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Mai morti

di Renato Sarti
 

 

Imola, Cue Press, 2018, pp. 43

 

Circolano testi teatrali che valgono un manuale di storia per il modo in cui articolano la ricostruzione e il racconto il flusso caotico di azioni collettive di matrice ideologica. Se poi l’onda silenziosa del passato bagna le spiagge del nostro presente, l’incontro tra il Teatro e la Storia diventa una visione e uno strumento che aggiunge preziosi tasselli per arricchire la conoscenza e la decodificazione di un sistema perverso e aggressivo intorno al quale gravitano uomini di ieri e di oggi.

È il caso di Mai morti di Renato Sarti. Scritto all’inizio del 2000, poi migliorato e rifinito per la produzione del Teatro dell’Elfo nel 2002, è stato per molti anni il fiore all’occhiello del Teatro della Cooperativa. L’escamotage narrativo assunto da Sarti è un uomo vecchio, nella sua stanza che, sorseggiando whisky e assumendo medicine, anima un incredibile-credibile racconto autobiografico che inizia con una precisa domanda: «la morte per strage – banche, piazze, stazioni, piazze, treni – di poveri innocenti può forse arrestare il corso della storia e dei suoi mutamenti?», alludendo alle stragi del terrorismo fascista avvenute in Piazza Fontana di Brescia e alla stazione di Bologna. In merito il monologo di Sarti intende cercare, nel groviglio della Storia, i fili primordiali della matassa della violenza e di certo odio contemporaneo.

Non a caso il protagonista è un ex ufficiale squadrista appartenente ai “Mai Morti”, nome di una delle più violente compagnie della Decima Mas, corpo militare indipendente che si unì all’esercito nazista dal 1943 al 1945 in opposizione alla Resistenza italiana, distinguendosi per azioni di truce terrorismo e macchiandosi di crimini di guerra e contro l’umanità.

Il suo è un delirante ma autentico monologo di violenza vissuta come naturale manifestazione di un meccanismo vorticoso in cui egli stesso si identifica e che intende tenere in vita. Per esempio ricorda una serata accomodato in platea al Piccolo Teatro di Milano non per parlare di spettacolo ma per rievocare le urla strazianti per le torture patite da parte degli oppositori del regime nelle celle che ora sono i camerini per gli attori. Oppure celebra, tra gratificazione e nostalgia, lo sterminio della comunità copta di Debrà Libanòs e i massacri nel campo di concentramento italiano di Danane. la conclusione del suo discorso è tanto coerente quanto segno di delirio criminale: «in Africa abbiamo ucciso quasi un milione di negri? Sicuro! C’è chi dice due. Non c’è acqua, figurarsi l’anagrafe…come si fa a calcolare? Facciamo uno». Lo stesso atteggiamento ritorna quando si parla di eccidi di partigiani nel Canavese («la maggioranza dei sopravvissuti alle torture veniva fucilata, come nella migliore tradizione della Decima, alle spalle»).

Mai morti non finisce qui. Continua con l’aggiornamento del passato del protagonista al presente. Ecco quanto rivela: «faccio parte del comitato promotore per un gruppo di cittadini dell’ordine» contro «negri, puttane, omosessuali, alcolizzati, drogati, spacciatori, ebrei zingari, extracomunitari» e anche contro le onlus, «a quelle gli facciamo un culo quadro così…prima gli italiani, prima gli italiani!». Più chiaro e attuale di così..

Privo di retorica, sostenuto da un linguaggio efficace e diretto, Mai morti di Sarti assurge a mirabile esempio di vero teatro civile grazie ad un testo costruito sullo studio approfondito delle fonti storiche relative agli orribili fatti raccontati con lucidità e schiettezza e, soprattutto, consegnati a quella memoria che porta alla consapevolezza dell’orrore, allo smascheramento di scomode verità sempre nascoste. E Sarti e Bebo Storti che interpreta in monologo in scena ci fanno capire i tanti perché.

 

                                       di Massimo bertoldi

 

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