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Leonello Vincenti

Il teatro tedesco del Novecento
 

Postfazione di Cristina Grazioli

Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2017, pp. 86

“In nessun campo artistico lo spirito tedesco sperò, dopo la guerra disgraziata di cogliere una più rapida e clamorosa rivincita come in quello della drammaturgia”. Così inizia Il teatro tedesco del Novecento scritto nel 1925 da Leonello Vincenti, germanista collaboratore della rivista “Il Baretti” fondata da Piero Gobetti. Lo scritto, oggi felicemente recuperato nell’ambito del progetto ideato dal Comitato Edizioni Gobettiane, costituisce una preziosa testimonianza del modo in cui un attento e erudito osservatore italiano si sia rapportato alla coeva scena tedesca degli anni Venti maturata nel clima febbrile della Repubblica di Weimar. E le sorprese non mancano.

Vincenti fa tabula rasa della molteplicità delle esperienze teatrali tedesche e riconosce solo l’Espressionismo quale autentico “segno dei tempi” ma privo di dignità artistica. Lo studioso, prima individua in Wedekind e in Strindberg i due pilastri ispiratori – il primo per aver raccontato i lati oscuri dell’istinto umano, il secondo per l’assunzione della visione estatica come rappresentazione del dolore; poi sviluppa un percorso storico all’interno della drammaturgia espressionistica basandosi sull’analisi dei testi e sulla ricostruzione dei profili dei vari autori. Ne coglie lucidamente l’essenza creativa – “protagonista ed autore coincidono” – ma la contesta duramente perché la considera di ostacolo alla resa universale delle tematiche trattate, dal rapporto conflittuale padre-figlio alla catastrofe della guerra. Il primato del soggettivismo produce una rappresentazione astratta della realtà e genera un linguaggio metafisico.

In questo modo Vincenti interpreta Il figlio di Hasenclever (“l’artificio è pietoso, al pari della retorica dei discorsi”), Battaglia navale di Goering, Trasformazioni di Toller (“già l’elenco dei personaggi sa di romanzo triviale”). Fa eccezione Fritz von Unruh, del quale dice: “il poeta sa sempre meno fermamente resistere all’ebbrezza titanica e vede farsi sempre più disperata e confusa la sua religione al dovere”. Pungente è il giudizio su Brecht e Kokoschka, manifestazioni di violenza e sensualità “crasse in una sorta di assai grossolano naturalismo”. Valutazioni positive spettano invece a Georg Kaser perché, “mentre i suoi colleghi amano indugiare nella novissima Arcadia, vaneggiando sentimenti e sentimentalismi”, l’autore di Gas I e II “mette nel centro del mondo il suo cervello”. La sua indagine dell’uomo costituisce l’unica e vera sostanza creativa dell’arte espressionista.

Per capire a fondo i riferimenti culturali, gli obiettivi e la recezione di questa storia del Teatro tedesco del Novecento concepita dal versante italiano dove la cultura dominante e la pratica dello spettacolo erano di fatto del tutto estranei alle ricerche dell’avanguardia tedesca, è fondamentale leggere la Postfazione di Cristina Grazioli. In poche ma illuminanti pagine offre al lettore gli strumenti necessari per una corretta comprensione di questo testo pionieristico capace di accompagnare ad un giudizio fortemente negativo sull’esperienza dell’Espressionismo una pregevole ricostruzione sulle caratteristiche e le peculiarità intellettuali dei suoi protagonisti.

Perciò contributi come quelli di Vincenti, pur di oltre novant’anni fa, oggi sollevano una domanda non trascurabile, ben posta dalla stessa Grazioli: “Con questa distanza si è difesa una specificità del teatro italiano o qualche cosa di irrecuperabile è andato perso?”.

                                            di Massimo Bertoldi

 

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