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SPETTACOLI E MOSTRE

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DANTE

di Pupi Avati


Il viaggio di Boccaccio a suor Beatrice[1]

Se la Divina Commedia si configura come il viaggio del pellegrino Dante attraverso i regni ultraterreni, verso Beatrice e il ricongiungimento con Dio, anche l’ultimo film di Pupi Avati, Dante, (uscito nelle sale lo scorso 29 settembre, 90 minuti) può essere interpretato attraverso un’analoga metafora (sebbene quando si parla di Dante la parola che viene subito alle labbra è piuttosto allegoria). Protagonista un Giovanni Boccaccio (Sergio Castellitto) di mezza età («nel mezzo del cammin di nostra vita», If I 1) che intraprende, nell’anno 1350, un viaggio da Firenze a Ravenna, incaricato dai Capitani di Orsanmichele di consegnare dieci fiorini d’oro «a titolo di risarcimento tardivo» all’unica figlia di Dante ancora in vita, suor Beatrice (Valeria D’Obici), al secolo Antonia, monaca presso il convento di Santo Stefano, in quella città che fu anche l’ultimo rifugio del padre. Sono passati infatti quasi trent’anni dalla morte del poeta, nella notte tra il 13 e il 14 settembre 1321, quando spirò tra i deliri della febbre malarica in un casolare nei pressi di Pomposa – nella finzione filmica – mentre tornava a Ravenna da un’ambasceria a Venezia per conto dei signori Da Polenta suoi ospiti.

Accordato il perdono postumo da parte di quella Firenze che lungamente aveva esiliato il suo figlio più illustre, è Boccaccio la figura più adatta a compiere la missione di  consegna dei fiorini: lui, «appassionato didattico» delle opere dantesche, che considera Dante alla stregua di un padre e colui a cui deve l’amore per la poesia, come rivela a suor Beatrice nella scena finale, durante il loro incontro notturno nel chiostro del convento di Santo Stefano. Vengono in mente le parole di Dante al «dolce padre»[2] Virgilio, nel primo canto dell’Inferno: «Tu se’ lo mio maestro e ’l mio autore, / tu se’ solo colui da cu’ io tolsi / lo bello stilo che m’ ha fatto onore» (vv. 85-87).

Come Virgilio conduce Dante attraverso l’Inferno e il Purgatorio verso Beatrice, guida eletta invece del Paradiso, sarà Boccaccio stavolta a essere guidato da Dante verso un’altra Beatrice, che proprio in onore della prima prese il suo nome di monaca: una presenza, quella di Dante, non sotto forma di spirito al cospetto del pellegrino, come Virgilio, ma evocato costantemente attraverso i luoghi visitati e le persone incontrate, i quali offrono l’occasione per l’avvio dei numerosi flashback intarsiati nella trama principale, che narrano la vita del poeta dalla fanciullezza a Firenze fino ai difficili anni della maturità e dell’esilio.

Proprio la formula del racconto raccolto dal pellegrino lungo il suo andare ricorda ancor più da vicino la Commedia, costellata dei frequenti dialoghi con le anime che narrano volentieri la loro storia; e alcune di quegli episodi più amati emergono talvolta dagli scambi di battute o dalla voce del narratore: la tragica storia d’amore e di morte di Francesca e Paolo, che un giovane e commosso Dante ascolta dal fratello di lei, presente tra i soldati intorno al falò la sera prima della battaglia di Campaldino, o l’altrettanto cupa vicenda del conte Ugolino, che la voce narrante riporta essere stata conosciuta dal poeta grazie al racconto della figlia Gherardesca, quando egli era suo ospite nel castello di Poppi.

Ma del viaggio mistico quello terreno di Boccaccio ha in comune anche le fatiche e le difficoltà del peregrinare, che bene esemplificano scene come quella dei cavalli che arrancano con difficoltà su per l’erta che conduce all’abbazia di Vallombrosa, o certe scelte del protagonista, come far testamento o raccomandarsi al cocchiere di riportare il borsellino con i fiorini a Firenze se mai gli accadesse qualcosa durante il viaggio.

E infine c’è una parola, quelle «stelle» non a caso evocate nelle battute finali, quando suor Beatrice asserisce come il padre sapesse «il vero nome di tutte le stelle»: è la parola con cui terminano tutte e tre le cantiche della Divina Commedia.

La poesia nasce dal vissuto quotidiano

Giovanni Boccaccio è stato il primo intellettuale a dedicarsi con passione allo studio e alla divulgazione delle opere di Dante. Famose le sue letture pubbliche a Firenze (Esposizioni); copiò di sua mano la Commedia e la Vita nova; fu grazie a lui se la Commedia diventò Divina – quando Dante la chiamava semplicemente Comedìa, alla greca. E fu il primo biografo del poeta, in quell’operetta intitolata Trattatello in laude di Dante, la cui abbondanza di informazioni sulla sua vita si fondano sulla testimonianza diretta di persone che lo avevano conosciuto.

Il Boccaccio di Pupi Avati è un personaggio consapevole di tutto questo: per tutta la durata della pellicola, Castellitto riesce a esprimere la profonda devozione del discepolo per il maestro. Emblematica la scena finale già rievocata, ma significativa è anche quella in cui il trottare regolare della carrozza offre lo spunto per recitare dei versi di un sonetto della Vita nova, una «bellissima poesia» come afferma il poeta al cocchiere incuriosito: «Cavalcando l’altr’ier per un cammino, / pensoso de l’andar che mi sgradia, / trovai Amore in mezzo de la via» (Vn IX 1-3). Momenti del film come questo testimoniano come perfino la poesia più sublime nasca sempre dall’esperienza del vissuto, dalla concretezza dell’esistere qui nel mondo. Ed è proprio l’umanità, anche nei suoi lati più infimi e triviali, che quest’opera vuole rappresentare, spogliandola di ogni rappresentazione enfatica con cui talvolta la scuola ci abitua a immaginare i poeti e le loro creazioni letterarie.



Vi è infatti sulla scena un Boccaccio stanco ed esitante, che teme la malriuscita dalla sua missione, con le vesti sporche e le mani rose dalla scabbia, tormentato dal fresco ricordo della Peste Nera (e sembra quasi uscire dallo schermo il tanfo dei cadaveri della Torre del Guarda Morto).

Ma soprattutto vi è un Dante (Alessandro Sperduti) autentico, liberato dalla pomposa retorica del Poeta laureato, idolo intoccabile della Letteratura: il Sommo poeta. Si riscopre così la sua essenza di uomo: che è stato ragazzo, che ha amato, che ha pianto, che ha visto la morte e il sangue della guerra, che ha generato figli, che ha vissuto momenti di miseria e di umiliazione, e momenti di goliardia con gli amici. La più trivia gestualità quotidiana trova spazio sullo schermo senza compiacimento, ma per rappresentare la verità della vita: dietro l’epicità della battaglia di Campaldino ci sono uomini che defecano lungo un ruscello e che cercano ristoro tra le braccia di una prostituta, dietro la sacralità del matrimonio cristiano c’è l’imbarazzo della prima notte di nozze e una moglie insoddisfatta del marito che non porta il pane a casa.

Vi è poi una Beatrice (Carlotta Gamba) sensuale, ammaliante, che perde l’evanescenza della donna angelo per acquistare la tangibilità di creatura terrena: una giovane del Medioevo che condivide con tante altre coetanee l’infelice sorte di un matrimonio imposto e di una morte precoce. Di grande pregnanza in questo senso diviene lo sguardo rassegnato dritto allo spettatore che rompe la quarta parete, nella scena della prima notte di nozze, quando un irsuto e poco avvenente Simone de’ Bardi irrompe nudo nel letto coniugale.

Presagio infausto che prelude al destino di morte di Beatrice (su cui è costruita tuta la Vita nova) è la presenza ricorrente di una inquietante bambola nuziale, la cui apparizione è sempre accompagnata da una musica da brivido (di gusto gotico la scena delle damigelle che sussurrano insistentemente a Beatrice di baciare il feticcio per propiziare fertilità e felicità): giustamente Violante, figlia illegittima di Boccaccio, ne proverà orrore («sembra un bambino morto») e la seppellirà in un cumulo di terra.

L’altro matrimonio che compare nella narrazione è quello tra Dante e Gemma Donati (Ludovica Pedetta); la sposa del poeta è fin da subito l’antitesi di Beatrice: se questa giunge all’altare silenziosa e remissiva, l’altra si dimena urlando nella sagrestia; la prima notte di nozze, rotto l’imbarazzo iniziale, si rivela piacevole, sotto le lenzuola riscaldate dal braciere.

È poi Gemma una moglie vivace e pungente, piena di vita e fertile, che dà al poeta tre figli in salute, Iacopo, Pietro e Antonia. Avrà vita lunga: i vicini di casa Alighieri a Firenze la ricordano ancora come una donna ormai anziana e sola, mentre piange i figli in esilio con il padre.

Altro grande personaggio della biografia dantesca è Guido Cavalcanti. Dell’amicizia tra i due poeti sono toccati i punti salienti: il loro primo incontro, quando un affascinante Guido (Romano Reggiani) consegna personalmente a Dante una sua poesia, in risposta a un sonetto di questi (sarà il primo componimento della Vita nova, dedicata proprio al «primo de li suoi amici», Vn III 14); il sodalizio poetico e umano – combattono insieme nella battaglia di Campaldino e hanno avventure in una casa di piacere improvvisata; la tragica rottura, quando Guido viene esiliato da Firenze dai priori, tra cui lo stesso Dante. Farà ritorno solo da morto, ammalatosi poco dopo l’allontanamento dalla città; e mentre Dante si avvia a porgere l’ultimo saluto all’antico amico, risuonano fuori campo i versi del sonetto «Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io» (Rime, LII), una delle canzoni simbolo dello Stilnovo e dell’affetto che legò i due poeti.

Il Medioevo come connubio di corpo e spirito

Ma la carnalità nuda e cruda rappresentata sullo schermo raffigura anche parte dell’essenza di un’epoca.

Il film di Avati, infatti, riesce a esprimere il senso ultimo del Medioevo come connubio di corpo e spirito, come è anche tutta la poesia di Dante. Poiché dall’altro lato della corporalità, dei miasmi persistenti della peste, della corruzione e delle ambiguità della Chiesa, delle faziosità politiche e del sangue della guerra, delle cerimonie religiose venate di misticismo e superstizione, si alternano le forme schiette e armoniose delle architetture romaniche, tra chiese e castelli, mosaici e affreschi, lo snodarsi dei vicoli e degli interni in pietra, le campagne incontaminate percorse a dorso di cavallo.

Complici le ambientazioni senza tempo tra Emilia-Romagna, Lazio e Umbria, e le tonalità cromatiche della pellicola sulla scala di marroni, grigi e neri rischiarati dai lumi di candela. Fino ad arrivare alla rappresentazione dello spirito, dei moti dell’anima sublimati in poesia.

«Io non sapevo che si potesse scrivere il proprio dolore in maniera così confidente, finché non lessi la storia d’amore di Beatrice e della sua morte. In quell’emozione lì, in quel loro sguardo c’è l’emozione del mondo» si confida Boccaccio a Donato degli Albanzani (Enrico Lo Verso).

Ecco che episodi della storia tra Dante e Beatrice, tratti dal Trattatello e dalla Vita nova, prendono forma sullo schermo in rappresentazioni figurali mirabili per composizione scenica, taglio dell’inquadratura e scelte cromatiche.

Fin dalla prima apparizione è il colore delle vesti di Beatrice che cattura lo sguardo dello spettatore: una Beatrice bambina emerge tra la numerosa figliolanza di Folco Portinari, alle feste del Calendimaggio, unica vestita di rosso («apparve vestita di nobilissimo colore, umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia», Vn II 3), «angiola giovanissima» (Vn II 8) dai grandi occhi azzurri e i fiori tra i capelli. È poi «bianchissimo» (Vn III 1) il vestito che indossa nella scena del saluto: al centro vi ora una Beatrice ormai donna, la cui snella ed elegante figura, ripresa di profilo, risalta sulla semplice facciata della chiesa sullo sfondo, mentre saluta il diciottenne Dante seminascosto dietro al muro. Allora a lui pare vedere «tutti li termini de la beatitudine» (ibidem) e fuggendo nella sua camera ha in sonno quella visione che offre la materia per il primo sonetto nella Vita nova, «A ciascun alma presa e gentil core» (ivi, 3-10): Amore, figura misteriosa e senza volto, tiene tra le braccia Beatrice, la cui nudità è parzialmente coperta da un drappo rosso, mentre piangente mangia il cuore sanguinante del poeta. Una scena che riprende quel gusto dell’orrido e dell’inquietante che accomuna molti altri momenti, come la presenza ossessiva della bambola nuziale e la visione del ballo di Beatrice con le sue damigelle, quasi un sabba orgiastico, dopo la morte di lei.

Altra icastica inquadratura è quella del primo piano di Beatrice nelle scene del suo matrimonio: un profilo preraffaellita ornato di nastri, dalla pelle bianchissima («color di perle ha quasi, in forma quale / convene a donna aver, non for misura», Vn XIX 47-48) e i capelli d’oro, che guarda dritto in camera; completano la composizione, pochi fotogrammi prima, diverse donne vestite di scuro disposte in forma d’arco sul bordo sinistro dello schermo, a circondare il viso di lei. Poco dopo sussurrerà i versi di «Tanto gentile e tanto onesta pare» (Vn XXVI 5) facendo eco alla voce di Dante, che le offre la poesia mentre la osserva salire le scale diretta all’altare.

La ricerca della composizione pittorica arriva però alla vera e propria rievocazione di opere d’arte: a partire dalla scena della morte della madre di Dante, Bella degli Abati, circondata da donne piangenti, che ricorda lo scorcio prospettico del Cristo morto del Mantegna, o quella di un Dante ormai anziano, che contempla i mosaici di Sant’Apollinare in Classe, che avrebbero ispirato il Paradiso, fino ad arrivare al superbo tableau vivant della fine, costruito su La Chiesta militante e trionfante di Andrea di Buonaiuto, in cui papa Giovanni XXII urla compiaciuto: «È morto l’eretico!».

 

                                          di Letizia Aggravi

 


[1]Come Charles S. Singleton intitolò il suo famoso saggio Journey to Beatrice (in Dante Studies, II, Cambridge 1957).

[2]Epiteto ricorrente per il poeta augusteo: If VIII 110, Pg IV 44, Pg XV 25, Pg XVIII 13, Pg XXIII 13, Pg XXV 17, Pg XXVII 52.

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