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DANTE E I DISPATRIATI
Sublimazione di un destino

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  Capitolo 6.     Esilio: affinità di destino tra Dante e i profeti   

Come Elia, il profeta nomade e perseguitato

Elia svolse la missione di profeta sotto il re Achab, che regnò dall'875 all'852 a.C. nel Regno del Nord. Ed è contro il modo di governare di questo Re e della sua moglie Gezabele che Elia esprime con coraggio e senza peli sulla lingua le sue critiche, ricambiato con una persecuzione degna di tutti i tiranni, che lo costringeva a vivere ramingo ed esule, inseguito dai killer del re.
Di fronte al lusso sfacciato di cui Achab e la regina Gezabele fanno uno sfoggio davanti ad un popolo poverissimo, Elia si presenta, fin alla prime righe del Libro dei Re, come un mendicante, un homeless, un barbone senza casa e senza patria.
Portava un abito di pelle o fatto di tessuto grossolano di pelo di cammello: una sorta di perizoma trattenuto sui fianchi da una cintura di cuoio 1. Una figura che in molti aspetti, compreso il modo di vestire, ricorda il Mahatma Gandhi.
Al profeta Elia lo scrittore Paolo Coelho ha dedicato il romanzo “Monte cinque” 2 nel quale il profeta Elia esprime la volontà indomabile di chi non si rassegna al destino.
Paulo Coelho dice, in una nota: "l'inevitabile ha sfiorato la vita di ogni essere umano su questa terra. Alcuni si sono ripresi, altri hanno ceduto".
Il profeta è un uomo che decide di vivere senza rassegnazione e di combattere senza tregua per essere artefice del proprio essere, come poi voleva il Signore.
Elia è un modello nel tema del “cammino”: testimonia sulla propria pelle la precarietà della strada, del nomadismo.

 

Nessuno è profeta in patria

Nel primo versetto che lo riguarda, Elia è fuori della sua patria: “Elia si alzò e andò a Zarepta, dalle parti di Sidone”: in terra straniera, un migrante, un profugo, un perseguitato politico.
Elia era così povero che chiese cibo e acqua ad una vedova di Zarepta, che già era in condizioni di povertà estrema e di miseria, al punto che stava per morire di fame.
Questo diede spunto a Gesù, nell’episodio in cui viene respinto dagli abitanti di Nazareth, per dire che “c’erano tante vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Zarepta di Sidone. C'erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro” 3.
Ed è in quella circostanza che Gesù pronunciò la celebre frase: Nessuno è profeta nella sua patria. Forse il commento più incisivo e autorevole per tutti coloro che sono esiliati e dispatriati.
E in questo suo esilio di fuggiasco in continuo cammino, Elia prova angoscia.
Abbiamo infatti una testimonianza amara e inquietante sul suo stato d’animo: “Elia si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro, e desideroso di morire disse: prendi la mia vita”.
Altri testi traducono: “sotto una ginestra”, fiore del deserto, al quale il poeta Leopardi ha dedicato un poemetto denso di significati.
Il paesaggio descritto da Leopardi in questa lirica colpisce per lo scheletrico squallore e per la solitudine: il deserto non è rallegrato da alcuna pianta e da alcun fiore ad eccezione dell’odorosa ginestra, che cresce persino nelle zone desertiche spargendovi qua e là i propri cespi. La pietosa pianticella, come se volesse commiserare le disgrazie altrui, esala al cielo un soave profumo che addolcisce un po’ la desolazione di quel deserto.

 

L’esilio è come la morte

Elia evoca, con il suo deserto e con la sua solitudine, il sentimento di scoramento, al punto di invocare Dio che lo tolga da questo mondo, perché non ce la fa più a sopportare l’amarezza e la tristezza della sua condizione umana. Ma non si arrende.
Anche Dante, come Elia nel racconto di Paulo Coelho, non si piega davanti ai nuovi potenti, padroni di Firenze, che erano disponibili a graziarlo a condizione che riconoscesse la propria colpevolezza e pagasse una pesante ammenda: cosa che egli rifiutò.
Oltre all’ospitalità della vedova, anche nella caverna sul monte Oreb, dove si era rifugiato e nascosto, un angelo lo toccò mentre dormiva: questo “tocco” evoca l’high touch con il quale qualcuno definisce la qualità della accoglienza e della ospitalità e la qualità dei rapporti umani positivi, un contatto positivo, una comunicazione toccante. E Elia trova una “focaccia cotta su pietre roventi “: cotto alla maniera araba, quasi un’anticipazione della pizza 4.
Il tema dell’esilio si unisce al tema del pane che assilla tutti gli esuli e che in questo contesto diventa quasi il simbolo di cibo per chi è in cammino, quasi un viaticum 5.
Anche nel nostro vocabolario parliamo di “viatico” come presenza di Gesù che diventa cibo di conforto per le persone che sono malate o sono nel momento del loro “passaggio” verso l’altro mondo.

 

Geremia, infangato e scacciato dalla patria

Non si comprendono le profezie
se non quando le cose sono accadute.
(Blaise Pascal)

Un altro profeta che condivide con Dante la condizione precaria della persecuzione e della morte civile è Geremia.
Geremia era nato ad Anathoth, da famiglia sacerdotale discendente da Abiatar, deposto ed esiliato da Salomone (1Re 2,26s): lo stigma dell’esilio e della emarginazione era già inciso nella sua vita.
È un profeta di grande attualità e sembra vivere tra noi ancora oggi. È famoso per le sue critiche durissime alla classe politica del suo tempo e alla corruzione che regnava ovunque, soprattutto in alto, nel governo e nei sacerdoti.
Geremia in un versetto fa dire a Dio una verità politica illuminante:
“Che dirai tu, popolo, quando egli ti punirà? Ma tu stesso hai insegnato a loro – capitani e capi – a dominare su di te” (Ger 13,21)
Purtroppo, è spesso la stessa società civile degli oppressi che permette a loro di governare in questo modo pieno di incompetenza, corruzione e prostituzione.
In modo spiritoso Geremia al versetto 23 fa una battuta pungente, in forma di paradosso:
“Può un Etiope Cusita 6 cambiare la sua pelle e diventare bianco o un leopardo 7 essere smacchiato?”: smacchiare un leopardo o un giaguaro è facile a dirsi, ma se poi non si ha la volontà di farlo veramente, il paese rimane quello che era e sarà sempre quello che è.

Il re Sedechia, che siede sul trono a Gerusalemme quando Geremia comincia la sua missione di profeta, lo perseguita perché è considerato un disfattista, un “gufo”, che mina il morale della nazione, annunciando la prossima invasione dei babilonesi.
E quando i babilonesi assediano Gerusalemme (sventura prevista da Geremia) i politici e i notabili del cerchio magico di allora lo fanno gettare in una vecchia cisterna fangosa, inventando per primi la macchina del fango.
Un bel coraggio mettersi contro tutti, compresi i preti e il papa, come ha fatto Dante per amore della verità e della giustizia. Ha continuato imperterrito, con un coraggio eroico.

 

Condannato dai suoi concittadini e ammirato dagli altri

Al momento della conquista babilonese gli fu data la possibilità di restare a Gerusalemme o seguire i deportati in Babilonia. Geremia scelse di restare con la popolazione povera del suo paese (39,11-14). I babilonesi non lo consideravano un nemico, dal momento che, durante l’assedio, egli aveva esortato il re e il popolo ad arrendersi.
La sua salvezza, infatti, è dovuta all’intervento provvidenziale di Nergal Sharez, il capo dei magi: Geremia lo indica con il titolo di rab mag (maestro magio), che era venuto al seguito dei babilonesi e che manifesta ammirazione per lui: perseguitato a casa sua, è ammirato e rispettato da un saggio che viene dall’estero.
È quanto accadde anche al nostro poeta, che ottenne onori e ammirazione sincera da molti non fiorentini, come Cangrande, Novello da Polenta e Gherardo da Camino.

 

Lamentazioni

C’è qualche motivo in più per capire come mai Geremia è famoso anche per le sue “lamentazioni”?
E Dante non fa mancare le sue lungo tutto il percorso della Divina Commedia.
L’esordio delle lamentazioni di Geremia è un “pianto su Gerusalemme”, che “è diventata come una vedova e la signora fra le province è diventata una tributaria” 8.
Leggendo il canto VI del Purgatorio, Dante mette in bocca a Sordello una lunga lamentazione che potremmo definire “pianto sull’Italia”:

Ahi, serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!”
(Purgatorio VI 76-78)

Come Dante, Geremia provò nell’intimo la lotta tra il cittadino che ama sinceramente la sua patria e il profeta che ne prevede e ne annuncia la rovina. Divenne, suo malgrado, una Cassandra scomoda per i suoi concittadini corrotti della città di Anatot, dov’era nato e cresciuto: la loro persecuzione gli fu particolarmente dolorosa, come dolorosa fu a Dante quella dei suoi concittadini di Firenze.

 

Una persecuzione immeritata

Se noi facciamo una analisi comparata delle espressioni che Geremia usa per esprimere il suo sconcerto di fronte ad una persecuzione immeritata con la consapevolezza che anche Dante aveva di essere un “exul immeritus” (un esilio immeritato), possiamo confermare la similarità assunta con questo profeta, perfino nella metafora della cintura di lino marcita, che diventa anche simbolo di povertà, abiti logori e stracciati.
Tuttavia, la sua elaborazione del lutto crea in lui una metamorfosi o una sublimazione:

  • da esule a “pellegrino” verso la vera patria celeste,
  • da uomo privo di uno spazio fisico e sociale a Firenze a uomo aperto al mondo e ad una missione universale, come appunto i profeti, il cui messaggio è imperituro e ancora vivo, mentre tutti coloro, compresi i re e i potenti, che li hanno perseguitati, esiliati o addirittura uccisi sono relegati nell’insignificanza più assoluta.

 

Consolazioni e sublimazione del destino

Ma Geremia, oltre al Libro delle lamentazioni, scrisse anche il Libro delle consolazioni, dove sono raccolti i poemi della speranza:
“Verranno giorni nei quali cambierò la sorte del mio popolo, d’Israele e di Giuda, e li ricondurrò nella terra che ho concesso ai loro padri e ne prenderanno possesso. In quel giorno - oracolo del Signore Dio degli eserciti – romperò il giogo togliendolo dal suo collo, spezzerò le catene; non saranno più schiavi degli stranieri…poiché io libererò te dal paese lontano, la tua discendenza dal paese del suo esilio” (Geremia 30, 8-10).
Anche in questo abbiamo una similarità con Dante, che esprime la sua speranza di vedere un’Italia unita e libera dagli stranieri.

                                                             

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12 Re 1:8; 1 Re 19:13.

2Monte cinque, Tascabili Bompiani, 1998.

3Luca 4,25-27.

4Nel XVI secolo a Napoli ad un pane schiacciato venne dato il nome di pizza.

5Il latino viaticum, attraverso il provenzale viatge, dà origine alla parola italiana viaggio, e, nelle altre lingue neolatine, alla parola francese voyage, alla parola spagnola viaje, alla parola portoghese viagem e alla parola rumena voiaj). Per dimostrare la delicatezza del tema del “pane” per coloro che vivono nella povertà e nella emarginazione, il termine adottato dall’economia per definire la linea della sopravvivenza è proprio “breadline”.

6Il termine “cusita” fa riferimento a una popolazione residente nella Penisola Arabica o in Africa e spesso equivale a “etiope”, pertanto con la pelle scura. Una delle mogli di Mosè era “cusita”, ossia di stirpe etiope, quindi Mosè stesso si sposò più volte con donne di stirpe non ebraica, dando di sé una immagine tutt’altro che fondamentalista o integralista

7Immagine che evoca un altro animale preso a simbolo di opportunismo e cinismo politico: il gattopardo di Tomasi di Lampedusa.

8Geremia, Lamentazioni, 1,1.

 

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