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LIBRI

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Paolo Caponi

Otello in camicia nera
Shakespeare, la censura e la regia nel Ventennio fascista

 

Roma, Bulzoni, 2018, pp. 134.

 

Come nelle scatole cinesi, Paolo Caponi posiziona alla fine del suo intrigante libro l’argomento anticipato nel titolo, Otello in camicia nera per dimostrare che “Shakespeare diventa terreno di incontro e scontro di una nuova concezione del teatro: è grazie a Shakespeare che si conosce, anche in Italia, un’applicazione pratica dei nuovi principi” della regia.

Si inizia con l’analisi della censura fascista verso i libri accusati di offendere le forze armate, lo Stato, il regime, la monarchia, secondo il modello assunto dal nazismo. La repressione culmina con l’istituzione della Commissione per la Bonifica Libraria (1938) che bersaglia soprattutto gli scrittori ebrei. Ma l’azione epurativa non è né semplice né lineare come si capisce osservando il campo teatrale. Nel lavoro del competente prefetto Leopoldo Zurlo, che in tredici anni esamina ben 18.000 copioni, scattano contraddizioni grandi e piccole prodotte dalla Storia.

Per esempio la reazione alle sanzioni economiche a danno dell’Italia per la condotta della campagna d’Etiopia impone nel 1935 alle compagnie teatrali il divieto di rappresentare testi di autore francese e inglese ad eccezione di Shaw per aver manifestato apprezzamenti (poi smentiti) verso il regime fascista e di Shakespeare in quanto considerato un “classico”.

La questione si complica con il moro Otello nel momento in cui sulla scia dell’ondata razzista che significa espulsione dei “mori” dal palcoscenico, il censore Zurlo interviene con drastici divieti tra i quali spicca la ripresa della Regina Pomaré di Ugo Falena e di Rino Alessi e Gutlibi di Gioacchino Forzano, scrittore molto legato a Mussolini. Shakespeare – spiega Caponi – è assimilato allo spettacolo italiano tramite la mediazione di Giuseppe Verdi. Il suo Otello trionfò a La Scala nel 1887 e diventò patrimonio popolare durante il Fascismo. Tuttavia negli anni Trenta il repertorio del Bardo trasferito sul palcoscenico è soggetto a cambiamenti: vicino alle manipolazioni testuali orchestrate dai cosiddetti Grandi Attori o Mattatori di tradizione, avanza una attenta e rigorosa revisione filologica intorno alla quale matura il teatro di regia che, pur in ritardo rispetto alle coeve realtà europee e accompagnato da un aspro dibattito, produce in Italia i primi esperimenti.

Uno di questi è condotto da Pietro Sharoff, regista russo ma italiano di adozione e autore di un celebre allestimento di un Otello nel cortile di Palazzo Ducale di Venezia (1933) che diventa scenografia “naturale” dello stesso intreccio narrativo. Ma l’elemento innovativo più importante è il mutamento dell’attore: non più l’istrionismo del Mattatore ma il ruolo aderente alle pieghe del testo secondo il principio di immedesimazione teorizzato da Stanislavskij e introdotto in Italia dallo stesso Sharoff. “Sapevano tutte le parti a memoria, essendo stato soppresso qualsiasi ausilio del suggeritore”, scrive Giacinto Matteucci per “L’Arte Drammatica”.

Questo Otello realizzato secondo i dettami della regia è proposto al pubblico dell’Eliseo di Roma e qualche mese dopo al teatro Argentina il Moro veneziano è assunto da Mario Ricci, regista e protagonista che incarna “l’antico modello dell’attore che clama, che canta, che incede, che trascende, rinsaldando la catena di una tradizione quanto mai nobile e forte, mediterranea e nazionale”, commenta Mario Ramperti per la rivista “Scenario”.

In questo confronto a distanza tra i due Otello si muovono le due anime del coevo teatro italiano sospeso tra conservazione della centralità del Grande Attore e apertura al teatro di regia che significa innovazione e adeguamento alla cultura europea. E questo crea un certo turbamento e una inquietante confusione di identità che il libro di Caponi inquadra con illuminante maestria.

 

                                        di Massimo Bertoldi

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