IL CRISTALLO, 2011 LIII 2-3 [stampa]

IL NATALE DEI RACCONTI DI BUZZATI1

di FRANCO ZANGRILLI

Se si dà uno sguardo al panorama della letteratura contemporanea ci si accorge subito che sul Natale si è scritto moltissimo, si sono dette assai cose da tanti scrittori italiani e stranieri, da studiosi di parecchie discipline quali sociologi, antropologi, mitologi, per non dire come sia stato ampiamente trattato dal cinema e dalle arti figurative. Se ne sono occupati scrittori non credenti e di religioni diverse, e dalle ispirazioni più disparate. Basterebbe pensare a certi romanzi ottocenteschi o a quelli più recenti di Mario Pomilio, Il Natale del 1833 (1983), di Ferruccio Parazzoli, Vigilia di Natale (1987), di David Baldacci, The Christmas Train (2002), di David Sedarsi, Holiday on ice (2003), a certe antologie di racconti2 (che escludono pure quelli di autori importanti quali Giovanni Papini, Maria Messina, Giuseppe Bonaviri), a certe poesie di Clemente Rebora, di Giuseppe Ungaretti, di Iosif Brodskij, a certi drammi di William Shakespeare, di Thornton Wilder, di Edoardo De Filippo, di Roberto De Simone.

Di questo fenomeno è pienamente consapevole Buzzati. E il fatto che in varie occasioni ne parla apertamente sottolinea una continua revisione del pensiero, approfondimento e arricchimento della conoscenza; un atteggiamento che lo porterà a trattare il Natale in modo insolito, come un evento strano e misterioso, due aggettivi che ricorrono abbondantemente nella sua scrittura e che, con una vagliata variazione di sinonimi, verbi, sostantivi, aggettivi, caratterizzano la sua poetica del mistero che fantasticamente si porta a cogliere l'anormale nel normale, a speculare su un fatto di cronaca per trasportarlo a un piano simbolico che imparte all'individuo possibilità di identificazioni, a focalizzare un evento banale che poi banale non è perché si imbeve di aspetti filosofici e metafisici, o di fenomeni dell'ignoto, parascientifici, soprannaturali, e persino miracolosi3.

Il Natale offre un materiale complicato che affascina Buzzati proprio perché è affine a questa sua poetica, rappresenta un mito della fusione, assoluta ed inestricabile, della realtà sociale e del mistero universale, e anche per lui la nascita del Bambino Gesù è uno dei più grandi e più significativi misteri della storia dell'umanità.

Durante l'arco della sua vita Buzzati dà costante attenzione all'argomento del Natale. Lo mostrano gli scritti del Panettone non bastò che vanno dall'inizio degli anni Trenta, anni duri dell'apprendistato di giornalista presso il "Corriere della Sera", a poco prima della sua scomparsa.

Il panettone non bastò raccoglie per la prima volta in un corpus, oltre a un inedito intitolato dal curatore Senza titolo, tutti i racconti (anche in versi) sul Natale pubblicati dall'autore man mano che venivano alla luce su riviste, periodici, e quotidiani ("Amica", "Novità", "La parrucca", "L'Illustrazione Italiana", "Ariana", "L'Europeo", "Corriere Lombardo", "Corriere d'informazione", "Il Nuovo Corriere della Sera", "Domenica del Corriere"), ma in particolare sul suo giornale, il "Corriere della Sera", e parecchi di essi erano confluiti nei suoi volumi di racconti e non: Paura alla scala (1949), In quel preciso momento (delle edizioni 1950, 1955, 1963), Sessanta racconti (1958), Il Capitano Pic e altre poesie (1965), Il colombre e altri cinquanta racconti (1966), La nera di Dino Buzzati (2002), ma soprattutto ne Lo strano Natale di Mr. Scrooge e altre storie (1990).

Sovente i racconti natalizi di Buzzati si concentrano su fatti, eventi, e vicende della vita quotidiana, su aspetti sociali che tengono conto dell'agire umano, su fenomeni che si ripetono nella storia e che condizionano l'intera società, e questo ci dice ancora una volta quanto sia poco calzante la tesi degli studiosi che lo ritengono uno scrittore non interessato ai problemi sociali. Si rivelano racconti giornalistici che assumono diversi andamenti, tagli, schemi, che rimandano al bozzetto realistico, al pezzo documentaristico, al frammento ritrattistico e descrittivo, al reportage, all'elzeviro, e persino alla cronaca di costume, ma che sanno fare alta poesia di una situazione cronachistica, che spigliatamente si presentano come favole, fiabe, apologhi, e parabole della realtà (post-) moderna, che sperimentano a più livelli, anche con approcci manieristici e neobarocchi, e contengono situazioni e immagini seminali che sbocceranno nelle opere future. A volte sembrano un ibrido di generi e sottogeneri letterari, da quello diaristico a quello satirico, facendo trasparire anche il tono della prosa d'arte. Sovente sono animati da una notevole fantasia, venati dall'ironia e dal sarcasmo contro le aberrazioni del vivere quotidiano, e sovente danno l'opportunità all'autore di inventarsi i fatti di cronaca, magari attribuendoli allo scoop di un giornalista/giornale prestigioso, e dai fatti cronachistici veramente accaduti elabora racconti di estrosità straordinaria. Sono tesi a recuperare miti storici, archetipi dell'universo religioso cristiano, riti che regolano i ritmi della vita quotidiana, costumi, tradizioni, abitudini, soprattutto della nostra civiltà e cultura contemporanea. Sono racconti variegati che si muovono sulla linea della diacronia e della sincronia, pregni di polisemie, di messaggi, di complessità, anche per la presenza di un Buzzati che seppure sovente narratore e protagonista assume altre posizioni, come quella del testimone oculare, del personaggio reporter non distaccato ma partecipe e soggettivo, al punto di comunicare direttamente le sue preferenze, i suoi pensieri, i suoi giudizi. Anche nei suoi racconti più inventivi e più fantastici Buzzati è tutt'altro che narratore extradigetico. È sempre dentro le sue storie parlando di sé e degli altri, anche perché tra le tante cose apprese dal mestiere giornalistico è convinto che osservando e vivendo tra gli uomini ci si conosce meglio, che essi sono i nostri specchi. Da fine giornalista, lo si osserva operare senza pregiudizi, analizzare ed analizzarsi prima di largire un parere o una critica, e portato a provocare e polemizzare, a ironizzare e scherzare anche con profonda serietà.

L'autobiografismo di questi racconti natalizi è invadente, quasi mai si mostra piatto e sa accendersi di squarci lirici. Mio fratello aprì un pacchetto è un bel raccontino in cui Buzzati fa l'autoritratto del Natale del 25 dicembre 1961, trascorso nel milieu allegro e festivo della famiglia, coi fratelli e la sorella, con i cognati e i nipotini, «con un pranzo da famiglia borghese benestante» e con un albero di Natale sotto cui giace il «cumulo dei doni incartati» (PN, 104). Ma quest'ambiente è infranto dalla tristezza. Essa scaturisce dal "pensiero" memoriale inquieto, eppure fortemente tenero, affettuoso, malinconico, che indaga nei Natali trascorsi insieme a tutti i familiari, che imparte dolore per l'assenza della madre (deceduta nel 1961) e per ricordarla come soleva adornare le celebrazioni e i riti natalizi: «per il primo Natale della vita nostra non era più seduta a capotavola, non più ascoltava le nostre sciocchezze, non più era felice della nostra serenità, della nostra contentezza […] L'anno precedente c'era come in tutti gli altri Natali della nostra vita, anzi era stata la cosa più importante dei nostri Natali ma adesso non c'era più» (PN, 106); il Natale triste, doloroso, funerario, anche per i delitti commessi nelle ore della natività, diventa luogo comune nella narrativa contemporanea, come illustra anche il racconto di Pirandello, Natale sul Reno, in cui si narra della famiglia di Jenny Schulz-Lander (amica del Pirandello studente a Bonn) che, mentre consuma la cena della vigilia del Santo Natale, tutto si trasforma in segno di lutto perché i membri vengono invasi dal ricordo affliggente del suicidio commesso due anni prima dal secondo marito della madre, e anche qui l'allegria diviene la maschera del pianto, di una situazione tragica.

L'atmosfera di questo Natale si ripresenta nel racconto autobiografico Lo strano boxer sul comodino. Qui Buzzati torna a vedersi ragazzo nell'anno in cui muore il padre (per tumore al pancreas nel 1920) e perciò in famiglia il Natale non è celebrato: «non ci fu l'albero con le palle d'argento e coi lumini. Né ci fu il solenne pranzo della vigilia, tutto di magro secondo il costume veneziano» (PN, 160). La madre, «donna [...] molto coraggiosa» (PN, 160), cerca di uscire dall'infelice situazione sollevando lo spirito dei figli, e nonostante i problemi economici, la mattina di Natale fa a Dino un regalo di suo desiderio, un cane di ceramica con cui il ragazzo allaccerà un rapporto intimo, ma il dialogo immaginario che si sviluppa tra loro, imbeve la diegesi di toni favolosi, e calca la triste malinconia che logora l'anziano Buzzati.

Già in questi due racconti si discerne la predilezione dell'autore di fantasticare e di articolare il gioco degli opposti intrecciando sentimenti e situazioni del clima natalizio, insiti proprio alla natura di Natale; dà luce a un Natale bifronte composto di lutto e allegria, d'amarezza e dolcezza, d'infelicità e felicità, bello e non bello, e secondo lui «bello non significa soltanto bello, ma può significare anche terribile e profondo. Anzi. Le più grandi bellezze, in questo mondo, forse stanno proprio qui. Nel dolore, nel rimpianto di ciò che è stato e non sarà più, nella nostra solitudine, della quale noi in genere non ci accorgiamo, o preferiamo non pensarci» (PN, 106-107).

Nella percezione buzzatiana, spesso piuttosto pessimistica, il Natale rappresenta un complesso simbolo cronotopico. Trascende il tempo dato che non è paragonabile a nessun evento di grande importanza storica, né alla caduta dell'impero romano, né alla scoperta dell'America, né alla battaglia di Waterloo. Vuol essere una ricorrenza mitico-atemporale, l'evento più importante del calendario cristiano, la lancetta dell'orologio esistenziale e cosmico, il segno del tempo che fluisce irreversibilmente e rapidamente, che scorre in misura ritmica, ripetitiva, ciclica, che scandisce la fine di una stagione e l'inizio di un'altra, che apporta stupori, catarsi, consapevolezze, rassegnazioni: «abbiamo appena finito di riporre nell'armadio le candeline e i gingilli dell'albero, appena finito di rispondere agli auguri dell'anno scorso e già ricominciano a suonare le campane con quel suono così caratteristico. Un altro Natale è arrivato, precipitando su di noi con la spaventosa velocità del tempo» (PN, 51). Natale è come ritrovarsi a un rituale e perpetuo appuntamento, in cui tutto muta e tutto è uguale: «eccoci alle prese con la famosa ricorrenza, la quale ogni anno si presenta esattamente identica, conservando intatto attraverso i cataclismi e i secoli il suo incanto», o ritrovarsi prigionieri di un tempo matematico: «il Natale ritorna ogni dodici mesi, allo stesso giorno 25, con precisione» (PN, 51). E si traduce in un misterioso fenomeno temporale. Specialmente perché, appena arriva questo periodo, l'uomo sembra comportarsi in modo strano ed anormale, diversamente da quello che normalmente è ogni giorno.

I racconti buzzatiani indugiano a lungo sul comportamento dell'uomo in questo periodo, impiegando i meccanismi tradizionali dell'arte del narrare, dalla contaminatio alla metonimia, dall'accumulo all'anafora, o i procedimenti che svelano le cose attraverso una sequela di domande o di negazioni di esse. Ma l'eccessiva ripetizione di riflessioni e di pensieri, di molti elementi anche di carattere lessical-linguistici, mostrano limitatezza e pesano sulla pagina di pedanteria e monotonia, e annoiano il lettore, sembrano svelare un Buzzati che, per sollecitazioni redazionali e per occasionali o annuali appuntamenti natalizi coi lettori, scrive il pezzo con somma fretta perché deve riempire lo spazio del giornale, che la sua scrittura non è né limata né curata come quella di tanti suoi felici racconti, è più giornalistica che letteraria. Questo è particolarmente vero quando parla del comportamento sfrenato di una sterminata folla di individui, tanto che ritornano in modo incessante gli strumenti perifrastici, antifrastici, ossimorici, si accavallano le ripetizioni di ogni tipo, persino di immagini, di vocaboli (quali "odiare", "carogna", "comprare"), di locuzioni (ad es. «Sono forse diventati tutti matti?» PN, 53; «A me sembrano dei pazzi […] Non siamo usciti tutti pazzi?» PN, 81, 83; «Tutti sembrano diventati matti» PN, 96; «L'umanità intera sembra impazzita» PN, 100; «Come se l'umanità fosse impazzita» PN, 119). Alcuni di questi mezzi riescono a formare la deviazione stilistica della fabula e a incidere con forza drammatica il significato.

Buzzati, come si osserva nello Strano fenomeno che si chiama Natale, conosce molto bene l'anima del consorzio umano soggiogata dall'egoismo, dall'odio, dalla cattiveria. A volte avvalendosi di un enfatico linguaggio religioso, nota, pur in misura semiseria, che il giorno di Natale tutti, credenti e non credenti, diventano improvvisamente buoni, tolleranti, comprensivi, pieni di amore e di bontà: «si mettono a eseguire con entusiasmo sincerissimo il comandamento più spinoso di Nostro Signore Gesù Cristo, che è quello di amare il nostro prossimo [...], trovano la massima gioia nel fare quello che è nei desideri di Dio» (PN, 53). E attraverso un'ampia riflessione l'autore cerca di spiegarsi, e quindi di spiegarci, la ragione per cui essi si comportano così in questo momento dell'anno: «Forse li prende una arcana nostalgia della stagione remotissima quando tra gli alberi e i ruscelletti dell'Eden, Adamo ed Eva si aggiravan spensierati, senza neppure lontanamente sospettare che cosa fosse desiderare il male?» (PN, 53). Per Buzzati il periodo natalizio dovrebbe essere un momento prodigioso, «bello e misterioso». Ma purtroppo basta che dal calendario cada il foglietto del 25 dicembre e che compaia il 26, «tutti di nuovo carogne» (PN, 65), «tutto riprende come prima: gli affanni, le facce dure, gli occhi cattivi, l'avidità, le parolacce, gli scatti d'ira, le maldicenze, gli egoismi, l'inquietudine», tutto torna alle «squallide abitudini» e alle «guerre giornaliere» (PN, 54).

In certi racconti l'autore preferisce cogliere gli estremi della realtà, il comportamento cattivo-buono degli uomini in vicende assurde ed inverosimili, utilizzando una quantità di iperboli, di paradossi, di elementi umoristici. Nella Fiaba di Natale, dove tutto assume il contorno della satira amara, gli uomini potenti, in questo santo giorno, abbandonano l'amico Lucifero per indossare la maschera della beneficenza, della generosità, della carità, tendendo la mano ai pezzenti, festeggiando e consumando con loro cibi prelibati, facendone regali inauditi, come un usuraio che li riempie di denaro. A questi diseredati si unisce un coro di peccatori che cercano di redimersi e di delinquenti travagliati dal rimorso di aver fatto il male, tanto che qualcuno giura di «non ammazzare più nessuno» (PN, 61). In Rabbia di Natale si utilizza in modo scaltro l'esagerazione dell'aggettivo buono, etimo spirituale della narrazione: «Tutti sono stati così buoni con me […] A Natale […] ci si sente più buoni. Anch'io mi sento più buona» (PN, 91), per creare una rete di forti contrasti, con la bile che rode la protagonista, ma elevata a simbolo dell'essere umano tradito dal fratello uomo e che si sforza d'amare le persone esecrate.

La rappresentazione del Natale di Buzzati si contraddistingue da quella tradizionale. Non si affianca a quella dalle numerosissime variazioni del Natale biblico-evangelico con Giuseppe, Maria, e Gesù nella stalla (o nella grotta) riscaldata dal bue e dall'asino, con i Re Magi e la stella cometa, e se lo fa qualche rara volta tutto è in chiave ironica. Non è quella pastorale idillica, serena, romantica, del mondo della gente umile, povera, sofferente, con i logori stereotipi, cliché, mitemi, inclusi quelli dell'inverno terribile con vento, neve, e ghiaccio che si oppone al caldo del focolare domestico, dei bambini che soffrono la fame e il freddo, e del miracolo anche per l'intervento di un aiutante personaggio angelico, funzionale alla struttura dell'azione per innestare lo scioglimento a lieto fine. È quella dell'universo borghese e delle classi benestanti e prosperose, dell'avvento del boom e del successo economico, dell'età capitalistica (post-) moderna, in cui la pratica religiosa è prettamente apparenza e falsa riverenza, e in cui l'ipocrisia diventa la maschera di varie forme di crisi, di decadenza, di vanità.

E dato che quasi tutti i racconti del Panettone non bastò si collocano nel mondo cittadino di Milano, la città anima questa rappresentazione sia come coloratissimo sfondo, sia diventandone la protagonista, con la sua vitalità, il suo disordine, la sua vita, al punto che si concretizza una metafora delle grandi metropoli contemporanee, anche nell'accezione del paradiso degli inquinamenti, dei rumori, dei traffici asfissianti, del palcoscenico dove si rappresentano le forme più strabilianti dell'agire umano, dello spazio grigio ed oscuro di un formicolare di gente che febbrilmente va e viene, si strazia a superare la sfida della vita giornaliera, ma soprattutto logorata dall'affanno a prepararsi, a fare le spese, ed a celebrare il Santo Natale. È un ambiente in cui Buzzati vive ed opera con distanza interiore, si sente straniero, ed è efficacissimo nel sottolineare l'assurdità e l'anomalia delle usanze, delle abitudini, dei comportamenti di un'intera popolazione che galleggia nel dolce mare del progresso, dei costumi che sono entrati nel sangue di tutti, diventati una vera e propria «droga». Uno scenario che preoccupa, disturba, ed amareggia lo scrittore cronista che si ripiega a documentarne i centomila aspetti.

Come quello di riempire le case di regali, di avvolgerli in ogni sorta di carta lavorata lussuosamente, di fare i regali a tutti i membri della famiglia, agli amici, ai colleghi, a persone che non si sentono durante l'anno, che non si vedono da parecchi anni, che si ricordano quando inaspettatamente si riceve il loro dono e quindi ci si deve affrettare a ricambiarlo, andare a comprarlo e spedirlo. Regali che, secondo l'immaginario buzzatiano, spessissimo sono oggetti che ingombrano e creano problemi di varia natura, banali, inusabili, stupidi. In certi racconti (ad es. La tecnica dei regali è piuttosto in ribasso) la loro descrizione è volutamente minuziosa e gonfia. Come quello di spedire una valanga di cartoline e di biglietti da visita, quello di fare gli auguri per salvare le apparenze sociali, auguri vacui, futili, ipocriti; lo spazio cittadino sembra una grande piazza teatrale in cui si fanno sfilate di moda e di lusso, si recitano tanti ruoli della simulazione e dissimulazione, dell'«ambizione esibizione emulazione» (PN, 119):

Uomini e donne sono stati quindi presi da una infrenabile smania, entrano ed escono dai negozi, comprano, ordinano, spediscono, scrivono, telefonano […], giganteschi furgoni carichi di strenne intasano le strade della città, cateratte di Christmas cards, biglietti, buste, calendarietti, immagini ingorgano le sedi postali e quindi traboccano all'estremo.

Alla porta di casa […] è un continuo scampanellare. Fattorini con pacchi, fattorini con ceste, fattorini con scatole, fattorini con cassette, fattorini con fiori, fattorini con animali domestici di pregio, fattorini con telegrammi, cablogrammi, espressi, biglietti, buste, plichi, cartelle, calendari, la capienza dell'anticamera è ben presto esaurita, cose e carte invadono rapidamente gli altri locali della villa [...] Intanto sulla città dilaga l'impeto e la furia dei regali [...]

Per le strade nessuno cammina più, uomini e donne si scavano la strada nel compatto muraglione di pacchi, di regali, di scatole, di imballaggi, di botti, di bottiglie, di astucci, di involti, di sacchi, di sacchetti, ansimando gemendo maledicendo perché la strada che conduce alla loro casa è sbarrata dai pacchi, dalle scatole, dagli imballaggi, dalle botti, dalle bottiglie, dagli involti, dai sacchi, dai sacchetti, dagli astucci; e dai mazzi di fiori [...]

Riuscite ancora a distinguerla, la vostra città nella piena di Natale? Sommersa interamente da una coltre di inutili assurdi costosissimi regali, da uno strato spesso tre metri di telegrammi biglietti cartoncini auguri auguri auguri [...] Città gonfia di regali, di debiti e di auguri auguri auguri. (PN, 130-132)

La descrizione particolareggiata e minuziosa della pratica dello shopping natalizio, dei tipi di regali in pacchi di ogni misura e peso, persino in scatole che non entrano in una porta grande («mi ha portato un altro pacco […], era un pacco grosso, una grande scatola» PN, 92) e dei tipi di auguri che si inviano, di tutti gli oggetti natalizi e di tutto l'operare, tanto maniaco quanto folle della gente, si fa altrettanto insistente in altri racconti (ad es. Signori, una proposta per lo meno ascoltatela). Cioè si tratta di una raffigurazione descrittiva del Natale contemporaneo che, in questi racconti, riappare con ossessione patologica, con lievi variazioni contenutistiche e stilistiche (come quelle degli strumenti satirici), con i medesimi messaggi (come quelli moraleggianti), con abbondanza di strumenti retorici, con forzature degli andamenti iterativi e dell'enumerazione, con pleonasmi, ridondanze, caricature.

 

Raffigurazione frequentemente tesa a illustrare la laicizzazione e la secolarizzazione dei comportamenti di una società che pensa e si pone in modo nuovo di fronte alle feste natalizie: Natale è un periodo in cui non santifichiamo le feste ma le feste santificano noi, nel senso che con lo spreco si soddisfano bisogni, sogni, piaceri, anche con la gratificazione dell'auto-regalo; Natale sembra caratterizzarsi come una festa dell'incontinenza.

Sebbene Buzzati non ami i riti del Natale del progresso simbolo di un mondo cangiante, frenetico, in cerca di se stesso, non vuol dire che ne rimane indifferente. Anzi lo segue con lo sguardo dello scrittore-giornalista sornione, vigile, voyeuristico, e con l'occhio fotografico del pittore, teso a captarne le contraddizioni, le segretezze, e i misteri dell'anima individuale e collettiva, a focalizzare le maschere dell'apparenza e il carattere tragicomico delle masse, a dissacrare i nuovi atteggiamenti e stili di vita, ad aprire la nostra coscienza per indirizzarci al ripristino delle sane maniere e dei buoni sentimenti.

In alcuni racconti la società consumistica si manifesta con l'azione dei genitori di appagare i desideri dei figli con una pioggia di regali, comprando loro tutto, ogni cosa immaginabile e anche giocattoli di guerra, ma mai «un libro» (PN, 32); di alimentare le fantasie, le credenze, le speranze dei loro piccoli, incoraggiarli a scrivere a Babbo Natale nel lontano Polo Nord. Come avviene in Montenero 66. Qui i procedimenti epistolari e onirici risultano efficaci a rovesciare i miti natalizi, a intrecciare vita e magia, cronaca e leggenda, realtà e fantasia, con un povero operaio condizionato dalle forze dei costumi sociali a certi comportamenti a lui estranei, come quello di vestirsi da Babbo Natale, ma non può né comprare né prodigare regali. Il camuffamento di questo Babbo Natale si drammatizza, grazie soprattutto ai mezzi di un fantastico paradossale che l'autore impiega sempre con grande disinvoltura, quando egli a mani vuote entra nella casa di un bambino povero che proprio in quel momento stava sognando un Natale incantevole, con «un vecchio antichissimo e dall'espressione benigna [che] gli sorrideva porgendogli una fisarmonica di bellezza indescrivibile» (PN, 19).

Nel Grandissimo Gesù Bambino la mescolanza di realismo e surrealismo pullula da una lunga lista di regali che in forma di richiesta è inviata dal popolo dei "piccoli" alla posta centrale del Paradiso. Ricevutala, Gesù Bambino fa muovere i suoi angeli messaggeri, rende veritieri tutti i loro sogni. Tutta la favola vuole essere una parodia tagliente del Natale mercificato e fa emergere il ridicolo quando suggerisce che il mondo degli adulti attende i doni con la stessa ansia e passione del mondo infantile. Buzzati vorrebbe vedere un Natale cristiano, ma guardandosi intorno non lo trova, ne coglie la natura materialistica, la smisurata stupidità di tutti («Grandissima è la stupidità dei bambini, paragonabile solo a quella dei genitori» PN, 30), derisi e smascherati in tanti modi e spesso con l'impiego di un umorismo di toni multiformi (ad es. PN, 29).

Il Natale materialistico-consumistico dei racconti di Buzzati vuol essere specchio di un mondo in cui i bambini crescono senza valori, diventano uomini imparando ad amare le cose frivole, le forme e le posizioni del potere, il dio denaro, abbracciando la realtà (neo-) capitalistica al punto di modellarsi «guerrieri» feroci e sanguinari, uomini stregoni, truci, malvagi (cfr. ad es. Sapidità dei bambini).

A questo riguardo Buzzati non può non scagliarsi contro i media che corrompono l'anima degli innocenti e degli adulti, disarmati specialmente per essere sprovveduti della capacità analitica e interpretativa dei messaggi che manipolano e influenzano le masse coi trucchi del marketing pubblicitario, che sono interessati solo a vendere i loro prodotti ed a incassare ingenti profitti: «radio e televisione hanno bombardato il pubblico di messaggi motivazionalizzati, nei ristoranti e nei caffè, sui cibi e nelle bevande, sono state versate dosi di elisir promozionale» (PN, 130). E si lamenta della nostra mania di importare le mode da altri paesi: «il Natale si è andato mutando […] in una febbre frenetica, in un babelico furore, in una specie di corsa all'amok […], è una specie di incubo. È la moda del costume anglosassone, da noi adottato con esagerazione latina? È il frutto di una potente e astutissima campagna pubblicitaria condotta dagli operatori economici con espedienti psicanalitici e motivazionali, di cui non ci siamo manco accorti?» (PN, 85).

I temi dell'industria, del commercio, e della produzione economica del Natale sono vistosi, sono alla radice dell'affabulazione buzzatiana anche nel senso che si modellano i simboli del male, della perenne presenza satanica nella storia. E mettono l'autore in linea con il filone della letteratura industrial-consumistica che prende vita attorno agli anni Sessanta, specialmente con le opere di Calvino e di Volponi, e continua fino ai nostri giorni, come testimoniano i racconti di Aldo Nove e di altri scrittori postmoderni.

Nei racconti di Buzzati si configura la nostra società del benessere malata soprattutto per essere sempre più sciupona ed avida di cose frivole, la schizofrenia della popolazione che abissa nel consumo (come si avverte anche nel racconto I figli di Babbo Natale di Calvino): «Spediti gli auguri comprati i regali comprate le carte per impacchettare i regali comprati i nastri per legare i pacchetti comprati i cartellini da attaccare ai pacchetti fatti i pacchetti portati i pacchetti distribuite le mance spediti i vaglia» (PN, 76). E vi si drammatizza il carattere della gente che spende con spensieratezza, esuberanza, oltre le proprie disponibilità; lo sperpero del denaro (simbolo di potere e prestigio in questo nostro villaggio ormai globalizzato) che si identifica con immagini di guerra: ciascuno consuma «le sue munizioni di soldi […], fino all'ultima cartuccia, sul campo di battaglia […], i combattenti giacciono esausti» (PN, 67), e ironicamente crea un'illusoria identificazione con il fiume della bontà e dell'amore: «Ma per volersi bene sono necessarie queste cateratte di carta, di biglietti di banca e di regali? Per misurare un affetto occorre proprio che questo affetto si esprima in merci del valore corrispondente?» (PN, 75). Per Buzzati la bufera delle spese e dei consumi che comincia alla fine di novembre caratterizza il nostro Natale come un evento spogliato di ogni spiritualità, un incubo che spinge l'individuo a indebitarsi fino al collo (anche firmando le «graziose cambialette» PN, 111; «firmano assegni e cambiali […], firmano assegni assegni assegni, come corre facile la penna biro sugli assegni» PN, 131), a renderlo un ecce homo, di cui è illustrativo il protagonista di Natale è passato. Riposo! che racconta le sue (dis-) avventure: «Spolpato fino all'osso. Carico […] di regali assolutamente inutilizzabili […] Oberato dai debiti. Inseguito ancora da fattorini, fornitori, giornalai, camerieri, inservienti, frati, suore, che chiedono […] soldi soldi» (PN, 78).

Queste favole realistiche e non di Buzzati sottolineano con attenzione il volume degli affari che si fanno durante le feste della Natività, il costo esorbitante e oneroso delle spese, il Natale come business e momento ideale per le pubbliche relazioni, per creare contatti e rapporti di affari: «Claudio ha la fisima delle public relasciones […] I regali di Natale, dice, sono una magnifica occasione per 'ipotecare nel modo più elegante future prestazioni e appoggi di personaggi altolocati'» (PN, 110); un Natale che a parecchie famiglie impone pressioni sociali, di essere al passo coi tempi, e a chiedere prestiti in banca anche per fare la vacanza (ad es. PN, 111); un Natale deleterio perché non bastano neanche le entrate straordinarie, come suggerisce Il dramma del doppio stipendio articolato con tecniche dell'esagerazione che, come in altri racconti, sfociano nel comico ora mordace ora esilarante ora grottesco, specie quando punta sulla natura effimera della tredicesima, e nella cui descrizione si impongono le immagini denigratorie degli animali: «il doppio stipendio è gigantesco, è un mare, una Banca d'Inghilterra […] Sembrava un elefante, grande e grosso come'era, si è ridotto alle dimensioni di uno striminzito topolino, anzi, mancano quattro giorni a Natale e non riesco a vederlo neanche più» (PN, 108, 111).

Con Il panettone non bastò Buzzati punta a presentare sia questo Natale che trascina l'individuo pur inconsciamente in abissali situazioni esistenziali, sia il Natale come vicenda locale ed universale, realistica e simbolica, sacra e profana, e ritorna a sfruttare la dimensione di un periodo alquanto lungo, le sottigliezze della caricatura, gli stilemi del ridicolo, un sistema di strumenti stilistici che focalizzano oltre alle numerose stranezze, i movimenti inarrestabili, labirintici, nevrastenici, il delirio della gente presa dalla festa di Natale. Di volta in volta rinforza le dosi di un grottesco sfarzoso e di un'ironia aspra che delineano Natale un tempo disumano, caotico, infernale, e non solo per «quell'odio degli uni contro gli altri in casa», o per le «nostre cattiverie, vanità, sporcizie, maligne parole» (PN, 22).

Nella Casa senza, un racconto con un intreccio comico-burlesco di tono satireggiante, lo scrittore onnisciente Buzzati esplora il comportamento oppositivo che si stabilisce tra la gente che la celebra la festa con smisurata passione e quella che la aborre, tra un segmento della popolazione gretta che vive nella culla delle tradizioni natalizie e un altro segmento laico che osserva con tristezza quelli che sono incapaci di aprirsi al cambiamento. Il racconto lascia trasparire l'impronta della prosa giornalistica quando raffigura un complesso edilizio di appartamenti ben costruiti, in un'ottima località cittadina, venduti o affittati a un prezzo stranamente basso. Alle abitazioni manca qualcosa, ma nessuno comprende cosa. La narrazione, che spesso in Buzzati si serve dei mezzi del giallo, cerca di portare a galla i misteriosi intrighi che devono esserci, e poi quasi epifanicamente ci fa accorgere che nel complesso residenziale triste e spento, manca il Natale, proprio per volontà dei suoi padroni ed amministratori, forse simboli di una comunità incurante che non si riconosce negli altri.

Tale atmosfera emerge anche dallo "Stacco di Natale", un racconto favoloso esposto in prima persona dalla voce della vetrina di un piccolo negozio, addobbata di decorazioni e di articoli natalizi, la quale effigia minuziosamente la personalità rissosa e nevrotica dei potenziali clienti che si mettono a guardarla o che entrano a fare grandi spese, i pedoni che si muovono come marionette elettrizzate e quelli assorti nelle loro miserie e che manifestano indifferenza verso l'ambiente circostante, le automobili che «si ingorgano e i clacson si mettono tutti insieme a protestare» (PN, 142); in altri racconti natalizi l'ambiente cittadino appare febbrile proprio per la circolazione delle macchine, per i parcheggi disordinati di fronte ai negozi o per le vie, per le liti che sorgano tra gli automobilisti: «Cos'è adesso il Natale nelle grandi città? Ve lo dice il mio aspetto, illustri signori: l'aspetto di un uomo travolto da un cataclisma, afferrato da una dentiera di ingranaggi, tritato da una gigantesca mola, spremuto fino al midollo delle ossa» (PN, 74).

Da questo Natale babelico intraprendono la fuga personaggi che riflettono umoristicamente i pensieri e le visioni dell'autore. I protagonisti del Club dei grandi superstiti e del Natale è passato, Riposo! ne sottolineano lo straniamento, un'evasione che è luogo comune dei racconti natalizi contemporanei e talvolta ripresa all'insegna della variazione, come ad esempio testimonia Natale in Turchia di Giuseppe Pontiggia4. Il protagonista buzzatiano che meglio rappresenta ed esprime questa fuga-evasione è quello dello Strano Natale di Mr. Scrooge, un racconto influenzato dai "racconti di Natale" di Thorton Wilder e di altri scrittori moderni5, ma soprattutto di Charles Dickens e in particolare del suo lungo racconto Ballata di Natale in cui figura uno Scrooge usuraio avaro e turpe, avvolto nell'unica passione di accumulare denaro, ma le apparizioni dei fantasmi dal regno della morte ne colpiscono la coscienza e illuminano il ricordo di un lontano Natale dell'infanzia, un ricordo che lo redime portando fuori l'egoismo e dando vita a un cuore umano.

Lo Scrooge buzzatiano vive in una New York che è l'archetipo della città intesa come oasi di disordine, vivaio di affari spietati, di malattie contagiose, di vizi incancreniti, di tanti mali. Incisiva è la configurazione del volto freddo, crudele, e disumano della città («A New York non vige la benevolenza verso il prossimo» PN, 136), delle sue infinite "luminarie" che riflettono un cielo tenebroso, della personalità frenetica, isterica, e delirante dei sui abitanti, che inquietamente fuggono qua e là («si ha l'impressione che il passante non veda altri passanti, bensì veda soltanto delle ombre indifferenziate che gli fluttuano intorno» PN, 137) o formicolano per i labirinti delle strade e per i negozi pieni di ogni ben di Dio. Per Buzzati il Natale newyorkese è identico a quello milanese, a quello parigino, a quello londinese, a quello di altre grandi metropoli del nostro pianta. Non diversamente da Buzzati verso la sua città di Milano, Mr. Scrooge verso questa sua New York sente il pathos della distanza, si sente un forestiero. Essendo un sessantaduenne uomo d'affari ricchissimo, la ricorrenza natalizia non gli porta più l'allegria del guadagno incassato dalle catene dei suoi supermercati, ristoranti, autosaloni, ecc. Egli diventa l'emblema di una popolazione che non sente "dentro" di sé la passione del Santo Natale, che non vive il sentimento religioso. Inoltre diventa un'immagine di misantropo e di scettico su cui si sbizzarrisce l'estrosa ironia dell'autore. Pensa di voler trascorrere un Natale diverso da quello newyorkese. Anzi di andare in un luogo in cui non si sarebbe celebrata affatto tale ricorrenza. E decide di fare una crociera sulla nave "Michelangelo". Ma appena mette i piedi a bordo si accorge che anche qui si festeggiano i riti natalizi, inclusi quelli della Santa Messa. Il Natale gli si trasforma in «maledizione» che non lascia requie, assilla, opprime, addolora. Soprattutto dal momento che Buzzati si avvale dello scatto favoloso per sviluppare la personificazione di Natale, l'immagine del fantasma-spirito di Natale e della sua incarnazione nella figura di un cameriere che lo assiste con cortesie e attenzioni esageratissime. Onde la narrazione assume l'andamento di una farsa serpeggiata da sprazzi ilari, comici, satirici, che ribadiscono molto bene l'idea negativa di Buzzati per la nostra celebrazione del Natale.

Dal Natale dei nostri tempi fugge anche il vecchio Dio antropomorfo della favola Lunga ricerca nella notte di Natale (forse ispirata dalle funzioni delle novella pirandelliana Il vecchio Dio). Scontento e deluso dei peccati che si commettono anche il giorno della vigilia di Natale, il «poverello» decide di prendere rifugio nel Duomo di Milano, ma appena bussa alla porta gli viene rifiutato l'accesso perché, per ordine dell'arcivescovo, il luogo sacro deve rimanere chiuso al pubblico, e da qui scatta una sottile satira al mondo della Chiesa cattolica. Allora abbandona il mondo cittadino per rifugiarsi presso la gente umile e semplice della campagna. Ma il sagrestano dell'arcivescovo, lo zelante don Valentino, si accorge di aver allontanato il vecchio Dio, e subito si mette a ricercarlo per la città, che Buzzati continua a dipingere come una città sconsacrata, pagana, devota alla religione edonistico-epicurea: «benché fosse Natale, non c'era traccia di Dio. Dalle mille finestre accese giungevano echi di risate, bicchieri infranti, musiche e persino bestemmie. Non campane, non canti» (PN, 26). Quando don Valentino si porta in campagna, prega il capo della comunità contadina di restituire Dio alla città:

Sopra i prati e i filari dei gelsi, ondeggiava Dio, come aspettando. Don Valentino cadde in ginocchio.

«Ma che cosa fa, reverendo?» gli domandò un contadino. «Vuol prendersi un malanno con questo freddo?»

«Guarda laggiù figliuolo. Non vedi?»

Il contadino guardò senza stupore. «È nostro» disse. «Ogni Natale viene a benedire i nostri campi».

«Senti» disse il prete. «Non me ne potresti dare un poco? In città siamo rimasti senza, perfino le chiese sono vuote» [...]

«Ma neanche per idea! Chi sa che schifosi peccati avete fatto nella nostra città. Colpa vostra. Arrangiatevi».

«Si è peccato, sicuro. E chi non pecca? Ma puoi salvare molte anime figliolo, solo che tu mi dica di sì».

«Ne ho abbastanza di salvare la mia!» ridacchiò il contadino, e nell'attimo stesso che lo diceva, Iddio si sollevò dai campi e scomparve nel buio. (PN, 27-28)

Si tratta di un Dio che viene a conoscenza che ovunque l'uomo è essenzialmente peccatore e diabolico, che per amor proprio gli chiede di esaudire grazie, miracoli, perdoni, che è ricercato per soddisfare solamente il proprio egoismo, che nel mondo mancano la fratellanza, l'altruismo, i valori evangelici, sempre alla radice del sentimento umanistico dello nostro scrittore. Come nella favola Sogno di Natale di Pirandello, appare infine un Dio in cerca di un'anima altruistica in cui incarnarsi e rinascere, ma continuamente fugge da tutti, anche da quelli che sembrano avere un barlume di fede.

Altri racconti natalizi riaffermano che Buzzati racconta i fatti in misura realistico-favolosa, li inquadra in prospettive e riflessioni che fantasticamente narrano lo svolgersi della storia, portano alla luce una serie di vicende che tessono il confronto tra il Natale del passato e quello del presente, anche attraverso la visione di personaggi che rimpiangono e rievocano con delicata sensibilità il tempo perduto, e che con spirito cinico denunciano, criticano e attaccano la realtà odierna per aver cancellato dalla «Santa Natività» le componenti dell'incantesimo e della semplicità: «Che cos'era il Natale di quegli anni? […] A descriverlo, nelle sue manifestazioni materiali, bastano pochissime parole: i giocattoli per i bambini, la messa, qualche biglietto d'auguri, la mancia al portinaio, tutta la famiglia riunita intorno al focolare […], al massimo un alberello coi lumini, o un presepio con il muschio e la farina. Tutto qui. Era la festa dei bambini, noi grandi eravamo spettatori. Se mai, per i grandi, la festa era tutta interna, silenziosa» (PN, 75). Le favole (post-) moderne di Buzzati fanno trasparire l'alone della nostalgia per «i Natali di una volta, i dolci, quieti, poetici, raccolti, misteriosi Natali dei bei tempi, che ci apparivano, verso la fine dell'anno, come un beato approdo dopo dodici mesi di lavoro, una breve ma incantevole oasi di sosta, di distensione, di riposo» (PN, 74-75).

In Una torta e una carezza il passato è simboleggiato dalla vecchia Tata e il presente dalla famiglia borghese dei Regondi, presso cui Tata ha fatto la domestica. Benché in pensione da anni, per le feste natalizie ritorna ritualmente a stare con loro, e ogni volta trova che le cose cambiano, a cominciare dalla nuova e giovane domestica Alberta. «Anche quest'anno» la Tata arriva in casa Regondi con il suo cestino contenente «le mandorle, lo zucchero, i confetti, il burro fresco di campagna» e gli altri ingredienti per fare la torta di Natale, una torta in forma di «Gesù Bambino tutta ricoperta da uno strato di zucchero bianco con cordoncini, nappine e decorazione di confetti, soltanto la faccia del Bambino Gesù è di zucchero rosa, e sopra la candida cuffietta c'è una piccola stella d'argento» (PN, 128). Un'immagine gastronomica che, come quella della vecchia donna di servizio, rappresenta la tradizione e il passato. Invece al grande pranzo di Natale viene servita e consumata la torta «da cordon blue che ha la forma di due cigni con i colli intrecciati» (PN, 129), preparata da Alberta perché è preferita dai giovani membri della famiglia Regondi, i quali rappresentano i nuovi tempi, il presente di una società che si sgancia sempre di più dai legami con il passato, come suggerisce l'azione di qualcuno di loro che invece di stare a casa con la famiglia passa le Feste sulle piste sciistiche assieme a comitive di amici. Tata quindi è il segno di una tradizione che scompare, messa da parte, estinta, di un passato che si rivive nei ricordi, affettuosi e teneri, anche da parte del narratore omodiegetico («no, non c'è più la felicità di una volta» PN, 21). I Regondi ed Alberta rappresentano le nuove generazioni che non possiedono una limpida coscienza delle trascorse civiltà, né delle recenti culture, che non ritengono una memoria storica, neanche quella che riporta ai miti gastronomici dell'infanzia. La torta serve a Buzzati non solo per intrecciare una matassa di motivi temporali antitetici, ma anche per renderla referente dell'industria cibaria natalizia, del commercio che produce con esuberanza e della campagna pubblicitaria dei prodotti culinari molto sfrenata, aggressiva, guerresca, come suggeriscono gli spunti grotteschi o gli eufemismi o gli accumuli dello stile descrittivo. La torta è un altro simbolo del Natale di oggi come festa d'enorme abbondanza di tante cose. Il Natale d'oggi è a-cristiano perché si presenta anche come un'orgia dei piaceri cibari; è un'allegoria della festa carnascialesca, del tempo di Bacco, del Paese della Cuccagna.

In Troppo Natale il confronto tra il Natale antico e il Natale (post-) moderno si fa più umoristicamente stridente. L'apologo si apre con un somarello e con un bue che rievocano il passato nostalgico di un Natale umile, semplice, percepito come un paradiso scomparso e anche altrove allegorizza il recupero dei sapori della madeleine (come suggerisce anche l'io narrante di Natale come una volta?: «adesso sembra non ci sia più» PN, 21), la loro esperienza di testimoni oculari della vicenda storico-idillica della nascita del bambino nella mangiatoia di una stalla di Betlemme. La stessa cosa avviene in chiusura:

«Ma ti ricordi, quella notte a Betlemme, la capanna, i pastori, quel bambino? Era freddo, anche lì, eppure c'era una pace, una soddisfazione. Come era diverso!»

«È vero. E quelle zampogne lontane, che si sentivano appena appena».

«E sul tetto come un lieve svolazzamento. Chissà che uccelli erano».

«Uccelli? Testone che non sei altro! Erano agnelli».

«E quei tre ricchi signori che portavano regali, li ricordi? Come erano educati, come parlavano piano, che persone distinte» [...]

«E la stella? Non ti ricordi che razza di stella, proprio sopra alla capanna? Chissà che non ci sia ancora. Le stelle di solito hanno vita lunga». (PN, 83-84)

Ma soprattutto nel mezzo della rappresentazione, il loro punta di vista favoloso viene gradatamente a discutere del Natale dei nostri giorni. Il quale si configura come un Natale emblematico della perdita della ragione, strano, inusuale, anomalo, profondamente esteriore e «schifosamente consumistico» (PN, 147). L'ambiente della città sembra uno spettacolo assurdo e plateale, oltre che un campo di battaglia («Senti, amico asinello, tu mi hai detto che mi portavi a vedere il Natale. Guarda che ti devi essere sbagliato. Te lo dico io: qui stanno facendo la guerra» PN, 81), come illustra una descrizione, ormai molto prediletta dallo stile buzzatiano, che felicemente drammatizza la mania collettiva attraverso l'impiego dei mezzi della caricatura, della enumerazione, della tautologia:

Era uno spettacolo impressionante, i mille lumi delle vetrine, i festoni, le ghirlande, gli abeti, e lo sterminato ingorgo di automobili che tentavano affannosamente di passare in angusti budelli e il formicolio vertiginoso della gente che andava e veniva, entrava ed usciva, si accalcava nei negozi, si caricava di pacchi e di pacchetti, tutti con una espressione ansiosa e frenetica, come se fossero inseguiti [...]

Passavano fattorini in bicicletta con immense cataste di pacchi pericolanti, camioncini caricavano e scaricavano, gigantesche pile di dolci e montagne di fiori si disfacevano sotto l'assalto del pubblico anelante, lampadine si accendevano e spegnevano, strane canzoni simili ad urli rimbombavano da ogni parte [...]

Andare e venire, comprare o impaccare, spedire e ricevere, imballare e sballare, chiamare e rispondere. E tutti guardavano continuamente l'orologio, tutti correvano, tutti ansimavano col terrore di non fare in tempo e qualcuno crollava, boccheggiando, sotto la incalzante marea di pacchi, plichi, cartoncini, calendari, strenne, telegrammi, lettere, carte, biglietti. (PN, 80-82)

Se in questi racconti Buzzati rievoca le pratiche religiose dell'antico Natale lo fa per evidenziare come le nuove pratiche siano anch'esse un culto dell'"oppio" delle cose che dovrebbero rendere felice la vita di tutti, il Natale come un impressionante spettacolo o una "guerra" del consumo, da cui si esce profondamente stremati, o in cui si resta feriti, molto diverso dal Natale di una volta, ricco di valori, del mistero e della fantasia, della poesia, di cui l'uomo di ogni tempo ha bisogno per vivere una vita migliore, e di cui l'autore auspica il recupero.

Nel bozzetto Decorazioni natalizie riappare il concetto delle nuove generazioni edonistiche, che non vogliono avere a che fare con i riti del Natale di una volta. E nel racconto dialogico Quando l'albero non era di plastica la rievocazione del passato fa sentire la poesia delle mura domestiche, della serenità, e della naturalezza del Natale: «molto più belli i Natali di una volta […] I bambini ci trovavano una felicità che voi oggi neppure immaginate. E anche gli alberi di Natale erano più belli […], di abete vero e non di plastica, candeline vere di cera e non elettriche. E tutto era quiete e riposo, né radio né tv» (PN, 149). Poi attraverso la visione di un io che anche quando scherza appare pessimista, il contrasto tra i due Natali si accende mettendo a fuoco l'immagine di una società odierna snaturata, artificiale, decadente, che ha perso la coscienza della storia, che compra e getta, che è superficiale nelle cose e con una popolazione che non crede più a nulla, e dove si impone il linguaggio duro non solo per orchestrare una critica sferzante ma anche per scuotere la coscienza del lettore e ribadire l'idea che il Natale d'oggi è nient'altro che un fenomeno volgare e deplorevole:

voi borghesi adulti, quanto siete ridicoli alle prese col vostro schifosissimo Natale a cui tenete tanto […], basterebbe questo per maledire la società dei consumi […] È veramente balordo il Natale che noi grandi siamo riusciti a organizzare, anche se alle industrie può far comodo […] Natale-boom della abietta società dei consumi e dell'abominevole benessere […], spese inutili e pazzesche, questo affannarsi senza costrutto come tante pecore che obbediscono cretinamente alle reclame agli slogan al conformismo mercantil-natalizio […] Il Natale ti sembra una vergogna […] Non avrei il coraggio di distruggere questo schifoso Natale […], questo ignobile Natale. (PN, 150-151)

Tra i racconti natalizi buzzatiani sono di particolare rilievo quelli che concernono certe date storiche, inclusi quelli degli anni '44-46.

Quello del '44 è ancora un Natale di guerra. Dopo un lungo periodo di sciagure e di dolori, anche da parte del narratore cronista che è la voce corale di una parte della società, si attende con ansia e con speranza il Natale del 1945, simbolo della rinascita spirituale e materiale, della resurrezione di un popolo precipitato nelle ceneri dell'esistenza, del mito del risveglio: «lo spirito del vecchio Natale sarà di nuovo tra noi, un po' dappertutto, questa antica favola che non si consuma mai. Non soltanto nelle chiese, anche fuori a San Babila e alla Bovisa, all'ospedale e tra le macerie, sui marciapiedi di via Padova, nei cimiteri, nei tram e nelle guardine» (PN, 15). Anche in altri racconti lo «spirito del Natale» si identifica con l'immagine antropomorfica del Cristo (-Dio) addolorato dal fatto che la gente non rispetta i principi della tradizione cristiana o con un misterioso personaggio millenario che risveglia l'anima universale e di un popolo martoriato non solo dalle catastrofi della guerra. Benché la guerra stia cessando, gli uomini continuano ferocemente a combattere. Buzzati implora che tutti siano buoni e solidali almeno il giorno di Natale, a vivere il sentimento del perdono e della pace natalizia, a usare questa «grande occasione» per cambiare: «Lasciatevi andare dunque, non datevi delle arie [...] La grazia di Dio [...] è tornata a cercarvi. Dimenticate per un giorno [...] il sangue [...] Guardate le facce degli altri uomini con maggior calma e vi accorgerete che non sono poi così esecrabili come vi sembravano ieri [...] Un'occasione simile vi capiterà una volta sola all'anno [...] Lasciate stare il mitra» (PN, 16).

Se si continua a spargere il sangue il giorno di Natale, per Buzzati ciò significa che l'uomo non ha appreso nulla dalle lezioni della storia, che non si è liberato dalla condanna di commettere gli stessi errori e le stesse atrocità. Domani una grande occasione si sviluppa con il tono della preghiera rivolta direttamente ai giovanotti dalle «facce patibolari», ai criminali che spargono l'orrore e il sangue, perché abbandonino le armi da guerra e si lascino conquistare dallo spirito delle ricorrenze natalizie. Un altro racconto che testimonia in misura drammatica la consapevolezza dell'autore delle grandi difficoltà in cui si trova il paese, il rifiuto della violenza, il timore per il dilagare della malavita, e la speranza che tutto possa tornare presto alla normalità.

Il Natale di questo periodo di transizione è illustrato dal Panettone non bastò che ritrae la vicenda di Francesco Anfossi, un professionista immerso nell'attività del proprio lavoro. Per lui Natale vuol dire un giorno di pausa e di riposo. Ma dall'inizio della vigilia viene tormentato dalla riflessione sulla guerra, ritratta a mo' di spettro, di una presenza-assenza ora vicina ora lontana, come indica la descrizione dei rumori che si odono degli scoppi delle bombe e di altre azioni belliche. Concepisce il Natale come «una specie di armistizio universale» (PN, 42), come una vacanza di ventiquattr'ore anche per quelli che si trovano sul campo di battaglia (americani, inglesi, tedeschi, ecc.). Quando cerca di rilassarsi leggendo il giornale, sotto gli occhi appaiono le notizie di guerra, su ciò che succede in questo o in quel fronte. Nel frattempo Buzzati tesse una matassa di paradossi tra il Natale tempo di pace e il Natale tempo di guerra. Paradossi che culminano quando la cena della vigilia della famiglia di Anfossi non è allietata dalla musica natalizia, né da soavi canzoni tradizionali della festività, è invece guastata dagli squilli delle sirene che intimano alla popolazione di mettersi in salvo, e dal rombo degli aerei che si avvicinano sulla città per seppellirla sotto le bombe. C'è qualche ingenuo convinto che gli scoppi di queste bombe siano quelli dei petardi adoperati dai tedeschi per festeggiare il Natale. E tutto funziona molto bene nella rappresentazione di un Natale sanguinoso e terrificante, che non è «un giorno a sé, speciale» ma è «come tutti gli altri giorni della guerra» (PN, 49).

Il Natale di guerra in Buzzati riappare con variazione di un sistema di tropi e di vicissitudini. Il Natale non è felice per chi ha un suo caro al fronte, per i genitori che attendono il ritorno del figlio soldato, e soprattutto per la madre aggrappata all'illusione che egli sia in vita: «A che cosa serve loro la data del 25 dicembre? A che serve la gioia che c'è nell'aria?» (PN, 35). Benché il tempo passi, in loro rimane accesso il sogno di riavere il figlio nel nido domestico. Dal punto di vista strutturale il freddo del campo di battaglia contrasta con il calore delle feste natalizie e con quello dell'amore dei genitori. Per le Feste la loro speranza si acuisce, diviene una passione che si ripiega in inquietudini, in logoramenti, in pene, come suggerisce lo stile interrogativo: «Dove sarà lui in quest'istante? A questo pensano. Dove sarà il loro Nanni, il loro Gino, il loro Carletto, il loro Pietruccio, il loro Peppino? Siederà anche lui a una specie di pranzo di Natale?» (PN, 36-37). Anche lo squillo del campanello di casa diventa un supplizio della speranza, fa scattare il pensiero a fantasticare la sorpresa di una missiva o del ritorno di lui. Durante il pranzo di Natale la sua assenza approfondisce la solitudine, l'angoscia, la disperazione.

Buzzati, mago del gioco dei rovesci, non può non farci vedere il Natale anche dal punto di vista di coloro che sono coinvolti in azioni belliche. Come mostra un racconto in cui i marinai su una nave da guerra attendono ai riti natalizi, mentre gli altri compagni cercano di avvistare e di annullare il nemico. Per Buzzati, come per il lettore, tutto è profondamente vero e misteriosamente incomprensibile («l'altare era sovrastato solennemente dai due cannoni» PN, 12), teatro dell'assurdo quando la realtà natalizia fa parte del paesaggio di guerra: «i soldati si inginocchiavano reverenti all'udire che il Figlio di Dio era nato in terra, ma senza lasciare le armi» (PN, 13), un'azione che in altri racconti sottolinea anche la bigotteria del sentimento religioso: «uomini d'arme […] si facevano il segno della croce anche se da mesi e mesi non dicevano più una preghiera» (PN, 9).

In altre favole il dualismo morte-vita figura quando si mette in risalto che a Natale lo spettro della morte agisce attraverso vari camuffamenti; quando si muore per causa di sciagure, di disastri aerei, di naufragi, di catastrofi di vario genere (ad es. Atroce Natale e Natale è passato. Riposo!); quando i grandi cambiamenti sociali, inclusi quelli del dopoguerra, uccidono l'individuo spiritualmente.

Buzzati, che era cronista di mostre d'arte e pittore, non poteva non interessarsi dell'arte del presepio. Come altri scrittori contemporanei, anch'egli considera il presepio un'arte teatrale che si rinnova nel tempo conformandosi alla realtà dei costumi e delle etnie dei popoli: «si può essere certi che gli Eschimesi, se si costruiscono il presepio, fanno nascere Gesù Bambino in una capanna di neve, minacciata da crollanti picchi di ghiaccio, in una landa polare; e può essere un bellissimo presepio lo stesso» (PN, 5). In certi racconti ritorna a descriverlo con immersione e con dovizia di particolari, di traslati, di suggestioni (ad es. Presepio in locale 20), e frequentemente si profila il palcoscenico del mistero.

Tecnica del presepio discute con approccio saggistico di come sia «difficile anche mettere insieme un piccolo presepio casalingo» (PN, 3). Dar vita al presepio vuol dire saper disporre le statuette nel punto giusto anche per attuarne possibili spostamenti senza rovinare la scena; avere l'abilità di inventare gli aspetti paesistici, incluso il corso dell'acqua; mostrare la capacità di fare apparire le cose con spontaneità e naturalismo. Anche il presepio più meschino può e deve suscitare incanti, meraviglie e misteri. Chi costruisce un presepio anche umile e modesto è un "artefice", si può creare un piccolo capolavoro utilizzando anche «mezzi scarsi e miseri» (PN, 5). Nella disamina di Buzzati il presepio diviene un'allegoria della composizione di un'opera d'arte, della creazione che è estrosa fantasia, poesia, mistero. E tale disamina porta a stabilire principi estetici ed a polemizzare commentando un brano di un tradizionale manuale sul presepio:

«Non vi lasciate tentare dall'amore per le stravaganze […] Ogni ritegno, per verità, si è perso nell'adornar la santa scena con simulacri di animali svariatissimi. E ciò è male perché non va mancato rispetto alla dignità degli storici testi. Si rammemori quindi che nel presepe si possono scorgere solo asini, buoi, pecore, capre, cani, gallinacei e qualche cavallo; al seguito dei Re Magi è lecito altresì disporre dromedari e cammelli».

Perché tutto questo? Perché mortificare la poesia del rito gentile con l'intransigenza di norme inderogabili? La presenza di qualche elefante, ad esempio, crediamo si addica perfettamente alla fantasiosa scenografia della santa notte. Un ottimo vedere possono fare inoltre i cigni di celluloide naviganti su piccoli laghi, raffigurati per mezzo di specchi. Possiamo attestare di aver visto persino un presepio con leoni e giraffe: e non stavano niente male. (PN, 5)

Avendo fatto l'inviato speciale in varie parti dell'Africa e in particolare in Etiopia6, Buzzati osserva come i colonizzatori praticano le feste natalizie e come esse influiscono sulla fantasia e sull'esistenza degli indigeni, su una popolazione primitiva che si affaccia al nuovo mondo dell'Occidente. Nello Strano Natale si ha il racconto della cronaca romanzata che intreccia, giustappone, ed unisce differenti realtà natalizie. Gli archetipi del Natale della Bibbia, quelli del Natale della società evoluta dell'Italia, quelli della società primordiale dell'Africa, sembrano annullare il tempo per rendere eterna la ricorrenza festiva, per trasportare in una dimensione di sogno meraviglioso, e per far prendere coscienza al cronista che tutto è invenzione dell'uomo, inclusa la fede e le sue pratiche: «il paesaggio della Natività era senza dubbio più simile ad Addis Abeba che alle nostre gelide Alpi, che il Natale della nostra infanzia felice è in fondo tutta una costruzione retorica, che i Re Magi non portavano mantelli e pellicce di stile nordico ma scimmie e turbanti, come si usa ancor presentemente in Etiopia» (PN, 8). Mentre Buzzati continua a fantasticare i ricordi natalizi della sua fanciullezza, quando la fede era ingenua, sincera, intatta, non ancora inaridita, non si astiene dal criticare i comportamenti della popolazione milanese che ignora i dettami del Vangelo e vive nella simulazione, nell'amor proprio, nel consumismo materialistico: «ci vengono in mente immagini della città lontana, lunghe file di [...] uomini e donne paonazzi dal gelo che corrono, indaffaratissimi, lungo le vetrine splendenti, carichi di pacchetti con le più stupefacenti stoltezze comperate all'ultimo istante [...], se si urtano nella ressa non hanno reciproci sguardi in cagnesco, come facevano ieri, ma un cordiale sorriso di benevolenza» (PN, 8). Le usanze e i prodotti natalizi della nostra società conquistano l'Africa e, grazie al rinforzamento dello stile indiretto libero, tutto diventa magico ed incantevole agli occhi di un coro di neretti di Addis Abeba, che contemplano gli oggetti esposti nelle vetrine dei negozi della città, soprattutto quando dalla scenografia di un grande presepe non riescono a identificare «chi sia il vecchione bonario, con grandissima barba bianca, mantello e cappuccio rossi bordati d'ermellino», cioè Babbo Natale che «non è mai disceso dalle nebbie del nord per entrare» nei loro «tucul a deporre» doni e regali, né riescono a capire perché si sono cosparsi «i fiocchettini di bambagia o gli spruzzi di farina bianca» su certe parti della sacra rappresentazione: «Sabbia del deserto forse? No perché la sabbia non è bianca. Cotone? Ma il cotone non cresce sui tetti delle capanne. Gli uomini dello Scioa non hanno mai visto la neve» (PN, 8). Anche agli occhi dei neretti il presepe appare una rappresentazione strana, anormale, misteriosa, e coinvolge in un'esperienza mistica.

Il racconto natalizio di Buzzati abbonda di idee molto vissute ed amare, sviluppate con stile didascalico, con strutture iterative, e con figure retoriche dell'antitesi e della litote. In Bonifica di Natale, ad esempio, da una parte critica la società che con un vasto patrimonio di tradizioni, dalle superstizioni alle leggende, alle apparizioni degli spiriti, crea un senso infelice del mistero nelle tenere menti dei piccoli suscitando paure, terrori, disorientamenti, che segneranno la loro crescita e personalità, dall'altra parte ammette che l'individuo di ogni età non può vivere senza né le illusioni né le incognite, senza il mistero, che la vita non è vita senza il mistero. Anche in Bonifica di Natale si osserva un Buzzati che rivendica il valore dell'ignoto e del mistero, che difende il ruolo (svolto nella vita di tutti) dei sogni, dei fantasmi, delle fiabe, al punto che conclude retoricamente domandandosi e domandando al destinatario: «Come può essere sopportabile una vita che non sia piena di illusioni e di paure?» (PN, 40).

In questi racconti è una costante l'appellarsi di Buzzati al lettore ideale, una specie di sosia o di io dimezzato che traduce il dialogo in monologo, per chiedere approvazioni e consolazioni, per disquisire e analizzare, per far riflettere e comprendere, rinforzare filosofie, ossessioni, delusioni, e persino dando sfogo a sofferenze, rabbie, veleni, contro una società che si spoglia dei valori del passato e si abbandona a un futuro incerto e lugubre, il cui progresso è un regresso anche perché distrugge i sogni, le illusioni e le favole di cui ogni uomo ha bisogno. In certi racconti Buzzati si aggrappa alle illusioni come forza, necessità, e conforto; illusioni che la ragione cerca di distruggere, ma che il cuore coltiva e conserva. Come si nota in Che scherzo! Un componimento in versi in cui Buzzati ironizza sull'arrivo di Gesù Bambino al quale ormai nessuno crede più, e con un tono teso a precisare che abbiamo bisogno di tutelare le passioni del cuore e della fantasia, il fascino della semplicità e del mistero, una religione che aiuta a sostenere i ritmi della vita quotidiana:

Non ci crede il capofamiglia
né lo scapolo né il coniugato
né il vecchio zio né la figlia
neppure la Mamma […]
Non ci crede neanche don Severino
il buon prevosto della parrocchia […]
E neppure ci credono i bambini
che avrebbero sufficiente ingenuità
voglia di miracoli, di fantasia
di mostri, di favole […]
E se sul serio venisse?
Silenzio! O Gesù Bambino
per favore cammina piano
nell'attraversare il salotto.
Guai se tu svegli i ragazzi,
che disastro sarebbe per noi
così colti così intelligenti
brevemente miscredenti
noi che ci crediamo chissà cosa
coi nostri atomi coi nostri razzi.
Fa piano, Bambino, se puoi. (PN, 122-123)

Buzzati auspica che il Natale sia fonte di un'illusione misteriosa molto affascinante, in particolare, per i bambini. Ma il suo temperamento umoristico spinge frequentemente a contemplare l'opposto. E perciò si ha la vicenda di un bambino che sogna un Natale incantevole con tante bellezze e ricchezze ma che non corrispondono alla realtà meschina del suo ambiente familiare (ad es. Montenero, 66).

Nel Problema del Bambino Gesù la demistificazione dell'autore si fa più aspra perché scorge una società dello spettacolo scristianizzata, in cui non si vive nessun valore, non si crede più a nulla, non si nutrono i sogni salubri ma vani, in cui tutti sanno mettersi in mostra e camuffarsi in mille maniere, sono istrioni consumati, stregoni, mentitori: i bambini fingono di credere nel "bambinello Gesù" solo per farsi riempire di regali dai familiari. Quindi ancora una volta per Buzzati il Natale d'oggi è una tragica commedia.

Il suo racconto natalizio abbonda di una miriade di sfaccettare, idiosincrasie, solipsismi, ostinazioni, e rivela la comprensione e compassione specialmente per coloro che, nelle Sante Feste, si trovano nella disavventura o nei labirinti della nostra esistenza. La patina del patetico e dell'empatia insorge nelle storie fondate sui temi della solitudine, dell'emarginazione, dei sentimenti tristi che si sperimentano a Natale e per motivi diversi anche nel nido della famiglia: «per la prima volta nella vita quella sera di Natale, benché fossimo in tanti e tutti ci volessimo sinceramente bene a vicenda, ci siamo accorti di essere soli» (PN, 106). Ne sono emblematici due racconti (Rabbia di Natale e Il cane vuoto) in cui Buzzati rappresenta la sfortuna di donne abbandonate dall'uomo amato e che trascorrono il Natale da sole e nel dolore del pensiero di lui, e se predilige l'andamento monologico è perché mira a renderle espressioni di un cinismo incalzante, a drammatizzare il fardello dell'isolamento («al terribile pranzo di Natale, per la prima volta sola» PN, 100) e della disperazione: «Un cartoncino, un biglietto da visita con due parole d'augurio che cosa gli costava mandarmelo? Anche lui è una carogna, un porco, come gli altri, Dio, Dio, perché tutto questo? […] Tutti allegri, tutti pieni di appetito. Maledetto Natale» (PN, 94). Tra i portavoce di Buzzati è molto diffuso il sentimento del Natale come una «maledizione» (PN, 103).

Per la sorprendente variazione di mezzi, di figure, e di argomenti, i suoi racconti natalizi formano un mosaico molto colorito. Rivelano l'abilità di filtrare la vita degli altri, la loro psicologia, e la testimonianza sorniona dello scrittore-cronista, in una interiorità complessa ed inquietante, attraversata da numerosi presentimenti, emozioni, stati d'animo. E fanno notare che nell'immaginazione dell'autore Natale è una favola del mistero e sempre segnica della favola della vita. Ma è soprattutto una favola del disincanto per i passi travolgenti ed irrazionali della recente storia, per il nostro modo miope di accettare le nuove forme di vita e per la nostra personalità inquieta, patologica, schizoide. Ed è la fotografia di un'Italia alla deriva nel mondo contemporaneo in balia di continui cambiamenti e metamorfosi. Un'altra fotografia di questo mondo viene scattata dalla prospettiva degli animali.

 

 

NOTE

 

1 Questo capitolo riprende alcuni motivi natalizi discussi nella "conclusione" del mio studio La penna diabolica. Buzzati scrittore-giornalista, Pesaro, Metauro Edizioni, 2005, pp. 234-251, con intento di svilupparli e di approfondirli assieme ad altri nuovi, grazie alla spinta nata dalla pubblicazione di D. Buzzati, Il panettone non bastò. Scritti, racconti e fiabe natalizie, a cura di L. Vigano, Milano, Mondadori - Oscar, 2004 (le iniziali PN e il numero della pagina nel testo rimanderanno a questa edizione). Nella sua lunga "introduzione", Gli strani Natali di Dino Buzzati, ibid., VII-XXXIX, il curatore ripercorre le tappe più importanti della carriera del Buzzati giornalista e dei Natali che egli trascorre al lavoro in redazione in Via Solferino o in giro per il mondo come inviato speciale, accennando alle tematiche principali della sua opera, e ricordando i cliché natalizi della letteratura europea dell'Ottocento e dell'inizio del Novecento. P. Zambon, I racconti di Natale di Buzzati, in Buzzati giornalista, a cura di N. Giannetto, Milano, Mondadori, 2000, pp. 391-409, ha affrontato quest'argomento, ma ci sembra con poco discernimento critico.

2 Come Notti di dicembre, Palermo, Sellerio Editore, 2001; Natale d'autrice, Milano, San Paolo, 2002; Misteri di Natale, Milano, San Paolo, 2004; Delitti di Natale, Milano, Polillo, 2004; Natale con i grandi scrittori europei, Milano, Edizioni Paoline, 2004; Racconti di Natale, Torino, Einaudi, 2005.

3 Per ulteriori informazioni a proposito si veda il capitolo "IV La cronaca italiana" del mio testo, La penna diabolica. Buzzati scrittore-giornalista", cit., pp. 89-114, che analizza varie forme dei misteri buzzatiani, in particolare come il mistero della realtà quotidiana è connesso ai misteri delle forze occulte della natura, ai misteri dei quali non si conosce nulla o se ne sa ben poco, come quelli della seduta spiritica.

4 Si veda G. Pontiggia, Il residence delle ombre cinesi, Milano, Mondadori, 2004, pp. 19-28.

5 Di cui Buzzati parla nelle sue Lettere a Brambilla, Novara, De Agostini, 1985, pp. 48-50, e in Dino Buzzati: un autoritratto. Dialoghi con Yves Panafieu, Milano, Mondadori pp. 28-31. Nei riguardi del racconto di Natale della nostra tradizione contemporanea si veda P. Zambon, I "racconti di Natale" nella narrativa dell'ultimo Ottocento: Marchesa Colombi, Emilio De Marchi, Contessa Lara, Grazia Deledda, in Letteratura e stampa nel secondo Ottocento, Alessandria, Edizioni Dell'Orso, 1993, pp. 97-124.

6 Per ulteriori informazioni si veda il "Capitolo II. La cronaca africana" nel mio testo La penna diabolica. Buzzati giornalista-scrittore, cit., pp. 33-58.