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DANTE E I DISPATRIATI
Sublimazione di un destino

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  Capitolo 2.     La Divina Commedia come infinito viaggiare   

Infinito viaggiare e viaggio verso l’infinito

La sua Divina Commedia è in effetti un viaggio “altrove”, con tutte le caratteristiche antropologiche del viaggio: un infinito viaggiare che diviene un viaggiare verso l’infinito.
Dante è penetrato fino al limite più intimo e inquieto nel dramma del dispatriato e, fra tutti coloro che hanno patito questo dramma esistenziale, è forse quello che ha saputo sublimare il dolore, l’angoscia e la precarietà di questo stigma, con un poema fra i più grandi della letteratura mondiale.
Ed è curioso constatare che anche altri grandi a lui quasi contemporanei, come Petrarca e Boccaccio, fondatori insieme con Dante della lingua e della letteratura italiana (e della cultura a fondamento della nostra identità) hanno avuto esperienze analoghe.
Una citazione del Petrarca rende in modo vivo questo dramma, allorquando il poeta, ramingo e solo, lontano dalla sua patria (la Toscana), diventa un rifugiato politico accolto dalla Repubblica di Venezia, che allora era l’unico stato accogliente e cosmopolita d’Europa:

« Venezia, Città unico albergo ai giorni nostri di libertà, di giustizia, di pace, unico rifugio dei buoni e solo porto a cui, sbattute per ogni dove dalla tirannia e dalla guerra, possono riparare a salvezza le navi degli uomini che cercano di condurre tranquilla la vita, Città ricca d'oro ma più di nominanza, potente di forze ma più di virtù, sopra saldi marmi fondata ma sopra più solide basi di civile concordia ferma ed immobile e, meglio che dal mare ond' è cinta, dalla prudente sapienza de’ figli suoi munita e fatta sicura » 1.

A differenza di molte altre città e signorie del suo tempo, Venezia fu oggetto di ammirazione e di stima da parte di Dante, che dedicò alla Serenissima alcune terzine di omaggio per l’Arsenale, che costituiva l’emblema stesso della potenza dello stato e della sua ricchezza e capacità imprenditoriale e ingegneristica.

Quale ne l’arzanà de’ Viniziani
bolle l’inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,

ché navicar non ponno – in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece;

chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa;

tal, non per foco ma per divin’arte,
bollia là giuso una pegola spessa,
che ’nviscava la ripa d’ogne parte.
(Inferno, Canto XXI 7-18)

Se la società e la cultura italiana è stata generata da questi tre grandi, accomunati da uno status di dispatriati o di rifugiati politici, nei secoli successivi e ancora oggi constatiamo che nel nostro paese molti nostri “grandi”, salvo eccezioni, hanno avuto anch’essi questo stigma e la fuga di molti cervelli e giovani geniali dal nostro paese potrebbe trarre la sua origine da questo imprinting: un paese nel quale ci sguazzano felici i peggiori e i mediocri, mentre gli uomini più creativi e liberi preferiscono spesso andare altrove.

 

Dispatriato: parola nuova, dramma antico

L’espressione è un neologismo per significare qualcuno cui hanno tolto la patria.
Il termine è stato nobilitato dal grande scrittore Luigi Meneghello 2, con il suo libro “Il Dispatrio” (Rizzoli, 2000), nel quale lo scrittore racconta il suo “trapianto” dall’Italia (che egli definisce il paese dei balocchi) all’ Inghilterra (il paese degli angeli) 3.
Il dispatrio diviene così la testimonianza per capire un uomo e il suo trauma nell’incontro con una nuova patria dopo essere stato privato della propria.
Dante è emblema di questa condizione esistenziale, alla quale, con la sua opera di poeta geniale e con la sua stessa vita, ha dato una profondità ineguagliabile: egli ci apre un orizzonte vastissimo di riflessioni che includono letteratura, poesia, ontologia, teologia e ogni tipo di scienze umane 4.
La sua opera principale, La Divina Commedia, inizia con tutti gli elementi di uno smarrimento esistenziale tipico di chi si trova in una terra straniera: il viaggio, l’angoscia, l’esperienza di una nuova conoscenza.
Anche Gesù ha avuto anche questa esperienza, insieme alla sua famiglia. Tutta la teologia su Gesù è una teologia di dispatriato.
Ha lasciato la sua patria e il suo status (il suo essere Dio), per venire nel mondo dove «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell'uomo non ha dove posare il capo» (Matteo 8, 20). Tutta la teologia che riguarda Gesù di Nazareth è una teologia del Deus Viator, del dio che scende in mezzo a noi, che cammina con noi, che è percepito come estraneo, come una persona da evitare, infangare, distruggere, uccidere.

 

La Divina Commedia come ermeneutica dell’homo viator

Dante elabora con la Divina commedia una sintesi potente dell’essenza umana proprio sul tema del cammino, allo stesso modo di Omero. L’esule fiorentino assume una direzione ermeneutica fitta di indicatori che egli sa estrarre da tutte le grandi tradizioni culturali, ma sempre all’interno di un posizionamento letterario e morale di exul inmeritus, di persona del “cammino” e dell’estraneità.
La comparazione tra le varie lingue-matrici (greco, latino e gotico) ci offre una forma di gioco di rimandi, che contiene una traccia del concetto espresso: il viaggio è rischio e perciò cambiamento, rottura, fatica; è “travaglio “(significato che rimane nella parola “travel”, con cui l’inglese chiama normalmente il viaggio: come se partire e andare sia la premessa per nascere di nuovo e provare i dolori del parto.
Per l’analisi delle radici linguistiche che accumunano il viaggio con i significati di cammino, pericolo ed esperienza o sapienza, rimando alla nota n.9.

 

Nel mezzo del cammin

Il tema del “cammino” verso l’altrove in Dante è esplicito: “nel mezzo di cammin di nostra vita”.
Ma insieme al cammino c’è subito il senso dello smarrimento e dell’angoscia: “mi ritrovai per una selva oscura, che la dritta via era smarrita”.
La parola “paura” ricorre cinque volte nei primi versi e le espressioni di pena e di angoscia sono più volte ripetute: “ tanta è amara (la paura) che poco è più morte”, “il cor compunto”, “la notte ch’io passai con tanta pièta”, “con lena affannata”, “ in tutti i suoi pensier piange e s’attrista”, “Mentre chio ruvinava in basso loco”, fino al disperato grido che Dante rivolge a Virgilio: “miserere di me, gridai a lui”.

Tabelle n.1: Il quadro comparativo dell’incipit della Divina Commedia con le radici etimologiche riportate nella nota n.9 del primo capitolo: illustra in modo inequivocabile l’aderenza di Dante ai significati più profondi e ai codici più antichi del senso del viaggio:

Andare                                  Rischiare                                          Imparare dall'esperienza del cammino

IL TEMA DEL PER-IRE         AL QUALE È IMPLICITO IL              MA CON IL CORAGGIO IL CAMMINO
                                               DEL PERICULUM                             DIVENTA EXPER-IENTIA

Nel mezzo del cammin          Mi ritrovai in una selva oscura           Perché non sali il dilettoso monte
                                              Chè la dritta via era smarrita              Ch’è principio e cagion di tutta gioia?
                                                                                                         Oh se’ tu quel Virgilio e quella fonte…
                                                                                                         de gli altri poeti onore e lume

 

L’esperienza angosciosa del cammino

E qui, con la figura di Virgilio, entra in campo il terzo elemento che caratterizza il tema del cammino, del viaggio (in questo caso agli inferi): l’esperienza angosciosa di “andare” fuori dalla vita conosciuta e dalla propria vita sicura, nella propria casa, apre gli spazi a nuove conoscenze. E infatti Dante chiama Virgilio “de gli altri poeti onore e lume”.
Guy de Maupassant ha una espressione molto esplicita in questo senso: “Il viaggio è una porta attraverso la quale si esce dalla realtà conosciuta e si entra in un’altra realtà inesplorata, che assomiglia al sogno”.
Se, infatti, si prova a caratterizzare il senso profondo, nascosto nelle antiche etimologie, del viaggio, del partire altrove, si ritrovano, in modo esaustivo e straordinariamente illuminante, tutti tre le componenti: il cammino, la fatica e l’angoscia, l’esperienza.
Omero, nel definire Odisseo, lo chiama, già nel primo versetto del suo poema, “polytropos“: questo termine viene tradotto, normalmente, con il termine “multiforme“, oppure “ingegnoso“, in realtà significa letteralmente “uno che ha molto viaggiato “, l’uomo di grandi e molteplici spostamenti, movimenti, percorsi. Ed è in virtù, infatti, di questa molteplice esperienza del viaggio, che Odisseo diviene anche uomo esperto, sagace, poliedrico.
Ritorna con estrema chiarezza il concetto della “coincidenza “linguistica tra l’intensità del viaggio e l’intensità della propria esperienza (che diviene sapienza, creatività, scoperta).
Allo stesso tempo, però, nel primo versetto del sesto canto 5, Omero lo definisce anche "polytlas" ossia l’uomo che ha patito molto, che ha sopportato fatiche, rischi e travaglio (travel).

 

Il cammino come anima della fede e della civiltà

La nostra civiltà europea scaturisce da queste due fonti di eccellenza:

  • Abramo per la fede in un solo Dio, la demistificazione di ogni altro dio presunto (soprattutto degli uomini di potere), che ci tiene schiavi e bloccati, fermi, con le catene della stanzialità e della sicurezza (relativa) a scapito della libertà e della leggerezza creativa del pensiero nomadico,

  • e Omero per la civiltà del contratto sociale e della cultura della ospitalità 6, che si contrappone alla cultura della ostilità, rappresentata dall’Iliade, nella quale l’incipit parla di lutti, ira funesta e crudeltà, rappresentate da eroi ai quali Omero stesso non risparmia critiche durissime e profili sgradevoli, proprio mentre trapela una lampante simpatia ed empatia con Ettore e Andromaca

In Dante questo trinomio etimologico (cammino, paura/rischio e sapere), che in tutte le lingue indoeuropee, come in un codice segreto e durevole, è riuscito a rimanere nascosto per migliaia di anni, quasi fosse il segreto stesso dell’essere umano nel mondo, lo sviluppa in termini di contrapposizione tra la cultura della ostilità e del peccato (inferno), con la cultura del per-dono (Purgatorio) e con la cultura della eterna sapienza e della felicità della visione di Dio (para-diso).

 

Odisseo e l’ebraismo

Jeremy Rosen, rabbino ebreo di New York, in un saggio intitolato “Odisseo e l’ebraismo” 7, conferma una profonda affinità tra Omero con la sua Odissea e Abramo con il suo lungo cammino e scrive che “Il leggendario eroe greco, Odisseo, dopo aver combattuto la guerra contro la città di Troia con gli altri greci, iniziò il suo viaggio verso casa da sua moglie e suo figlio.
È stato respinto per dieci anni durante i quali ha sopportato vicissitudini e drammi uno dopo l'altro. E ognuno di essi gli viene inflitto dalle gelosie e dalle rivalità capricciose degli dei greci. In un certo senso questo mi ricorda le dieci prove di Abramo. La sofferenza e il dolore possono rafforzarti”.
E facendo riferimento ad un'altra interpretazione di Odisseo, l’Ulisse di James Joyce, Jeremy Rosen afferma che “James Joyce ripercorre o meglio adatta la saga di Ulisse, attraverso le banali esperienze di personaggi irlandesi, tra cui un ebreo assimilato con il nome di Leopold Bloom che vive a Dublino. Il tema, nella misura in cui ce n'è uno, è un penoso viaggio attraverso la vita”.
In altre parole una riedizione del "politlas" di Omero, ma senza la trasformazione che avviene nell’eroe omerico: Joyce, con un sarcasmo contorto e sublime, anticipa la confusione grigia e mediocre con la quale la società contemporanea, a partire dal novecento, non ha più nessuna aspirazione ad un cammino autentico e creativo, ma ad una ricerca ossessiva di una banalizzazione del viaggio, della sessualità, del cibo, dei consumi 8.
Il viaggio di Abramo, che si conclude con la scoperta di un Dio unico, e il viaggio di Odisseo, che si conclude con una nuova identità e una cultura aperta e polivalente, sono ormai solo archetipi rimossi, in cambio di una fissità totalizzante e ossessiva su sé stessi e su una rendita di posizione 9.

 

L’enigma del Salmo 118

Il Salmo 118 è un Salmo speciale, perché sta al centro di tutti i libri della bibbia e rappresenta veramente il “cuore” più profondo della rivelazione e quindi il significato più intimo della venuta di Gesù 10:
“Beato chi è integro nella sua via e cammina nella legge del Signore:siano ferme le mie vie, camminiamo nelle sue vie, il giovane conserverà puro il suo cammino, sulla via delle tue testimonianze gioisco, considero i tuoi sentieri, ospite sono nel paese e forestiero sono qui sulla terra, la via dei tuoi comandi fammi comprendere, la via della menzogna allontana da me, ho scelto la via della verità, insegnami la via dei tuoi precetti, indirizzami sul cammino del tuo volere e camminerò al largo , considero le mie vie e rivolgo il mio piede verso le tue testimonianze, da ogni cattivo sentiero trattengo il mio piede, insegnami la via dei tuoi decreti…dammi intelligenza perché io custodisca la tua legge…perché la osservi con tutto il cuore e la custodirò sino alla fine, accarezzo il tuo volto di tutto cuore, lucerna al mio piede è la tua parola e luce al mio cammino, la tua legge è verità, rinsalda i miei passi con la tua parola, fammi istruito e vivrò, tutte le mie vie ti sono davanti, errai come pecora spersa, la somma delle tue parole è verità”.

 

Il tema del cammino, della sofferenza e della conoscenza

Dante, con il suo poema, interpreta tutta la storia dell’umanità, la cui essenza evolutiva è legata intimamente al tema del cammino.
Questo concetto è provato scientificamente dall’antropologia e dalla etnologia, secondo le quali l’uomo è diventato l’homo sapiens attuale solo grazie ai “piedi”, ossia al suo nomadismo incessante, al punto di aver trovato la propria identità nella capacità di saper trovare nuove terre, nuovi percorsi, con un continuo senso della scoperta, con un continuo esercizio di problem solving, di rielaborazione delle esperienze inedite che trovava lungo il cammino, dimostrando un coraggio “migratorio” che partiva dal suo intimo.
Seneca attribuiva questo comportamento ad una “curiosità insaziabile” che ha plasmato l’intelligenza in modo innovativo e creativo: nel De otio 11 dà una breve spiegazione del motivo per cui l’uomo è in perenne movimento (Curiosum nobis natura ingenium dedit): l’uomo, con la sua innata irrequietezza, ha sempre cercato di andare “altrove” per vivere “altrimenti”.
E Claudio Magris: definisce questa irrequietezza esistenziale (o ontologica) “la condizione spirituale dell’uomo come viaggiatore, di cui parla la teologia”.
E nel suo celebre testo “L’infinito viaggiare12, dà un affresco antropologico applicabile anche all’esilio e al dispatrio:
Viaggiare insegna lo spaesamento, a sentirsi sempre stranieri nella vita, anche a casa propria, ma essere stranieri fra stranieri è forse l’unico modo di essere veramente fratelli…La strada è una dura, ma anche buona maestra…(per) tener aperti quegli spiragli attraverso i quali può irrompere nella vita il senso di ciò che trascende, l’intuizione dell’eterno”.
Il cammino di Dante non può avere un commento più sintetico e ricco di significato come questo.
E in “Pour une ontologie de l’exil» Vera Linhartova 13 scrive una frase bellissima: “Le mie simpatie vanno ai nomadi, io non possiedo l’anima di una sedentaria. Anch’io posso dunque affermare che il mio esilio è venuto ad esaudire ciò che da sempre era il mio voto più caro: vivere altrove”.

Nomadismo come essenza dell’essere umano

Per Jacques Attali 14 l'uomo, fin dalla sua apparizione sulla terra, è nomade, come parte della sua stessa essenza. Gli storici sono unanimi nel mettere in relazione la civiltà con il passaggio dell’uomo dal nomadismo alla stanzialità in seguito alla invenzione dell’agricoltura.
Ma confondere il nomadismo con lo stato selvaggio e primitivo, o addirittura con la barbarie, è, secondo Attali, assolutamente errato.
Anche per Attali la maggior parte delle scoperte e delle innovazioni precedono l’era della stanzialità: “il fuoco, i riti, l’abbigliamento, la caccia, gli utensili essenziali, l’arte, le lingue, la musica, la pittura, la scultura ,il calcolo ,il peccato, l’ etica, l’arco, il commercio, i mercati, la legge, la barca, la metallurgia, la ceramica, l'allevamento e la scrittura sono lì molto prima che i nomadi decidano di stabilirsi come contadini. E ci sono ancora altri nomadi, un po’ 'più tardi, che inventeranno l’equitazione, la ruota, l'alfabeto, il libro, la marina, la vita comunitaria, con la sua struttura fondamentalmente egualitaria, e infine Dio”.

 

 

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1In una lettera inviata ad un suo amico di Bologna nell'agosto del 1321, così descriveva la Serenissima Repubblica di Venezia che lo aveva accolto dopo un lungo peregrinare.

2Il termine è stato adottato probabilmente per la prima volta dal dantista inglese John Alfred Scott, mentre, secondo Elena Trapanese, della Universidad Autónoma de Madrid, il primo inventore della parola despatriado è Miguel de Unamuno. Altri termini elaborati nella cultura spagnola furono: transterrado (“trapiantato”, termine creato dal filosofo José Gaos), expelido (termine ibrido tra “espulsado” e “exiliado”) o addirittura descielado, “sradicato dal cielo” e, sempre secondo l’autrice, sono “molti i nomi dati all’esilio: destierro (confino, sradicamento, esilio), refugio (rifugio), desarraigo (sradicamento), exilio (esilio)” (in: Funes. Journal of narratives and social sciences Anno 2017 Vol. 1).

3Paese degli angeli è un’espressione che Meneghello riprende da un racconto di Beda il Venerabile e che è attribuito a papa Gregorio, il quale, prima di diventare papa (e non ancora santo) in un giro al mercato a Roma vede dei giovani schiavi: bellissimi, bianchi di carnagione, con una splendida capigliatura. Fatto sta che Gregorio è rapito e domanda di loro: “Chi sono? Angli? O angeli? Angeli a lui paiono, tanta è la luce che emanano”.

4Il poema di Dante si presenta come una summa del mondo scientifico, filosofico, teologico, politico e culturale del Medioevo: la filosofia scolastica e aristotelica, filtrate e trasmesse all’occidente europeo attraverso gli arabi, che avevano tradotto le opere della cultura greca in arabo e, nel califfato di Cordoba, tradotte dall’arabo in latino e, sempre attraverso gli arabi, sono state diffuse conoscenze scientifiche, astronomiche e matematiche, che hanno avuto una vasta eco nello sviluppo scientifico europeo: gli arabi erano molto più avanzati degli europei in quasi tutte le scienze. Un esempio emblematico ancora attuale nelle nostre nuove tecnologie è quello del matematico Al Kawarizmi, che ha un ruolo fondamentale nell'algebra (un termine di origine araba), che è alla base dell'informatica, perché la parola "algoritmo" stesso è un’elaborazione linguistica di Al Kawarizmi. Dante era anche cultore della teologia, soprattutto di Tommaso d’Aquino, e della politica, con i richiami alle forme di governo come la Monarchia Universale, che anticipa, in qualche modo, la visione di una autorità istituzionale internazionale come l’attuale ONU o l’Unione Europea.

5È il canto dell’incontro tra Odisseo e Nausicaa, che Omero descrive come una interprete magnifica della ospitalità e della accoglienza, divenendo così il paradigma di tutti coloro che hanno il compito di “accogliere” l’ospite.

6Vedi nota n.8. Il concetto greco di ξενια ("xenia") aveva all’origine (attico antico) il significato di patto, di accordo, di intesa e di alleanza.

7Testo tratto da: Rabbi Jeremy Rosen Jeremy Rosen's Thoughts & Commentary, Web browser, on Dec 04, 2018 12:30 pm.

8Joyce introduce Bloom con queste parole, dalle quali emerge nettamente la “banalità” del percorso esistenziale contemporaneo tra consumismo e grigiore: «Mr. Leopold Bloom mangiava con gran gusto le interiora di animali e volatili. Gli piaceva la spessa minestra di rigaglie, gozzi piccanti, un cuore ripieno di arrosto, fette di fegato impanate e fritte, uova di merluzzo fritte. Più di tutto gli piacevano i rognoni di castrato alla griglia che gli lasciavano nel palato un fine gusto d'urina leggermente aromatica”.

9Soprattutto “finanziaria”, ossia fare soldi con i soldi: obbligazioni subordinate, derivati, trucchi e truffe finanziarie, bitcoin…Il successo attuale di questa moneta criptata è indicativo della miseria morale di cui il Leopold Bloom di Joyce è la traccia antropologica perfetta.

10Infatti vi sono 594 capitoli prima del salmo 118 e 594 capitoli dopo questo salmo. Se sommiano questi numeri otteniamo 1188: e se osserviamo il versetto 118 – 8 il credente esprime il suo atto di fede totale: “Voglio osservare i tuoi comandi, non abbandonarmi mai”.Il fatto che abbia una posizione “centrale” rispetto all’intera Bibbia e i tre temi (via, verità e vita, ma soprattutto il tema della via e del cammino) abbondino in continuazione nel testo, può voler significare che questa triade rappresenta veramente il “cuore” più profondo della rivelazione e quindi il significato più intimo della venuta di Gesù.

11De Otio, V°,3.

12Claudio Magris, L’infinito viaggiare, Mondadori 2005.

13Scrittrice e storica della Repubblica Ceca, fu “dispatriata” nel 1968, anno della invasione dell’Armata Rossa contro la Primavera di Praga.

14Attali J., L’homme nomade, Ed. Fayard,2005. Anche un altro grande autore francese ha fatto una lettura molto profonda del nomadismo con il suo libro sul “pensiero nomadico” (Gilles Deleuze, «Pensée nomade», dans L’île déserte et autres textes 1953-1974, Paris, Minuit, 2002).

 



 

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