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SPETTACOLI E MOSTRE

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                      Foto di Simon Annand

The Prisoner

Testo e regia di Peter Brook e Marie-Hélène Etienne
Luci di Philippe Vialatte
Scene di David Violi
con Avec Hiran Abeysekera, Ery Nzaramba, Omar Silva, Kalieaswari Srinivasan e Donald Sumpter

Produzione C.I.C.T. – Théâtre des Bouffes du Nord

Lo spettacolo realizzato da Peter Brook - novantatré anni - insieme a Marie-Hélène Estienne sarà in Italia in prima nazionale ad ottobre (dall’11 al 20 per ROMAEUROPA Festival), nuova produzione del Théâtre des Bouffes du Nord di Parigi dove Brook insediò la sua compagnia nel 1974. La messa in scena ad aprile nel piccolo teatro Dimitri nei pressi di Locarno è stata l’occasione minuta per calarsi in un teatro la cui dimensione essenziale e mitica si è andata definendo a partire dal Mahābhārata (1985), traduzione scenica di uno dei più importanti poemi epici dell’India, considerata come summa del lavoro del maestro.

Cogliendo con sguardo trasparente e sapiente problematiche inattuali dell’umanità, nel senso di classiche e quindi sempre contemporanee, attraverso miti originari che spaziano dal Mediterraneo all’Oriente gli attori si presentano in una nudità povera, in una semplicità archetipa. In The Prisoner rivive dopo cinquant’anni un incontro che Peter Brook fece in occasione di un viaggio in Afghanistan per un film. In questo paese allora in pace incontrò un maestro sufi che condivideva con gli allievi la sua conoscenza profonda del Corano e che gli consigliò di andare a incontrare uno dei suoi vecchi studenti divenuto criminale. Egli espiava la sua colpa davanti alla porta di una prigione, in attesa di prendere, spontaneamente, nel momento scelto, la decisione di ricongiungersi con la comunità.

A partire da quel breve contatto Peter Brook e Marie-Hélène Estienne hanno riunito attori di diversi paesi in cui hanno organizzato workshop per immaginare variazioni sul tema della giustizia umana, del crimine e della punizione. Prendendo le mosse da quella sospensione volontaria, la metafora dell’uomo condannato sembra la cifra del paradossale destino umano, percorso di redenzione in cui la compassione per carnefice e vittima si confondono.

La scenografia è composta di elementi minimali, un piano vuoto, pochi rami sparsi sul terreno, dei sassi dietro cui si accende una fiamma, una scodella di metallo, delle coperte, un paese in un deserto immaginario che lascia spazio alle proiezioni di senso, gli attori a piedi nudi a contatto con la terra spoglia. In questo spazio vuoto ha inizio il racconto di un viaggiatore occidentale, doppio di Brook stesso (Sean O’Callaghan), a metà tra fiaba africana e saga orientale o mito classico.

Mavuso (Hira Abeysekera) ha ucciso il padre sorpreso a dividere il letto coniugale con la sorella Nadia (Kalieaswari Srinivasan). Nadia aveva preso il posto della madre deceduta ma il fratello, innamorato della sorella, non lo sopporta. La giustizia della società condanna il parricida a una pena di ven’anni. Ezechiel (Ery Nzaramba), zio di Mavuso, ottiene però da un giudice di essere delegato a eseguire la condanna. In seguito a una prima prova alla cui violenza Mavuso sopravvive solo grazie ai poteri guaritori della sorella, Ezechiel conduce il nipote in prigione, o meglio davanti alla prigione. Nonostante le suppliche di Nadia e i consigli di un abitante del villaggio (Omar Silva), che non comprende la norma infranta, Mavuso accetta la condanna come un cammino spirituale.

Come sua abitudine, Peter Brook ha raccolto una compagnia in varie parti del mondo, Sri Lanka, India, Inghilterra, Messico, Irlanda, microcosmo di una società possibile. In una meditazione filosofica e poetica, il Prigioniero guarda tutto il tempo il pubblico, che forse non si accorge di popolare in quel buio - con un’allusione al mito della caverna platonica - lo spazio della prigione: la vita, le vite, le catene della mente.

In una contemporaneità senza il senso del tragico che umanizza, rasserena pensare come in qualche luogo, nel teatro di Brook almeno, viva un’umanità che oltre la volgarità di confini materiali sappia incontrare l’eccesso del divino e ne tragga una purificazione salvifica.

                                            di Nazario Zambaldi

 

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