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Piccola trilogia della morte

di Maurice Maeterlick

 

a cura di Luca Scarlini
Imola (Bo), Cue Press, 2021, pp. 55

 

Indiscusso maestro del simbolismo, Maurice Maeterlinck è noto soprattutto per Pelléas et Mélisande (del 1892, poi tradotta in musica da Debussy) e L’uccellino azzurro (1909) che, tra l’altro, gli hanno permesso di ottenere il Premio Nobel per la Letteratura nel 1911. Si tratta di opere maggiori che preludono a certe visioni e linguaggi sperimentali praticati nel Novecento, da Samuel Beckett a Tadeusz Kantor, da Jan Fabre a Jon Fosse.

Il laboratorio dello scrittore belga aveva già prodotto una sorta di antefatto quando fu pubblicata la raccolta di tre atti unici La piccola trilogia della morte. Era il 1891. In un periodo dominato dalle commedie tardo romantiche e dalle commedie di stampo naturalistico, questi testi sembravano delle meteoriti arrivate dal nulla «anche se le primattrici dell’epoca fecero di tutto per rappresentarli», ricorda Luca Scarlini nell’introduzione del volume da lui stesso curato e tradotto.

Il tessuto narrativo è dominato da dialoghi sospesi e pregni di attesa, animati da personaggi in bilico tra l’umano e l’etereo, immobilizzati e ansiosi, sospinti dal volere vedere la fioca luce di una candela in un universo buio.
osì il protagonista de L’intrusa è un cieco veggente: «io vedo cose che voi non vedete», urla ai suoi famigliari raccolti nella sala «molto scura in un vecchio castello» e angosciati per le sorti di un parto complicato, frutto di matrimonio consanguineo, che mette a rischio la vita della donna. I personaggi sibilano le parole, domina il silenzio della morte, dall’esterno si percepiscono rumori e suoni sinistri.

In un’atmosfera dal sapore bruegheliano si consuma il secondo dramma, I ciechi: in una foresta, di notte, un gruppo di ciechi guidati da un prete aspetta l’arrivo di qualcuno che li riporti nell’ospizio. Il reticolato dei simboli inserisce nei loro dialoghi di attesa e speranza, paura e smarrimento, il volo di uccelli migratori, i tuoni e il vento impetuoso che porta la neve. Anche se il prete muore, sembra che l’arrivo improvviso del cane dell’ospizio costituisca la salvezza per questi non vedenti, tuttavia a ogni loro piccolo movimento fisico segue il dolore provocato dai rovi circostanti fino a quando sopraggiunge un imprecisato essere minaccioso e funesto.

Non ci vedono nemmeno Le sette principesse del terzo e conclusivo atto unico. Dormono, colpite da un misterioso morbo tenendosi per mano «in abiti bianchi con le braccia nude […] sui gradini [della sala di marmo] adorni di cuscini di seta pallida». Le osservano il Re, la Regina e il Principe azzurro giunto da lontano con l’intento di sposare una di loro, Ursule. La scena è in chiaro scuro, i personaggi sembrano fantasmi, la parola disegna traiettorie di ossessioni e di smarrimento. Grazie all’azione del Principe, tutte le dormienti si svegliano ad eccezione di Ursule. «Un sipario nero cade bruscamente», informa la didascalia conclusiva.

Opera visionaria e a tratti fiabesca, caratterizzata da sottili e delicati interscambi tra suoni e parole, La piccola trilogia della morte parafrasa la sconfitta dell’eroe moderno declinata in un ventaglio di azioni frustrate da nemici e ostacoli superiori e invisibili. Ed è questo il tratto della sua sorprendente modernità.

 

                          di Massimo Bertoldi

 

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