home la rivista IL CRISTALLO newsletter RECENSIONI Chi siamo contatti newsletter
 

LIBRI

  torna all'elenco delle recensioni       

Il Verbo

di Kaj Munk
a cura di Franco Perrelli

 

Imola, Cue press, 2020, pp. 59

Il verbo di Kaj Munk è considerato uno dei testi più importanti del teatro scandinavo, tanto da permette all’autore di essere avvicinato a Ibsen e Strindberg e di ambire al premio Nobel. Autore di una settantina di commedie, Munk è un personaggio drammaticamente particolare: convinto Pastore protestante attivo dal 1924 in un piccolo villaggio rurale dello Jutland occidentale, si dimostra in questi anni vicino a idee filofasciste poi diventa sostenitore della Resistenza tanto da essere assassinato dai nazisti nel 1944 durante l’occupazione della Danimarca.

Scritto in pochi giorni nel 1925 e rappresentato solo nel 1932 (regia di Betty Nansen) per via delle indecisioni del Teatro Reale di Copenhagen che lo aveva richiesto, il testo fece molto discutere, dividendo pubblico e critica come bene ricorda Fanco Perrelli, cui compete anche la traduzione, nell’introduzione al volume pubblicato da Cue Press. In ambito nordico il tema dominante di questo dramma inedito per l’Italia era verosimilmente sentito: il conflitto accesso tra contrastanti correnti interne al protestantesimo, unitamente allo scontro, altrettanto vivace, tra medicina e fede, trasferiti da Munk nella tenuta del vecchio Mikkel Borgen dove, oltre a problematiche legate ad un matrimonio negato sempre per divergenze spirituali, si vive un’esperienza tanto incredibile quanto emblematica.

La moglie del primogenito inaspettatamente muore per parto ma nel corso della cerimonia funebre si rialza dalla bara per effetto della richiesta avanzata da Johannes, studente di teologia mosso da profonda convinzione religiosa ma da tutto considerato estremo, pazzo. Scattano i meccanismi dell’ambiguità finemente geniale e paradossale che alimenta due opposte vedute: quella del miracolo divino e quella del dottore sostenitore di una manifestazione di morte apparente. Si anima un dialogo di poche battute che non risolvono il dilemma.

Molto legato alle idee radicali di Soren Kierkegaard e al dramma Al di là delle forze di Bjørnstjerne Bjørnson, Il Verbo fu tradotto in film da Carl Theodor Dreyer nel 1954-1955 che in un certo senso oscurò il successo del testo di Munk. Ricorda il regista, dopo essere stato affascinato come spettatore di una rappresentazione teatrale: «Mi incantò anche la disinvoltura con cui l’autore esprimeva le sue idee paradossali». E aggiungeva: «Bisogna rispettare Kaj Munk e al tempo stesso liberarsene […]; capire Kaj Munk fino in fondo e poi dimenticarlo».

Capire Munk oggi non è facile, tanta è la distanza che ci separa dalla complessità di quelle problematiche teologiche e spirituali, eppure la lettura de Il Verbo appassiona non poco per la forza e la delicatezza della parola, cruda ed evocativa, mistica e di brutale realismo.

 

                               di Massimo Bertoldi

 

  torna all'elenco delle recensioni