IL CRISTALLO, 2012 LIV 1 [stampa]

FEDERICO GARCIA LORCA, La casa de Bernarda Alba,
Catedra-Letras Hispànicas, Madrid, 1936

recensione di EUGEN GALASSO

Eccelsa quest'edizione, per la cura (importante a livello storico-filologico ma anche ermeneutico, il lungo studio introduttivo) dell'ispanista Francisca Vilches de Frutos, che ricostruisce tutte le molte varianti, particolarmente in un testo teatrale, destinato non alla pubblicazione, ma allo studio da parte della compagnia e poi alla recitazione degli attori, più in genere alla messa in scena e non prioritariamente alla pubblicazione, come sa chi abbia anche solo una vaga idea di che cosa sia il teatro. In specie, poi, considerando l'anno di scrittura del grande capolavoro teatrale del poeta e drammaturgo granadino, che è quello della morte (1936, dove la data apposta dall'autore alla conclusione del testo è il 19 giugno di quell'anno), avvenuta in circostanze mai totalmente chiarite, ma certamente durante la guerra civile spagnola, ad opera delle squadracce falangiste-franchiste, Lorca non poté rivedere il testo. Eccelsa la descrizione di "La casa..." come sintesi (quanto a influenze) della tragedia greca classica, del grande teatro spagnolo del "Siglo de Oro" (Lope de Vega, Calderon de la Barca) e dei drammi rurali andalusi, eccelsa la ricognizione sul teatro politico (Garcia Lorca rifuggiva da ogni demagogismo teatral-politico), la caratterizzazione della volontà lorchiana di un teatro preciso, dettagliato, quasi naturalistico. Lorca scriveva non solo le didascalie della pièce, ma arrivava quasi a "scriverne" le scenografie, dettagliandole e descrivendole. Quanto al testo della "Casa", esso risalta nella sua terribilità, fatta di pregiudizi anti-femminili introiettati da Bernarda e dalla sue figlie, di pregiudizi pseudo-religiosi, intrisi di occultismo di bassa lega, con un forte back-ground anti-maschile, che Bernarda porta con sé dalla sua tragica esperienza di vita. Che poi la casa della due volte vedova, che non lascia entrare nessuno e ha un atteggiamento ostile verso il mondo, sia metafora della Spagna dell'epoca, che Lorca critica, è forse altro, essendo la condizione della donna un tema bastevole per una rivendicazione forte di libertà; ma rimane la concezione di fondo di questo «Drama de mujeres en los pueblos de Espana», disperatamente abbarbicato all'idea di libertà e di "auto-nomia" (da "autòs-nòmos", regolazione data dalla persona stessa) della persona, per cui la metafora (non solo politica, però, ma in primis etica, culturale) s'impone comunque in ogni senso e impregna di sé ogni possibile ulteriore interpretazione. Meglio diremmo, invero, che la "descrizione drammaturgica", quasi "fotografica", aggettivo a cui peraltro Lorca tiene, e la metafora qui s'intrecciano, fondendosi. Il testo, poi, nel senso dei dialoghi (il testo teatrale, notoriamente, è altro, il complesso dei segni scenici, musicali, della mimica e della prossemica etc.), è estremamente semplice, diretto, e proprio nella semplicità estremamente espressivo, riferendosi anche a tutto il repertorio "magico" di cui era e in parte tuttora è composta la cultura andalusa. Che poi solo due donne, tra cui una delle figlie ma soprattutto l'anziana madre di Bernarda, Maria Josefa, si facciano paladine della rivendicazione di libertà, esemplifica una condizione che è quella di "servitù volontaria" che Etienne de la Boétie descriveva già esemplarmente nel 1500, che però rimasero intatte fino al 1900 e in gran parte del mondo fino ad oggi...