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Lo spettacolo asservito
Teatro e cinema in epoca fascista

di Pasquale Iaccio
prefazione di Guido D’Agostino

Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2020, pp. 158


È sulla gestione dello spettacolo che il fascismo definisce e consolida la politica del consenso attraverso forme di maneggiamento e controllo palese o occulto, comunque efficace. I meccanismi della censura, da un lato, e di promozione della retorica di regime, dall’altro, attraverso la forza comunicativa e partecipativa di teatro, cinema e radio, costituiscono l’oggetto di ricerca di questo fondamentale e accattivante contributo di Iaccio che segue l’evoluzione storica del processo evidenziando le difficoltà operative e le tante contraddizioni sottese agli obiettivi del totalitarismo culturale.

I passaggi decisivi sono due: nel 1931 alle prefetture locali viene limitata l’azione censoria sempre più indirizzata verso una dimensione centralizzata tanto che nel 1935 è direttamente gestita dal Ministero della Stampa e Propaganda. Il destino di drammaturghi, attori e capocomici era di fatto nelle mani dell’infaticabile censore Leopoldo Zurlo, ex prefetto non completamente asservito al regime («lo guardava con una sorta di aristocratico distacco», scrive Iaccio) e dotato di un’ampia conoscenza in campo teatrale, soprattutto lettore attento di oltre diciassettemila testi valutati dal 1931 al 1943. Si trattava prevalentemente di lavori di dilettanti, di produzioni minori di teatro regionale e popolare, spesso bocciati per eccesso celebrativo oppure per scarso valore letterario. Zurlo cancella dai testi le scene relative a suicidi, incesti, omosessualità, aborti, postriboli.

Anche il pubblico, adeguatamente addestrato, poteva diventare un attendibile ed efficace censore, con fischi e intimidazione durante gli spettacoli. Per drammaturghi affermati e compagnie primarie, il controllo funziona attraverso l’elargizione dei contributi statali; oppure la censura si attiva tramite l’emarginazione “vigilata” se il soggetto in questione è una celebrità anche all’estero. È il caso del napoletano e sincero oppositore al regime Roberto Bracco, al quale Iaccio dedica uno splendido capitolo: l’arma è la sua esclusione da qualsiasi attività pubblica, dal teatro al giornalismo, come dimostrato dalla tormentate vicende legate alla rappresentazione della commedia I pazzi avvenuta solo nel 1947 o al progetto naufragato de Il Piccolo Santo cui ambiva il giovane Peppino de Filippo.

Se il teatro fascista realizza progetti e spettacoli di massa a fini educativi e propagandistici (Il Sabato Teatrale, I Carri di Tespi, ecc.), analoghe finalità sono demandate anche al cinema prossimo ad affermarsi come industria in concorrenza con il teatro. In merito Iaccio segue lo sviluppo del processo storico-culturale a partire dal declino del cinema regionale rappresentato soprattutto dal pionierismo napoletano dei fratelli Troncone e proseguito da Vincenzo Scarpetta e Elvira Notari. Di fatto i prodotti del cinema di regime, inteso come cassa di risonanza dei valori e dei miti della dittatura, sono frammentari e deludenti a livello artistico, come Vecchia Guardia di Alessandro Blasetti o Camicia Nera di Giovacchino Forzano.

Significativamente Iaccio dedica un capitolo piuttosto interessante al poeta Alfonso Gatto, critico cinematografico tra il 1937 e il 1938 per la rivista fascista “Il Bargello”. Sulla scia del neonato rapporto tra grande schermo e letterati (diversi diventano all’occorrenza sceneggiatori come Pirandello o D’Annunzio), Gatto rappresenta la figura dello scrittore-recensore non apertamente schierato: dotato di uno stile alto e raffinato, matura infatti un atteggiamento critico libero e fedele al suo gusto estetico capace di cogliere le peculiarità dell’opera.

Lo spettacolo asservito, oltre a qualificarsi come ricerca di alto valore storico e scientifico, ha la forza di sprigionare domande e riflessioni anche sul nostro presente circa la sopravvivenza di frammenti, grandi o piccoli, ereditati dal Ventennio fascista.
 

                                di Massimo Bertoldi

 

 

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