...] la sorella avea dolci gli occhi e velati di malinconia anche quando sorrideva, o, più raramente, rideva [...]» (p. 248). Grazie ad un apparecchio inventato da Bruno, l'io narrante riesce a vedere, in una stanza munita di specchio, l'immagine di Laura, in una specie di sogno indefinito e suggestivo che anticipa gli esiti del realismo magico:

Muti, allora, per un tempo che parve immenso, ci guardammo così dolorosamente, abisso contro abisso; poi mormoravamo parole senza forma, e le nostre forme e le nostre voci eran vicine, sì che a un punto le anime crederono toccarsi; ma poiché le mani non potevano raggiungersi e sentirsi stringere vive [...] anche le nostre sostanze s'intesero disperatamente lontane, sentii lei più infinitamente remota da me che se la avessi pensata senza vederne gli atti né udirne la voce [...] solamente so che per giorni e notti errai tremando le vie più paurose della città, come una bestia inseguita in caccia [...] e solo dopo assai tempo riuscii per la stanchezza a sedermi placato [...] macerato in un odio torvo contro ogni intelligenza dell'uomo, in un sincero spasimo di desiderio verso l'indifferente inerzia delle cose insensitive e dei bruti. (pp. 261-262)

L'uso ripetuto di avverbi ed il ritmo quasi musicale che ne deriva (così dolorosamente, più infinitamente remota) permettono al brano di raggiungere un intenso lirismo, che racchiude l'esperienza delicata e, a suo modo, vivissima di un sogno d'amore. Lo stesso linguaggio verrà utilizzato da Bontempelli nelle opere successive per i momenti di maggiore sospensione lirica dei testi, proseguendo un percorso che, senza mai chiudersi di fronte alla novità (anche nel brano appena esaminato il sogno nasce da un macchinario modernissimo), fa comunque tesoro del proprio magistero letterario.

 

IV. Il mito ed il racconto: Vita e morte di Adria e dei suoi figli

 

Si è visto come acquisti sempre più importanza, nel percorso di Bontempelli, la ricerca di un equilibrio tra istanze diverse, che sfocerà anche nella frequentazione di altri generi come il teatro, che darà frutti notevoli con Nostra Dea (1925) e Minnie la candida (1928). Sul piano narrativo il disorientamento dell'io nella Vita operosa corrisponde all'esigenza dello scrittore, sempre più avvertita, di trovare una soluzione stilistica adeguata alla propria personalità. Dopo la Vita operosa si assiste ad una sorta di rovesciamento dei termini: fino a questo momento un linguaggio ironico si esercitava sullo sviluppo di intrecci minimi (si pensi alla sostanziale inerzia dell'io narrante nei libri appena presi in esame), in seguito sarà invece il linguaggio, il tono dello scrittore ad avvicinarsi alla tradizione. Già nella favola La scacchiera davanti allo specchio (1922), che si richiama all'Alice di Carroll, lo specchio che permette di passare dal mondo razionale a quello della fantasia segna il passaggio ad un nuovo modo di impostare la narrazione. La novità, la scintilla inventiva sarà affidata d'ora in poi all'intreccio insolito, al ìcasoî fantasioso sul quale si eserciterà la sapienza linguistica del narratore: sarà questa la soluzione scelta da Bontempelli per rispondere al suo bisogno di rinnovamento. Il suo realismo magico consiste proprio in questa capacità di far incontrare novità di trama e naturalezza espressiva, esplorando di volta in volta la dimensione del sogno e quella del mito, la superstizione e l'accento favolistico.

Fra le opere tradizionalmente ascrivibili alla nuova sensibilità bontempelliana, Vita e morte di Adria e dei suoi figli (1930) rivela un singolare equilibrio tra celebrazione di un mito ed approfondimento psicologico. Il titolo concentra l'attenzione dello scrittore su quattro personaggi, escludendo fin da subito, per il marito della donna, un ruolo da protagonista. Il testo è suddiviso in sezioni che scandiscono le vicende di Adria (la cui storia occupa le prime due parti del romanzo e l'ultima, la quinta) e, nel mezzo, le storie di Tullia e Remo (terza e quarta parte), le cui vite saranno, anche se in modo diverso, segnate dal rapporto con una madre così distante. Adria vive nel culto della bellezza, e per tenervi fede cerca di limitare al massimo anche i contatti con il marito ed i figli: all'ora di cena si mostra ai piccoli Tullia e Remo soltanto attraverso le fenditure della parete, senza mangiare insieme a loro ma facendosi spiare dalla stanza accanto. I bambini, «pratici della cosa» (p. 12), si arrampicano su un cassone per arrivare all'altezza delle fenditure e attendono l'arrivo della madre nella «sala da pranzo, illuminata e scintillante» (ibidem) come una sorta di mondo felice ed irraggiungibile, anche se fisicamente a pochi passi da loro. La descrizione di Adria celebra una bellezza così assoluta da ricordare certe pagine dannunziane, depurate però dal compiacimento sensuale, per raggiungere una sorta di estasi incantata:

Ella era più bella della luce.

Avanzava, e niente pareva muoversi di lei: forse era lo spazio a scorrerle sopra e intorno come gira il cielo intorno alle stelle rapito. Il cielo e lo spazio si fermarono, quand'ella fu giunta alla tavola. [...] Il suo collo era nudo, pareva trasparire, e si vedeva l'aria scorrervi entro mentre ella respirava. Il suo respirare era un miracolo. [...] Qualcuno scostò la sedia, ella vi si pose. Il candore e i riflessi cristallini che salivano dalla tovaglia e dalle coppe, ora incontravano lo splendore d'argento che pioveva già dal suo volto chino.

Intanto era entrato anche il padre e s'era seduto in faccia a lei, volte le spalle alla parete di là dalla quale i bambini guardavano. (pp. 14-15)

Ogni oggetto, ogni personaggio vive in funzione di Adria e della sua bellezza, come in contemplazione di lei e con l'unico intento di celebrarla: la stessa apparizione del marito è liquidata nella frase di poche righe che chiude il brano. I bambini si ritrovano a partecipare del mistero della bellezza vivendoci accanto ed insieme venendone esclusi, un po' come accade al marito che morirà non appena Adria si ritirerà a Parigi. I due figli di Adria seguiranno destini diversi, Tullia morendo fucilata come spia nella prima guerra mondiale, Remo partendo da Marsiglia sotto falso nome, diretto dall'altra parte dell'oceano, assumendo l'identità di un uomo che lui stesso ha ucciso. Dal canto suo, Adria si comporta come Dea nella commedia omonima, vive cioè non di una vita propria ma in funzione di un dato a lei esterno. Come Dea cambia personalità a seconda dei vestiti che indossa, così Adria rinuncia a vere emozioni per consacrarsi alla propria bellezza. In questo modo la donna cerca di mettere in scacco il tempo, sottraendosi al suo scorrere impassibile. Proprio a causa della sua bellezza il suo spasimante Guarnerio, in un raptus di follia, uccide due persone. Cinque anni dopo, incontrando il figlio dell'antico spasimante, Adria capisce di doversi isolare, per evitare che gli altri assistano al suo invecchiamento. A Parigi, dove va a vivere da sola, abbandonando i figli e il marito che come detto morirà poco tempo dopo, Adria occupa il piano superiore della casa, dando gli ordini alla servitù per telefono e restando nell'oscurità quando è strettamente necessario che la serva Albertina salga alla sua stanza. Nessuno deve vederla, per questo Adria fa di tutto per non ammalarsi:

Con la volontà che aveva sempre costruito ogni atto della sua vita (e forse la sua stessa bellezza fin dall'origine), con quella stessa volontà [...] si comandò di non cadere ammalata mai, per non essere costretta a mostrarsi [...] si diceva che se qualcuno fosse riuscito ad arrivare fino a lei e vederla, lo avrebbe fatto uccidere (e se ne sentiva capace) o sarebbe morta. Dalle sue stanze bandì ogni specchio. (pp. 139-140)

La luce circolava come l'aria, passava a torrenti da una stanza all'altra. S'io penso quella donna aggirarsi, sola, tra tanto fulgore senza uno specchio in cui guardarsi, ne ho l'impressione di un sogno spaventoso. E di sé non aveva tenuto neppure un ritratto [...] non era vita di naufrago nel deserto, poiché questa è una continua aspettazione, ogni minuto è un avvenimento: Adria aveva del tutto bandito l'avvenimento e la speranza. (pp. 141-142)

Assume di nuovo un'importanza fondamentale lo specchio, rifiutato come nel romanzo di Dorian Gray, non però a causa di colpe che si preferisce ignorare ma per un culto ossessivo, ai limiti dell'assurdo, di un'assoluta innocenza.

Alla fine del libro la donna, per non lasciare la casa che deve essere demolita, pur di non far vedere il suo volto agli altri preferisce dare fuoco alla casa e lasciarsi morire nell'incendio. Bontempelli si immedesima nello sconcerto del lettore, nella sua volontà di capire, facendo quasi da tramite tra il pubblico e la vicenda, un po' come la voce narrante di certi romanzi ottocenteschi:

Io non ho mai saputo capire Adria né farmi un giudizio su di lei: ma come niente fu trovato del suo corpo, così temo che nell'incendio dell'ultima notte di settembre sia di lei morta tutta anche l'anima. (pp. 268-269)

Anche commentando l'epilogo della storia di Remo, che lascia Marsiglia dopo aver cambiato nome, Bontempelli era intervenuto direttamente. Dunque la voce dello scrittore a fare da collante tra le diverse parti dell'opera, a rendere in un certo senso credibile, o almeno degna di ascolto, l'intera vicenda. In un'epoca folta di proposte e direzioni diverse della letteratura italiana Bontempelli sceglie quindi di raccontare un caso assurdo immergendolo nella quotidianità del reale, serbando, al di fuori dei momenti di più schietta e deteriore propaganda ideologica, un tono elegantemente equilibrato.

 

V. Un epilogo aperto: I racconti dell'Amante fedele

 

Si è visto come, nei testi esaminati finora, la narrativa di Bontempelli conosca una sorta di continua oscillazione tra poli opposti ed insieme complementari. Anche in Gente nel tempo (1937) uno spunto iniziale determina l'intero sviluppo della materia narrativa. A partire dalla morte della Gran Vecchia si assiste infatti ad una serie di decessi ciclici: per effetto di un'oscura profezia della defunta, muore un membro della famiglia ogni cinque anni, ed è intorno a questa "ipotesi di lavoro", come la definisce Debenedetti, che gravita il romanzo. Dalla fantasia dello scrittore nascono intrecci articolati che di lustro in lustro, come nota Cappello, si inseriscono funzionalmente in una sorta di «attesa che deve essere ingannata» tra una data fatidica e l'altra.

Si è fatto riferimento, sia pur sinteticamente, al libro del 1937 perché in esso, come in Giro del sole (1941) che molti critici hanno accostato alla "prosa d'arte" di derivazione rondista, si conferma l'abilità tecnica dello scrittore, sempre pronto a costruire storie in cui dà vita ad un vero e proprio virtuosismo linguistico. Un valore esemplare assumono, in questa prospettiva, i racconti dell'Amante fedele, che Bontempelli pubblicò in volume nel 1953 vincendo il Premio Strega. La silloge riunisce, in gran parte, testi già pubblicati tra il 1940 e il 1947, ma è proprio la sua storia editoriale, di cui informa ampiamente Giovanni Cappello, a renderla ricca di significato. Proprio a causa della sua eterogeneità il libro offre infatti una sorta di sguardo d'insieme sulla narrativa bontempelliana, lasciando emergere una compresenza di realtà ed esperienza onirica, di razionalità e forza dell'immaginazione. Già il testo d'apertura, Nitta, trasporta il lettore in un'atmosfera rarefatta ed impalpabile, mettendo in scena una figura di fanciulla apparsa durante un viaggio notturno in auto. Dopo aver sentito intorno a sé un suono simile ad un soffio d'intensità crescente, l'io narrante vede una creatura misteriosa nel sedile posteriore:

Quel terzo gemito s'era spento in un soffio [...] Questa volta rampollò tenue, dal nulla, e crebbe a gradi. Si fa uguale e continuo. Ha preso forma di respiro, un fiato sottile e dolente; e non cessa più. D'improvviso agghiacciai, perché mi resi conto che m'era vicinissimo, dietro, alle spalle. Mi feci animo, di colpo mi voltai. Ebbi il coraggio d'accendere la luce interna. E al suo fioco lume scòrsi una piccola confusa forma rannicchiata nel sedile di fondo. A poco a poco ne afferrai tutta la linea: una fanciullina macilenta, vestita d'un corto grembiule lacero; i capelli pallidi le coprivano a mezzo il volto bruno e liscio. (p. 23)

L'apparizione viene introdotta prima come suono intermittente e poi, alla luce debole dell'abitacolo, come figura a malapena distinta nel buio della notte. Nel passare in poche frasi dalle forme verbali più rare (rampollò, scòrsi con l'uso arcaico dell'accentazione) all'immediatezza del tempo presente, nella delicatezza del diminutivo (fanciullina) e nei tratti volutamente sfumati della giovane ospite, lo scrittore rende la dimensione poetica, aerea quasi, dell'insolito incontro. Nitta, che ricorda l'apparizione di Laura nella Vita operosa, è destinata a scomparire all'improvviso. Salito nella propria casa per prendere delle provviste da offrire alla ragazza (che ha voluto aspettarlo in auto), al ritorno l'uomo si accorge che è scomparsa, quasi rapita dal volgere della notte:

Nitta non era più nell'automobile [...] corsi, attorno alla casa, su per il poggio svegliato ai primi raggi, di là dai prati da ogni parte, in mezzo alle piante, lontano e vicino, fino al sole alto e poi al meriggio in giro sempre cercando e gridando inutilmente il suo nome. (pp. 27-28)

La stessa sospensione caratterizza i pellegrini del racconto omonimo, anch'esso incentrato su un'esperienza notturna dell'io narrante, unitosi ad una colonna di pellegrini che al mattino, riaffacciandosi dalla propria casa, vede sparire lentamente dalla città. In tutte queste narrazioni l'imprevedibile nasce quasi spontaneamente dalla più normale quotidianità, a volte addirittura da un'esperienza tipica della vita moderna come il giro in automobile: il realismo magico teorizzato anni prima dallo scrittore trova realizzazioni preziose e suggestive. Del resto un'incertezza di fondo si respira anche nel racconto che dà il titolo al libro, giocato sul filo di una presenza femminile misteriosa ed inafferrabile.

Il punto d'incontro più esemplare tra sogno e follia, col quale si chiude questa breve rassegna, si ha però nel racconto Il segreto. Canuto, ormai settantacinquenne, si reca dalla donna che cinquant'anni prima, fuggendo dopo aver scritto una rapida lettera d'addio, ha abbandonato alla vigilia delle nozze. Giunto al paese di Ilaria, Canuto la ritrova uguale ad allora, perfettamente immutata nell'aspetto. Nel sentirle dire continuamente «Domani mi sposo» l'uomo, che all'inizio ha pensato ad una nipote della donna da lui amata, si rende conto della verità, che gli verrà confermata da una parente:

«Sì, zia Ilaria, l'ha vista? Tanti anni fa ha avuto un gran dolore: il fidanzato l'ha abbandonata il giorno prima delle nozze, lei è impazzita [...] ha settantadue anni, non s'è mai riavuta, da quel giorno, sono passati cinquant'anni, crede sempre d'essere appunto a quel giorno, alla vigilia di sposarsi; per questo pare che abbia ancora quell'età che aveva allora: non so spiegarle...»

Canuto non rispose; e tremava. Se n'andò; non si voltò più a guardare la finestra d'Ilaria, Ilaria che aveva saputo fermarsi, Ilaria che, sopprimendo in sé il tempo, sola aveva scoperto il disperato segreto della giovinezza.

Quello che non era riuscito ad Adria riesce dunque a questa giovane di oltre settant'anni, in un racconto dal sapore pirandelliano dove il tempo viene messo sotto scacco dalla follia ma forse, ancor più, dall'intensità incorruttibile di un sentimento. Rinunciare ad essere sé stessi, questo è il «disperato segreto» di Bontempelli: ma dalla sua storia emerge, come controcanto al dolore di Ilaria, l'autenticità di un amore immenso e, insieme, la sensibilità lieve e dolce della scrittura. I racconti dell'Amante fedele confermano quindi pienamente l'esemplarità e la coerenza del percorso bontempelliano, che attraverso i decenni, con timbro inconfondibile, si snoda tra amore della tradizione e moderna intensità d'accenti.

 

 

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

 

M. Bontempelli, L'amante fedele, Mondadori-De Agostini, Milano, 1986.

M. Bontempelli, Opere scelte a cura di L. Baldacci, Mondadori, Milano, 1978.

M. Bontempelli, Vita e morte di Adria e dei suoi figli, Bompiani, Milano, 1956.

F. Airoldi Namer, Massimo Bontempelli, Mursia, Milano, 1979.

G. Cappello, Invito alla lettura di Bontempelli, Mursia, Milano, 1986.

G. Debenedetti, "Gente" di Bontempelli in M. Bontempelli, Gente nel tempo, SE, Milano, 1986, pp. 155-163.

U. Piscopo, Massimo Bontempelli. Per una modernità dalle pareti lisce, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2001.